
Oltrepassando Porta Ticinese, camminando verso Viale Gorizia, lo scorcio della Darsena si schiude lentamente, aprendo un primo piano gigantesco di Cristiano Ronaldo. Sul cartellone pubblicitario il volto di Cristiano Ronaldo è diviso a metà, come se si stesse trasfigurando in una specie di essere bionico: un’immagine che rimanda alla fantascienza, eppure ha una scorza d’innegabile realismo. Se Cristiano Ronaldo è l’attuale testimonial principe Nike non è solo per la sua grandezza calcistica, ma anche per come questa combacia quasi alla perfezione con la narrazione di Nike: quella di un calcio sempre più veloce, potente, diretto, elettrico, pazzo. Flashy. Lo stile di gioco di CR7 e l’immaginario calcistico della Nike si corrispondono al punto che è quasi impossibile capire dove finisce l’uno e inizia l’altro.
Il cartellone pubblicitario fa riferimento al lancio del nuovo modello di scarpini Mercurial Superfly, che Cristiano Ronaldo ha utilizzato per la prima volta nella finale di Champions League, incurante della regola secondo cui un paio di scarpe si “smazzano” prima, nelle partite meno importanti. Con l’Ultimo Uomo abbiamo aiutato Nike nella campagna di comunicazione per il lancio delle nuove Mercurial. La presentazione ufficiale, a chiudere, si è svolta lungo una tre giorni di eventi in uno spazio espositivo aperto in Via Vigevano, Milano, zona Porta Genova.
Quello che segue è un racconto, il più onesto possibile, di cosa ho visto, annusato, bevuto e mangiato in questi due giorni insieme a Nike. E a San Siro, nella finale tra Atletico e Real.
27 maggio, innanzitutto scarpe
Camminando da Porta Genova ci si accorge molto prima dello spazio espositivo perché fuori dal palazzo partono una serie di gigantesche bandiere verticali con sopra un uomo-Nike-bionico che corre. All’ingresso c’è una discreta folla, in cui si mescolano ragazzi che hanno prenotato la visita allo spazio con tifosi invasati che aspettano l’arrivo dei calciatori per un autografo.
Vengo accolto da alcune responsabili della comunicazione. Informazioni di servizio: sarò insieme al gruppo “Southern Europe” (Italia, Spagna, Portogallo), diverso da “Western Europe” (Francia, Inghilterra), e tra poco parte il tour di presentazione per noi media. Siamo stati invitati a twittare in diretta sull’evento, ci hanno dato il tag e l’hashtag di riferimento, ma non ci hanno dato indicazioni molto stringenti su quello che si aspettano. In sostanza possiamo fare quello che ci pare. Una cosa che ho imparato dall’esperienza è che brand di questo tipo si aspettano da te nient’altro che il tuo lavoro solito, cioè l’esatto motivo per cui hanno pensato di coinvolgerti. Se quindi non troverete scritto che le Mercurial fanno schifo è, molto semplicemente, perché non lo penso.
Appena entrati nello spazio si è accolti da una McLaren-Mercurial da corsa rossa parcheggiata nel cortile. La sua presenza non serve solo a ricordarci che il topos principale è quello della velocità, della mega velocità. Accogliendoti con un’automobile che nessuno può permettersi - e chi può permettersi non può usare per andare a fare la spesa - ci stanno dicendo subito che siamo entrati in uno spazio altro rispetto a quello della quotidianità. Tutto quello che vedremo, da quel momento in avanti, sarà nell’ordine del: magico, fantastico, alieno, incredibile e, come minimo, futuristico.
