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Il pilota che ispirò Michael Schumacher
23 gen 2024
Intervista a Vincenzo Sospiri, che lasciò un segno sul leggendario pilota tedesco ai tempi dei go-kart.
(articolo)
4 min
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Poche settimane prima dell’incidente sugli sci del dicembre del 2013, Michael Schumacher ha registrato un’intervista per il suo sito ufficiale. Inevitabilmente è diventata una sorta di testamento del campione tedesco, che ha risposto alle molte domande dei tifosi. Gli spunti interessanti di quella intervista sono molti, ma forse la risposta più curiosa è questa. Quando gli è stato chiesto chi fosse il pilota ad averlo ispirato di più ai tempi dei kart, Schumacher non ha esitato e ha fatto il nome di Vincenzo Sospiri.

Sospiri è un pilota di Forlì che nel corso degli anni '80 sui kart ha vinto quattro titoli italiani, tre titoli europei e un titolo mondiale. Ho avuto la possibilità di intervistarlo quasi un anno fa, durante il lavoro preparatorio su L'uomo dietro la visiera, il mio libro su Michael Schumacher. Questo è quello che mi ha detto al telefono, editato per chiarezza.

Schumacher ti ha descritto come un pilota dominante. Cosa pensi che avessi di diverso dagli altri ragazzi?

Ero molto a mio agio sui kart. Era una macchina costruita intorno al mio corpo. Era un modo di esprimere la velocità che avevo dentro. Non so spiegartelo in un altro modo. Non so come si faceva, a me veniva naturale. Ogni tanto sento storie da altri piloti che mi indicano: «Quello lì una volta mi ha superato su due ruote, una mano sul volante e una sul carburatore», ma io neanche me lo ricordo.

Mi stai dicendo che c’è molto istinto nella guida del kart?

Sì assolutamente. Il kart è il primo amore, è puro istinto. Non c’è molto da pianificare, è vero che se giri tanto impari sempre qualcosa, ma alla fine è dentro di te che hai qualcosa di diverso. O ce l’hai o non ce l’hai. Ho corso con Michael Schumacher in kart per tanti anni ed era uno dei piloti più forti da battere. Ma prima di tutto era un ragazzo con la testa a posto. Ci siamo rispettati moltissimo in pista e ci siamo trovati bene insieme fuori.

Dopo i kart, hai deciso di spostarti in Inghilterra. Perché hai fatto questa scelta per la tua carriera?

All’inizio provai a restare in Italia. Nel 1987 provai una Formula 3 a Misano nello stesso team dov’era passato Stefano Modena [81 GP e 2 podi in Formula 1, ndr] e andai anche abbastanza bene, chiusi il test con un tempo nei primi cinque classificati. Decisi di disputare l’ultima gara dell’anno con loro e non riuscì nemmeno a qualificarmi, con la stessa macchina che avevo guidato nei test due settimane prima. Fecero salire Eugenio Visco, che era il loro pilota di riferimento, e fu più lento di me, andò anche a sbattere. Avevano cambiato qualcosa sulla macchina.

Dopo ho deciso per l’Inghilterra semplicemente perché ti davano la possibilità di fare tantissime gare con un budget che era un decimo di quello che avrei speso nel campionato italiano Formula 3. Io non avevo fondi, mio padre vendeva polli, avevamo un po’ di amici che ci davano una mano. Il primo ad aiutarmi è stato Renzo Navarra della Edilplastic di Cesena. Con i soldi raccolti, andai a fare un test in Inghilterra, andai molto forte a Silverstone, con una macchina e una pista che vedevo per la prima volta. Mi arrivarono offerte da tutti i costruttori della Formula Ford inglese. Ralph Firman, il proprietario della Van Diemen su cui aveva corso Ayrton Senna, mi offrì la macchina e i pezzi di ricambio gratis per un anno, io dovevo pagarmi solo le gomme e l’assistenza del team. Ci teneva talmente a non perdermi che dovette parcheggiarmi in un team satellite, dato che aveva già le quattro auto ufficiali occupate da altri. Con la John Village Racing abbiamo vinto subito il Formula Ford Festival, 173 iscritti da tutta Europa. C’era anche Michael Schumacher. Io mi piazzai secondo nelle tre gare degli ottavi, dei quarti e delle semifinali, poi vinsi la finale. Michael uscì in semifinale per un incidente, quando era già staccato dai primi.

