C’è un concetto, un concetto semplice e di base, che qualsiasi giocatrice e giocatore di rugby, di qualunque età e categoria, si sente ripetere costantemente, a ogni singolo allenamento: sostegno. La capacità di leggere l’azione, di modulare la propria corsa per ricevere il pallone in avanzamento, per ripulirlo in una ruck, per raccoglierlo e passarlo. Ma anche l’attitudine mentale a mettersi a disposizione della squadra per portare l’ovale un po’ più avanti, per dare una mano alla compagna a terra che deve difendere il possesso, per garantire una linea di passaggio in più. Quella del sostegno, nel rugby, è quasi una filosofia, oltre che un dettame tecnico, un’idea che affonda le proprie radici nell’anima profondamente collettiva di un gioco nel quale il talento individuale non basta mai, in nessun caso, per vincere le partite, se non è accompagnato dalla cooperazione attiva del resto della squadra. Ecco, Sofia Stefan è la rappresentazione sportiva e carismatica, nella Nazionale femminile di rugby, del significato puro di sostegno.
Stefan va ormai verso le novanta presenze in azzurro, con l’Italia ha messo a segno sedici mete e nelle prime tre partite di questo Sei Nazioni 2024. È scesa in campo da capitana, facendo pesare, come sempre nella sua storia azzurra, la sua leadership impetuosa e carismatica, un dare l’esempio che sul terreno di gioco si cristallizza in una forza di volontà insopprimibile, che mette sempre al primo posto la squadra, costi quel che costi. Con lei abbiamo parlato di rugby e del bel Sei Nazioni che sta giocando l’Italia, che ha vinto per la prima volta nella sua storia in Irlanda, il 31 marzo, per 21 a 27. Sabato 20 aprile e poi di nuovo sabato 27 le azzurre giocheranno due sfide importanti contro Scozia e Galles.
Qual è il bilancio di questa prima parte di Sei Nazioni?
Nella partita con l’Inghilterra abbiamo fatto bene i primi cinquanta minuti, tenendo in maniera solida in difesa, contro una top mondiale, e contenendo il risultato dentro i dieci punti di scarto. Poi però siamo calate, nell’ultima mezz’ora, e ci dispiace molto il 48 a 0 finale. In Irlanda invece abbiamo faticato un po’, ma l’obiettivo era vincere ed è stata una bella soddisfazione riuscirci. Con la Francia è stata una partita diversa, in quanto sono più simili a noi sia fisicamente che per caratteristiche di gioco, tenuto conto di tutte le differenze di storia e contesto; abbiamo preparato la partita in un altro modo, ma il loro primo tempo è stato molto difficile da contenere, abbiamo subito lo scontro fisico, non siamo riuscite a giocare negli spazi. Poi pian piano siamo andate un po’ meglio e infatti alla fine il risultato, 38 a 15, è onorevole. D’altronde la Francia è una squadra che, se gioca come ha giocato con noi, accettando e sostenendo l’impatto fisico dell’Inghilterra, può andare anche a vincere il torneo, per quanto le inglesi restino le favorite.
La sintesi della vittoria italiana in Irlanda, un successo arrivato dopo un match di grande intensità, nel quale le azzurre hanno dimostrato la capacità di mantenere il controllo nonostante un inizio difficile e una parte finale di grande arrembaggio irlandese.
Ora ci sono due partite diverse, contro Scozia e Galles, che hanno gli attacchi peggiori della competizione. L’Italia fino ad oggi si è dedicata più a placcare che a portare il pallone: come arrivate a queste due sfide?
Scozia e Galles senza dubbio sono le nostre rivali dirette e stiamo cercando di cambiare un po’ l’impostazione del nostro gioco. Nelle prime tre partite abbiamo scelto una strategia più di attesa, per affrontare squadre che sapevamo ci avrebbero messo sotto dal punto di vista fisico, adesso vogliamo invece velocizzare il gioco, dare ritmo e usare il piede in maniera più offensiva, per guadagnare territorio. Con la Scozia giochiamo in casa, che per noi è sempre una bella sensazione, sulla carta si adatta meglio alle nostre caratteristiche, in quanto è un po’ meno fisica del Galles, però è anche vero che sta giocando un bel torneo e non possiamo sottovalutarla. Il Galles invece è in crisi, ha perso sinora tutte le partite, lo affrontiamo a Cardiff e in teoria ci può dare più fastidio sul fronte fisico, ma anche per questo potrebbe lasciarci più spazi: sarà una bella battaglia.
C’è un po’ di tensione nel realizzare che siete considerate favorite per questi due incontri e che quindi in molti si aspettano due vittorie?
Sicuramente c’è un po’ di pressione rispetto a queste due partite che andiamo a giocare, ma è una cosa positiva: se c’è pressione significa che c’è anche consapevolezza di poter andare a vincere. Il lavoro che viene fatto in campo cerca di distaccarsi da quello che c’è fuori, e c’è anche da dire da un po’ di anni vinciamo una, due, tre partite, quindi pian piano ci stiamo abituando. Quest’anno le prime tre classificate si qualificano direttamente per il Mondiale del 2025 in Inghilterra, quindi c’è sicuramente un ulteriore elemento di pressione, ma sono convinta che riusciremo a trasformarlo in agonismo.
Com’è cambiata la nazionale femminile di rugby negli ultimi due anni dal punto di vista tecnico, anche considerando il cambio in panchina, con Andrea Di Giandomenico che ha lasciato il posto, dopo dodici anni, a Nanni Raineri?