*Immaginate tutte le possibili combinazioni di battute tra questa macchina e il fatto che fosse presente Bobo Vieri*
Nel cortile ci sono delle luci fucsia e verdine che creano un’atmosfera un po’ sintetica, eppure elegante. Certo, di un’eleganza aggressiva, come potete immaginare un evento Nike dedicato a un modello di scarpe. Arriva una delle nostre guide, Max Blau, che ci spiegherà, in sintesi: la rivoluzione delle nuove Mercurial, quanto è importante per Nike l’innovazione, quanta cura c’è nei prodotti. È uno di quegli uomini che riesce a gesticolare molto senza perdere virilità. Mi sono perso una discreta parte del suo discorso perché ero circondato da stimoli che risucchiavano la mia attenzione. Ad esempio, per entrare nello spazio “performance” si passa attraverso un corridoio buio con ai lati una lunga schiera di scarpini custoditi da teche illuminate e messi in ordine cronologico.
Sembrano reliquie. A osservarli tutti vicini, le sfumature d’innovazione tra uno scarpino e l’altro sono sul serio impressionanti. Più grossolanamente possiamo dividere un’epoca in cui ci piacevano le scarpe nere da una in cui ci piacciono le scarpe colorate, che comincia approssimativamente nel 2005, come se a un certo punto l’uomo avesse inventato il colore.
Questa è nostalgica.
All’interno sembra di stare in un autodromo. In sottofondo rumori di automobili che rombano e, tutto intorno, visual che richiamano i colori e i temi principali della campagna. Su uno schermo in particolare l’immagine orizzontale di un’automobile da F1 sfreccia fino a disintegrarsi in mille scaglie che finiscono per ricomporsi nella faccia di Cristiano Ronaldo. Marinetti sarebbe andato fuori di testa con questa roba. Al centro dello spazio il manichino di un giocatore accovacciato in posizione da corsa che si lascia indietro pezzi del proprio corpo, come se non avessero retto l’urto del dinamismo.
Poco dopo incontriamo il designer delle Mercurial, Jeongwoo Lee, un ragazzo coreano che corrisponde a quasi tutti gli stereotipi positivi sull’oriente: è gentile, controllato, parla a bassa voce e fa venire voglia di abbracciarlo. Il suo discorso scende più sul tecnico: ci spiega come ogni micro dettaglio delle Mercurial riesca a migliorare la performatività degli atleti, che qui è pura religione. Un concetto riassunto dallo slogan che ci ripetono come un mantra: “Le Mercurial non sono uno scarpino, sono un sistema”. La flessibilità della punta, la tecnologia “superfly”di cui è fatto il rivestimento, le piccole zigrinature sull’interno del piede per migliorare il contatto col pallone, il posizionamento dei tacchetti che permette un “grip” migliore col terreno. La leggerezza irreale, quasi smaterializzata, così tipica di qualsiasi oggetto di consumo degli ultimi anni.
Per costruirle hanno analizzato in profondità lo stile di gioco di alcuni atleti Nike. Si sono accorti che Cristiano Ronaldo ama toccare il pallone con la parte esterna del piede mentre conduce, e allora hanno provato a migliorare il più possibile l’aderenza di quella parte tra piede e scarpino, e tra scarpino e pallone. Il giorno dopo ce le hanno fatte provare in uno speed test: dovevamo scattare su una distanza di 20 metri e sullo schermo compariva la differenza di tempo tra te e Cristiano Ronaldo, o tra te e Martial, o tra te e Hazard. Purtroppo le Mercurial non mi hanno fatto volare come speravo e Cristiano Ronaldo è riuscito quasi un secondo su 20 metri.
Quando devo intervistare il designer sono un po’ in difficoltà perché non sono un fanatico di scarpini o sneakers e con la sua spiegazione mi pare di aver raggiunto il massimo di approfondimento su delle scarpe che il mio cervello può reggere. Gli chiedo quanto sono importanti i calciatori in questo processo creativo, se partecipano in qualche modo. Mi dice che sentono i giocatori abbastanza spesso (è impossibile farsi un’idea su quanto spesso), “giocatori come Cristiano o Dybala” mi dice. Quello che gli chiedono, in sostanza, è di dargli dei superpoteri: “ci dicono: potete migliorarmi il controllo palla?! Potete farmi andare più veloce?!”.