C’è un tratto in comune tra la tua storia e quella di Schumacher. Cioè che entrambi avete dovuto chiedere aiuto economicamente. Senza quel sostegno, pensi che sarebbe stato impossibile farsi notare? Anche avendo un talento fenomenale a disposizione.

Purtroppo è così. Puoi essere talentuoso quanto ti pare, ma senza budget non ce la fai. Vale anche adesso: ci sono piloti, magari senza un gran talento, ma con così tanti soldi che riescono a pagarsi il materiale migliore, i test in pista, il tempo al simulatore… Alla fine non dico che eguagliano i tuoi tempi, ma ti vengono molto, molto vicino.

Dopo la Formula Ford hai disputato quattro stagioni in Formula 3000, che all’epoca era l’anticamera della Formula 1. Nel 1995 hai vinto il campionato e l’anno dopo eri pronto a fare il grande salto. Finisce che non trovi un volante da pilota titolare e devi accontentarti di un ruolo da collaudatore alla Benetton. Cos’è successo?

In realtà avevo un accordo con la Ligier Honda, dovevamo firmare solo i contratti. Avevo un budget di quattro milioni di dollari raccolti tra i miei sponsor giapponesi, gli stessi che mi avevano sostenuto in Formula 3000. Il giorno delle firme mi chiamano e mi dicono che il posto non c’è più, l’ha preso Pedro Diniz [99 GP in F1 e 10 punti conquistati, ndr] che ha messo sul tavolo un budget da otto milioni di dollari a disposizione della squadra. In Ligier ci è andato lui.

In Benetton arrivi quando Schumacher è già andato via. Ti sei chiesto come mai avesse deciso di passare in Ferrari? Se fosse rimasto forse avrebbe vinto ancora uno o due titoli.

Sì anche perché la macchina andava veramente forte. Quando l’ho guidata io mi piaceva tanto. Era difficile da guidare, ma era bella, un go-kart con tanti cavalli. Schumacher andò via perché l’offerta della Ferrari era economicamente molto valida. La fece vedere a Flavio Briatore, gli chiese di pareggiarla. Briatore gli disse di no e a quel punto lui andò via. Si portò dietro Ross Brawn e altre persone, non subito, ma aveva già programmato di portarle in Ferrari. Ci mise un po’ a inquadrare la situazione e la squadra, ma quando tutti gli ingranaggi andarono a posto vinse il Mondiale per cinque anni di fila.

Che tipo era Briatore?

Per lui era un mestiere, non aveva passione per le macchine da corsa. Aveva un gran pelo sullo stomaco, per carità, e ha fatto del suo lavoro una fortuna… però quando sento dire che è stato uno scopritore di talenti mi scappa da ridere. Ha avuto la fortuna di avere grandi piloti tra le mani, ma poi: Schumacher se l’è fatto scappare; Alonso idem; poteva tenere Robert Kubica, che era il fenomeno del programma giovani della Renault, e invece l’ha mandato via. Lasciando perdere me…

Devi attendere un anno per fare il tuo debutto in Formula 1, ma alla fine ci rimani per un periodo brevissimo. Ho ritrovato il tuo giro del 1997 su una Lola. La mia sensazione è che ci fosse davvero poca prestazione da tirar fuori dalla macchina.

Purtroppo sì, non c’era stato tempo di svilupparla. Dopo che è stata costruita, siamo andati a fare un test a Silverstone in due giornate. In una delle due non girai per problemi al cambio, in totale feci sedici giri. Il mio compagno di squadra [Ricardo Rosset, 33 GP in F1, ndr] fece una settantina di giri in tutto, mi disse che la macchina non era male, ma poi in Australia non andò bene. Era una monoposto che mancava di tutto: non aveva grip meccanico, non aveva carico aerodinamico, aveva un motore poco potente di vecchia generazione. Poi ci fu la questione dei calcoli sbagliati nei budget. In Brasile, tre settimane dopo, la squadra ha chiuso.