E me lo immagino davvero, Cristiano Ronaldo, così maniacale su ogni dettaglio, chiamare Nike con l’ansia, chiedendo di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per migliorare ogni singola micro piega del suo gioco. Dall’aderenza al suo collo esterno, alla resilienza della scarpa per le sterzate in velocità.
Nello specifico Nike ha anche un dipartimento che si occupa di esaudire le richieste più perverse dei principali calciatori sponsorizzati: è una piccola azienda di Montebelluna, in Veneto, che lavora sugli scarpini Nike con metodo artigianale. Si tratta dell’unico centro di produzione Nike in Italia, anche se rappresenta un vero fiore all’occhiello. Il giorno dopo ci hanno fatto incontrare gli artigiani, due signori veneti sulla cinquantina, seri ma affabili come vi potete immaginare due signori veneti sulla cinquantina. Il loro è un lavoro di fino, che coniuga l’antichità della sapienza manuale con il futurismo dei materiali Nike. Quando li incontro mi fanno vedere una bacheca di plantari di legno di giocatori: da Neymar Jr. a Sergio Ramos, da Totti a Ibrahimovic, da Saùl a Cristiano Ronaldo.
Il minuto piede di Zlatan Ibrahimovic.
I giocatori gli chiedono piccolissime modifiche che possono fare la differenza. Una parte del collo del piede leggermente più alta, una piccola estensione dell’esterno. Cose così, inconcepibili forse per chi come noi non ha un rapporto totalizzante con un paio di scarpe, almeno non quanto dei giocatori professionisti, che hanno bisogno di percepirle come una seconda pelle. Ci mostrano le varie fasi del processo di produzione, e il lavoro è praticamente manuale. Incollano le solette a mano, col pennello.
Arrivano i calciatori
Quando arrivano i calciatori lo spostamento d’aria è percepibile. Entrano da dietro un sipario tenuto da due uomini molto grossi, uno alla volta, come in un’assurda sfilata di supereroi. Salutano quasi tutti con il ‘ciao’ che negli anni hanno imparato a riservare alle folle adoranti. Si siedono l’uno accanto all’altro su dei divanetti di pelle bianca appena dietro di me. Molto vicino a me, forse mezzo metro. Sembra uno scherzo. Tutti i giornalisti (media età 30, tutti verosimilmente cresciuti con ciascuno di loro come pezzo del proprio immaginario di cosa sia il calcio) si voltano a guardarli mediamente inespressivi. Un minuto abbondante passa così, con loro fermi senza saper bene cosa fare, e noi che li guardiamo senza saper bene cosa fare – ma con un contorto istinto a voler fare qualcosa.
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Poi arriva una ragazza che introduce il nuovo spot della Nike, con una raccomandazione decisa: non filmare niente, non fotografare niente, non postare, non scrivere, non spifferare. Lo spot è in anteprima per noi, e resterà segreto qualche altro giorno. Appena dopo la raccomandazione Cannavaro dice “ok” e fa il gesto di mettersi a riprendere. Tutti ridono.
Alcuni giocatori – Maldini, Ronaldinho, Ronaldo - sembrano alla ricerca del modo meno impegnativo per trarsi d’impaccio dall’attenzione ricevuta; altri – tipo Figo, Vieri, Zambrotta – hanno l’atteggiamento neutro di chi è abituato a essere riconosciuto, fotografato, salutato. Potrebbero mettersi nudi e mangiarsi una mela. L’unico divertito e perfettamente in controllo della situazione, capace di girare e manipolare l’attenzione nei suoi confronti come un esperto velista col vento, è Fabio Cannavaro. Sorride più degli altri, scherza più degli altri, saluta più calorosamente degli altri, si capisce bene quanto gli piaccia essere Fabio Cannavaro. L’unico, tra quelli annunciati, non presentatosi è stato Francesco Totti: un’assenza che potete interpretare in mille modi diversi che lascio a voi.

Quando arriva il momento di intervistarli non ho grosse aspettative. Mi aspetto di avere limitazioni sulle domande, temo che magari che sarò costretto a chiedergli solo cose sulle scarpe. Mi dicono, invecem che posso domandare qualsiasi cosa, che ogni giocatore sarà a disposizione di un gruppo di giornalisti per sette minuti. Immagino una serie di domande tecniche, unite a domande-ricordo delle loro carriere, unite a domande sull’evoluzione del calcio. Il numero di cose che si può chiedere a calciatori del genere è quasi inaffrontabile. Mi incastro sulla serie di combinazioni di questioni più sagaci, di appuntirne la formula e il tono nella mia testa. Quando arriva il momento mi accorgo che non tutti avevano la mia stessa idea di intervista, e a quel punto mi è stato chiaro che ad auto-regolare la normalità di interviste di questo tipo – fugaci, decontestualizzate – non serve la mano pesante del brand, quanto la banalità leggera di noi giornalisti.
Sono stato sfortunato ad essere stato inserito nel gruppo dei media spagnoli, che naturalmente erano concentrati sulla finale. Le narrazioni dei giocatori presenti sono così enormi da incrociarsi, in qualche pezzetto, con quelle di almeno uno dei protagonisti della finale: tre di loro hanno giocato nel Real Madrid, uno nell’Atletico, sei su sette hanno giocato in Spagna. Alcuni hanno giocato con Zidane, altri con Simeone, Ronaldo addirittura con tutti e due.
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Video promozionale.
E così le interviste diventano un tentativo di estorcere – a Maldini, Figo, Zambrotta, Ronaldo, Vieri, Ronaldinho - delle opinioni su cosa ne pensano della finale del giorno dopo. A queste si alternano domande che scavano un abisso di generalità quasi esistenzialista (“Quando nascerà un altro Fabio Cannavaro?”; “Come vedi la crisi del calcio italiano?”). Eravamo 10 giornalisti con 7 minuti a disposizione: praticamente un branco di iene sopra i resti di una cena a lume di candela.
Maldini, bellissimo e carismatico, ha detto che la partita sarà equilibrata, e che agli Europei la Spagna deve provare a vincere, mentre l’Italia, più semplicemente, “ci deve provare”. Quando gli chiedo se si troverebbe più a suo agio a difendere con l’Atletico o col Real svicola leggermente, ma poi mi dice che gli piaceva giocare esterno sinistro, quando poteva attaccare. Quando è stato spostato più indietro, a fare il centrale, non gli piaceva rimanere isolato contro gli attaccanti. In sostanza gli piacciono le squadre offensive, ma che mantengano un equilibrio.
Ronaldo dal vivo è diverso dagli altri. L’unico che ha intorno una vera aura da alieno. Ha un collo e dei polpacci enormi e, nonostante sia ingrassato, trasmette ancora una grande impressione di potenza a riposo. Si tiene in equilibrio rispondendo a una domanda su chi preferisce, tra Filipe Luis e Marcelo. Quando gli chiedono quale giocatore gli somiglia di più dice che gli piace guardare Cristiano Ronaldo, Messi e Neymar. Alla domanda sul suo rapporto con Simeone, con cui ha giocato nell’Inter di Gigi Simoni, dice che già si vedeva che era un allenatore in campo, “molto appassionato di tattica e di calcio”, di “futebol”, detto con un grosso sorriso, come a voler marcare la differenza tra sé stesso e il “Cholo”. Ronaldo in teoria può restare solo 5 minuti, 2 meno degli altri, ma decide di rimanere comunque a parlare con un giornalista di Marca che è sembrato lo conoscesse. In tutte le altre interviste il giornalista sarà sovrastato dall’aggressività di una reporter brasiliana che ha tentato di monopolizzare l’attenzione di tutti i giocatori. Alla fine dirà che è molto difficile lavorare così.