Dopo quella esperienza non hai voluto più aspettare la Formula 1. Sei andato quello stesso anno alla 500 Miglia di Indianapolis, dove in qualifica hai fatto benissimo, eri in prima fila con il terzo tempo. Poi in gara hai avuto problemi di ogni tipo.

C’era la possibilità di vincere, avevamo la velocità. Anche in gara, quando ho avuto problemi e tornavo sempre ultimo, poi risalivo nei primi tre. A un certo punto l’elettronica del motore si è fermata, abbiamo perso qualcosa come quaranta giri ai box per rimettere a posto tutti i cablaggi del motore.

L’anno dopo è iniziata la tua carriera sulle auto a ruote coperte, prima con la Ferrari 333P e poi con la Toyota. Ricorderai anche tu che Schumacher veniva dalle ruote coperte. Era stata una scelta strana per un ragazzo, partire da un campionato così, piuttosto che vederlo come un punto d’arrivo?

In realtà no, le macchine del Gruppo C di allora erano molto potenti. E poi c’era Mercedes che aveva deciso la strada per i propri piloti, con lui c’erano anche Heinz-Harald Frentzen e Karl Wendlinger. Ci andarono tutti e tre in Formula 1, Schumacher cominciò a Spa con la Jordan e ebbe la fortuna di capitare su una macchina giusta, ma aveva il talento e lo fece vedere.

Per quel poco che hai potuto vedere nei box o nel tuo rapporto con lui, tu vedevi la differenza tra la persona e il pilota? Tanti che l’hanno conosciuto hanno parlato di due personalità diverse, una amichevole e affettuosa, l’altra arrogante e attaccabrighe.

Michael per me è stato un amico e mi ci sono trovato bene. Però era una persona molto dedicata al suo lavoro, alla sua professione, concedeva poco al resto. E poi aveva bisogno di un po’ di privacy per quanto riguardava la sua vita personale, questo non sempre veniva capito. L’unica persona che è riuscito ad abbinare l’essere uomo e l’essere pilota per me è stato Ayrton Senna e io l’ho ammirato moltissimo. Senna era un fenomeno sulla macchina, numero uno in assoluto, ed era anche molto bravo fuori dalla macchina, nel parlare, nel contatto con le persone. Ho conosciuto bene Ayrton perché anche lui veniva dalla scuola dei kart. È stato unico. Anche adesso ci sono ragazzi molto bravi come uomini, e altri invece molto bravi come piloti, ma la combinazione delle due cose è difficile da trovare. Anche Michael ci è arrivato, ma aveva il suo modo di esprimersi, non era latino come Senna.

Forse è stata anche per una questione mentale? Schumacher era più rilassato dopo, rispetto agli inizi.

Quello sì, anche se è difficile da capire fino in fondo. Senna è stato un grandissimo fenomeno, ma aveva anche un grosso aiuto economico, aveva la sua famiglia alle spalle. Schumacher era come me, come Hamilton. Noi non avevamo questa sicurezza. Non potevamo sbagliare niente, dovevamo dare sempre il massimo, restare concentrati al 200%. Perché se fosse andato storto qualcosa non saremmo mai arrivati. È tutto un altro tipo di pressione. Questo per me può aver fatto una differenza.

Si sente una responsabilità più grande anche nei confronti di chi accetta di finanziare la tua carriera?

È una responsabilità molto grande perché non hai tante chance. Se ne vanno male un po’ in fila, rischi di essere messo fuori, vieni abbandonato e mai più ripreso. È ancora un po’ così adesso, ma allora era sicuramente peggio. Per arrivare in Formula 1 il percorso era molto selettivo se non avevi i soldi per comprare il sedile.

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