Fabio Cannavaro invece è davvero basso. Non in assoluto, ma in relazione alla dominanza difensiva espressa in carriera. Si fa fatica a immaginare come un giocatore così sia riuscito a marcare Henry in una finale dei mondiali. Ovviamente dice che l’Italia ce la può fare agli Europei “perché nei momenti di difficoltà riusciamo a uscire fuori, e questo è un momento di difficoltà”. Poi dice che Marcelo è un suo grande amico e quando è arrivato a Madrid gli ha insegnato a difendere, a rimanere concentrato per novanta minuti. Il difensore attuale che gli piace di più è Thiago Silva, subito dopo quelli del Real, ovviamente.
Figo ha i capelli con la stessa piega di sempre e con gli ideogrammi tatuati sotto al braccio non sembra mai uscito davvero dagli anni ’90. Quando gli chiedono dell’Inter, di Mancini, dice “non parlo con Mancini, non ho un buon rapporto con lui”.
Bobo Vieri ha l’aria sprezzante di Bobo Vieri. Mi dice che segnare in una finale è molto difficile per un attaccante, che si sente la pressione. La crisi degli attaccanti se la spiega con un semplice cambio generazionale mentre quando gli chiedo se avrebbe portato Bomber Pavoletti mi dà un pugnetto sulla spalla: “devi parlare con Conte, non con me, io sono a Miami in spiaggia”.
28 maggio, la partita, la partita!
L’appuntamento è alle 17 e 45 all’Hotel Ibis, vicino Viale Tunisia, dove alloggiano la maggior parte dei media internazionali. Da lì poi partiremo con un mini-van di Nike verso San Siro.
Le ore precedenti a partite di questa importanza sono un’esperienza a sé. L’atmosfera cittadina diventa più densa, e si ha l’impressione che non ci sia niente di più importante da fare che aspettare. Il percorso fino allo stadio, specie nelle fasi iniziali, quelle prive dell’ansietta finale, sono quelle che più assomigliano a un’idea di felicità. È stato impossibile non provare invidia verso chi aveva un coinvolgimento emotivo autentico per questa partita, un derby, un derby in finale di Champions League. Da tifoso della Roma ho pensato a un Roma – Lazio in finale di Champions, ho vagliato mentalmente le varie possibilità, e ho concluso che preferisco vivere in un mondo in cui non succerà mai.
Nel tragitto dal mio albergo all’Ibis ho riscontrato una supremazia quasi totale di tifosi dell’Atlético. Si muovono nei loro tragitti imperscrutabili (pare che ognuno abbia il proprio personale piano per raggiungere San Siro con meno complicazioni possibili), quasi sempre in branco, cantando cori e riflettendo il fomento reciprocamente quando si incontrano. Il più gettonato è quello sulle stesse note che i tifosi del Napoli hanno chiamato “A tua difesa” (e che a quanto pare hanno contribuito a diffondere nel mondo).
Squadriglia “colchonera”.
Ma in metro si incrociano anche esemplari romantici e solitari.
Un riflessivo Nino Torres sulla linea gialla.
Mi hanno spiegato, però, che i tifosi delle due squadre (circa 60 mila, 40 mila con biglietto e 20 mila senza) erano distribuiti in parti diverse della città apposta per non incrociarsi. I tifosi dell’Atletico hanno alloggiato attorno a Centrale; quelli del Real a Pagano. Per questo avevo notato la supremazia.
Arrivato in albergo mi hanno dato il biglietto. Non so se avete mai tenuto in mano un biglietto di una finale di Champions League, ma vi assicuro che sembra avere una consistenza diversa.
Anche se magari non sembra.
Per comprare il biglietto di una partita di Serie A in genere bisogna prendersi un giorno di ferie. Presentarsi a una biglietteria precisa a un’ora precisa di un giorno preciso, con in mano una cartellina con i documenti. Bisogna dare le proprie generalità come dai carabinieri, e quando lo stampano sopra c’è il tuo nome, come a ricordarti che hai comprato uno spettacolo che per qualche motivo potrebbe mandarti in galera. Il mio biglietto per la partita più importante dell’anno invece è lì, autosufficiente, senza il mio nome sopra. Potrebbero rubarmelo e andare al posto mio, potrei scambiarlo con qualcuno che ha un posto migliore. Qualsiasi cosa. Per entrare non servirà documento o carta d’identità.
Poi mi regalano una maglietta dell’Atlètico – squadra Nike della serata – che mi suggeriscono di indossare. Ma ho troppo pudore per improvvisarmi tifoso di un’altra squadra, indossarne i colori e confondermi in mezzo a loro.
Ci muoviamo a un orario che sarebbe stato improponibile per qualsiasi normale tifoso, perché il nostro van ha permessi speciali e può farsi un pezzetto di strada in più fino allo stadio. Le stazioni metro più prossime a San Siro sono state chiuse, così nell’ultimo tratto di strada possiamo ammirare la lunga e appassionata processione dei tifosi. Le facce non sono più entusiaste e rilassate come prima. Solo i più ubriachi parlano, quasi tutti sono in silenzio, lo sguardo eccitato e spaventato come solo davanti a un evento irreversibile. La semplice idea che tra qualche ora ci sarà una sentenza: un vincitore e uno sconfitto, mette i brividi. Deve essere quella la faccia dei soldati che vanno in guerra, all’incirca.
Nel tragitto alcuni ambulanti vendono binocoli, come all’opera o all’ippodromo, e bandiere della Spagna, che in generale si vedono in quantità. Alcuni la avvolgono alla vita o la indossano come un mantello, a ricordarci il sottotesto di questo derby: la monarchia assoluta della Spagna sul calcio europeo. Ci sono ovviamente molti “neutrali” o simpatizzanti blandi, anche se si riconoscono dalle facce distese, dalla leggerezza poco religiosa con cui solcano gli ultimi metri che li separa dallo stadio. O anche semplicemente dal modo strano in cui sono vestiti.
Censimento approssimativo delle maglie osservate:
Fernando Torres: XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX
Sergio Ramos: XXXXXXXXXXXXXXXXXXXX
Simeone: XXXXXXXXXXXXXXXXXXX
Raul: XXXXXXXXXXXXXXXXXX
Koke: XXXXXXXXXXXX
Modric: XXXXXXXX
Griezmann: XXXXXXX
CR7: XXXXXX
Mijatovic: XXXXXX
Arbeloa: XXXXXX
Forlan: XXXXX
Bale: XXXX
Carvajal (?): XXX
Tifosi del Real che prendono troppo alla lettera l’espressione “camiseta blanca”: qualcuno.
Il primo scorcio di San Siro mozza il fiato. La verticalità è impressionante e l’iconica struttura ad anelli, più che a uno stadio, lo fa assomigliare a uno strano palazzo d’avanguardia. Stringo il biglietto con una paranoia sproporzionata al pericolo reale che me lo possano rubare, mi tornano però in mente le storie di questi giorni, di gente disposta a pagare anche 20 mila euro per un biglietto.
Salendo le scale verso il secondo anello lo scenario cambia drasticamente. Sembra di stare dentro un parcheggio periferico progettato da Escher, un purgatorio che prepara alla sensazione d’onnipotenza una volta arrivati in cima. La partita si vede come a teatro, in filodiffusione le canzoni delle due squadre, quelle che mandano prima di ogni partita al Bernabeu e al Calderon. Una cosa piuttosto ruspante, leggermente stonata rispetto alla patinatura del contesto, che ci ricorda quanto questa partita sia situata a livello identitario. Niente a che vedere con lo spettacolo pre-partita, con Alicia Keys e Bocelli, asettico e sbiadito come fosse la sostanza stessa della UEFA.
https://twitter.com/lUltimoUomo/status/736625565231419393
Sergio Ramos è l’unico che arringa la curva prima del fischio d’inizio, Bale fa un piccolo applauso vergognato, senza riuscire a guardarli. Sergio Ramos, il capitano del Real, parlerà con la sua curva a più riprese durante i 120’ e la sensazione che rappresenti l’unica protesi del madridismo in campo è piuttosto netta.
Dall’altra parte “El Cholo” porta il dialogo con la curva a un altro livello. Simeone dedica ai suoi tifosi quasi lo stesso tempo che dedica alla sua squadra. Per lui la curva ha le sembianze di un confessionale, verso cui ogni tanto rivolge lunghi monologhi destinati a rimanere inascoltati. Anche se non è così assurdo pensare che Simeone abbia trovato il modo per parlare telepaticamente ai suoi tifosi, o che i tifosi in qualche modo lo capiscano.
Nei primi minuti di partita ci sono soprattutto i falli, quelli fatti dall’Atlètico, quelli subiti dal Real, nonostante poi il conteggio a fine partita sarà ribaltato. Da subito le due squadre hanno voluto imporre il proprio rispettivo contesto, anche se forse erano solo due diverse forme di paura. L’Atletico, come spesso fa nei primi minuti, ha provato a intimidire fisicamente gli avversari, con qualche entrata dura. Una subito di Koke, un’altra di Torres poco dopo. Io sono vicino al settore dei tifosi del Real e i fischi che partono dopo ogni intervento sono profondi, rappresentano lo sdegno aristocratico verso i falli dell’Atlètico come sineddoche di tutto quello che i “colchonero” e il “cholismo” rappresentano.
La differenza nei primi minuti la fanno il talento e la personalità di alcuni giocatori del Real. Marcelo, Kroos, Ronaldo, Bale, non si lasciano invischiare dal contesto dell’Atletico, e provano a rimanere il più possibile calmi. Tirano il petto in fuori, alzano la testa, rallentano il gioco di un paio di tempi. Provano la giocata più complessa. Un cambio gioco rilassato di Kroos, un colpo di tacco di Bale, un dribbling difensivo rischioso di Marcelo. Piccoli gesti, accompagnati dagli “olè” compiaciuti dei tifosi “blancos”, che vogliono mandare un messaggio all’esterno. Il Real ha fatto odorare all’Atlètico l’unica insicurezza contemplabile: quella di trovarsi di fronte una squadra zeppa di campioni. Vi assicuro che dallo stadio è stata una sensazione molto forte.
Per questo il gol di Ramos sembra lo sviluppo naturale di una partita in cui l’agonismo dell’Atletico è sfociato in semplice nervosismo. Dopo il gol sullo schermo dello stadio fanno per passare il replay, ma l’immagine mostra la linea della difesa, e appena si comincia a sentire odore di fuorigioco il replay viene interrotto. Sarebbe stata moviola in campo, in pratica.
Nella mezz’ora successiva al gol di Ramos il mutismo che si percepisce nel settore dell’Atletico è denso. Dopo un palleggio prolungato della propria squadra, i tifosi del Real esultano come per un gol. A ribadire che per loro il calcio è innanzitutto un fatto di gusto, di distinzione.
Col passare dei minuti il Real diventa troppo compiaciuto e nell’Atletico qualche giocatore prova a dare la scossa. Filipe Luis più che altro, l’unico in grado di trasportare fisicamente la palla sulla trequarti madridista. Poi al 42 esimo il momento che nella mia personale interpretazione della partita (che non ho rivisto in tv) cambia gli equilibri. Dopo un possesso prolungato dell’Atletico, finalmente nella metà campo avversaria, i tifosi del Real fischiano. Dal settore dell’Atletico si alza un coro fortissimo, ancestrale, come di qualcuno che si è tirato fuori dalla fossa, a voler spostare l’inerzia psicologica della partita.
Cose sparse, anche banali, ma che si notano bene in campo:
- Il campo è troppo piccolo per Bale. Appena accelera arriva al limite dell’area.
- Kroos usa il suo piede destro come fosse una mano guantata.
- La velocità con cui Cristiano Ronaldo sposta il pallone non è normale. Per niente.
- Il moto perpetuo orizzontale di Griezmann sulla trequarti, a cercare disperatamente di dare un riferimento a una manovra che non si scioglie.
- Alcuni giocatori dell’Atletico (Gabi, Augusto Fernandez) toccano la palla in modo scandalosamente peggiore rispetto al contesto.
E in effetti, nonostante il rigore sbagliato da Griezmann, e nonostante sugli schermi passino immagini di tifosi “colchoneros” degni della drammaticità di un Caravaggio, la partita cambia davvero. Il Real ha solo un’occasione grossa per fare il 2 a 0, quando Benzema si è fatto parare la conclusione di un contropiede, non passandola a Ronaldo. Dallo stadio si vede bene come Ronaldo ci metta qualche secondo a metabolizzare il fatto che non gli hanno passato la palla per un gol sicuro in finale.
Il momento in cui la fede in Dio dei tifosi dell’Atlético ha vacillato più del solito.
Il Real forse si rende per la prima volta conto di vincere, e all’Atletico basta accelerare un minimo per raddrizzare il risultato. Col senno di poi questo dovrebbe mandare ai pazzi Simeone, farlo ripensare a quanto è stato inadeguato il suo approccio alla partita. Dopo il gol Ferreira Carrasco sembra andare a una velocità diversa dagli altri, e sembra avere una voglia diversa di vincere. Per qualche motivo l’Atletico a un certo punto si lascia affascinare dell’idea dei rigori, nonostante il Real fosse in chiara difficoltà. L’Atletico però è una squadra che non riesce a resistere alla tentazione di scegliere sempre la strada più tortuosa per vincere una partita. E alla fine essere sconfitti dopo un errore dal dischetto di Juanfran, con la sua faccia da santo, il suo “cholismo” perfetto, è diventata la strada più tortuosa per perderla.
Dopo il sorteggio per dove battere i rigori, Sergio Ramos mostra la propria metà campo ai tifosi del Real, che esultano come dopo un gol. Si inizia a sentire una certa aria. I rigori dell’Atlético sono preceduti da un mantra che invoca le doti magiche di Keylor Navas, e sono accompagnati da fischi davvero, davvero impressionanti.
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Dopo il fischio finale dal settore si alza un “Hala Madrid” tronfio e solenne, con le sciarpe bianche al vento. Un rituale ripetuto tante volte, anche se questa forse suona più piena, perché la vittoria è arrivata tramite l’applicazione di una specie di diritto naturale alla vittoria.
Fuori i tifosi del Real si sono tutti dileguati verso Pagano, luogo dei festeggiamenti. Quelli dell’Atletico invece provano a rimettere a posto i pezzi della propria vita. Si vedono lenti e confusi cercare un modo per tornare verso l’albergo, studiando le pensiline degli autobus senza troppa convinzione. Forse l’aspetto più difficile è rimettere le cose in asse, rientrare all’allineamento delle cose brutali della vita: studiare i mezzi pubblici, pensare all’aereo, al rientro al lavoro. Sforzandosi di non pensare al buco grosso lasciato dalla serata.
Tornando a casa, camminando vicino Porta Venezia, incrocio una famiglia più bella delle altre. Madre e figli con la maglia dell’Atletico, padre con la maglia del Real. Li fermo per chiedergli due cavolate ma parla solo il padre: “gliel’avevo detto di non dar retta alla madre, ma non m’hanno ascoltato, poi finisce sempre così”. Sorride.
Nessun giovane giornalista è stato intimidito o importunato durante la stesura di questo articolo.