Il passaggio da Di Giandomenico a Raineri non è stato semplicissimo, sono due modi di vivere il rugby molto diversi. L’anno scorso lo abbiamo usato come adattamento, sia da parte dello staff che nostro, abbiamo imparato a capirci, mentre quest’anno è arrivato un nuovo componente fra gli allenatori, Francesco Iannucci, con cui abbiamo lavorato tanto sulla difesa, il che ha reso più fluido tutto il sistema di allenamento e quindi di gioco. Ci siamo potute concentrare in maniera più specifica sulle diverse fasi, dall’attacco ai punti d’incontro, e questo permette di lavorare con maggiore efficacia. Siamo più fiduciose, più consapevoli, stiamo ricostruendo la nostra identità, senza abbandonare il passato, ma abbracciando le novità portate da Raineri, che si è concentrato soprattutto sull’organizzazione. La nostra capacità deve essere quella di adattarci. Il rugby di oggi richiede di essere strategicamente meglio preparato, la sfida è quella di essere strutturati dentro la lettura del gioco, delle situazioni, dobbiamo rispondere alle esigenze di alto livello, quindi struttura ma anche capacità di giocare bene negli spazi nei momenti in cui il gioco si rompe.
A che punto è la professionalizzazione del rugby femminile in Italia, soprattutto se la confrontiamo con modelli come quelli di Inghilterra e Francia?
Il processo di professionalizzazione del rugby inglese si è ormai praticamente completato, quello francese non è ancora allo stesso livello ma si sta avvicinando molto: la differenza con l’Italia rimane ancora netta. Si tratta anche di una questione culturale, in Italia si fa fatica ad accettare il professionismo nello sport femminile, e non stiamo parlando solo di soldi, quanto della creazione di un contesto in cui le ragazze possano vivere di rugby, possano comportarsi come atlete a 360 gradi. Noi abbiamo fatto dei grandi passi avanti, il movimento è cresciuto, a ogni livello, ma quella del rugby rimane comunque una strada che dobbiamo percorrere sempre in parallelo a un’altra professione, dunque non si riesce ad essere concentrate al 100% sul rugby.
Nel rugby maschile non c’è la stessa problematica. Gli uomini ad alto livello non hanno contratti milionari, ma possono comunque concentrarsi in maniera più o meno esclusiva sul campo. Devono sicuramente costruirsi un futuro che guardi a fine carriera, ma possono farlo con meno angoscia, con meno pressione: in fondo non gli cambia molto se, ad esempio, invece di laurearsi in quattro anni ce ne mettono sei o sette. Per una ragazza che deve studiare, pagarsi gli studi, giocare ad alto livello, c’è una pressione molto più forte. Pensa che a livello federale, in Italia, sono solo ventiquattro le ragazze che hanno un contratto, tutte le altre devono arrangiarsi. E per mantenere alto il livello è chiaro che ventiquattro giocatrici non bastano.
Vogliamo smentire lo stereotipo per cui rugby maschile e rugby femminile sono due sport radicalmente diversi?
Ci sono sempre meno differenze tra rugby maschile e femminile. Il modo di giocare si somiglia molto, le competenze tecniche sono simili, l’utilizzo delle forme del gioco è equivalente. Cambiano, è giusto sottolinearlo, la velocità, la forza degli impatti, la lunghezza dei calci o dei passaggi, ma è una differenza genetica, come in tutti gli sport. Oggi il movimento è cresciuto, le competenze sono molto più alte e questo ha portato a un sostanziale parità di valore tecnico con il rugby maschile. E poi ci tengo a fare una precisazione importante: solo nel momento in cui smetteremo di parlare di sport maschile e sport femminile avremo finalmente superato gli stereotipi. Il rugby è rugby, si sente spesso dire che bisogna “valorizzare il rugby femminile”, come fosse uno sport diverso: è lo stesso sport, è il nostro sport, senza differenze di genere.
Questa meta, messa a segno dall'Italia nel Sei Nazioni 2023 contro l'Irlanda, è stata premiata da World Rugby come migliore meta del 2023. Nell'azione che porta alla segnatura, una meta davvero di squadra, c'è tutto lo spirito tecnico e mentale di Sofia Stefan, che inizia l'azione distribuendo il pallone da mischia chiusa, poco dopo la linea di centrocampo, e poi ne segue lo sviluppo modulando la corsa, in sostegno, sino a raccogliere l'ovale a pochi metri dalla linea di meta, chiudendo la folata azzurra.
Oltre che sul piano del campo, la presenza di più donne negli staff tecnici può aiutare il percorso di crescita del rugby femminile in Italia, e quindi del rugby in generale?
Una delle cose per cui mi batto è che le ragazze, quando smettono di giocare, abbiano la possibilità di restare nell’ambiente del rugby. Sono ancora troppo poche le donne parte degli staff tecnici. I giocatori di serie A, B, C, spesso quando smettono di giocare rimangono coinvolti, a qualche livello, nel rugby: per le donne capita raramente. Anche in questo caso forse c’è una questione culturale, perché per pensare di entrare in uno staff bisogna acquisire delle competenze tecniche, fare i corsi allenatore, fare i corsi da preparatore, e le ragazze fanno più fatica. Su questo siamo ancora molto indietro, molto più indietro che sulla parte sportiva. Ci sono, ad esempio, Paola Zangirolami, Michela Merlo, Melissa Bettoni, ex giocatrici che oggi sono parte di staff tecnici, ma si tratta di eccezioni. E invece se una ragazza ha il desiderio di entrare in uno staff di rugby, deve poterlo fare, soprattutto deve poter immaginare di poterlo fare, di avere le stesse possibilità, e non percepirlo come un obiettivo impossibile, difficilissimo da raggiungere. Dobbiamo poter immaginare di vedere, un giorno non troppo lontano, una donna alla guida della Nazionale maschile di rugby, e non perché è una donna, ma perché è più brava.
Il ruolo in campo, nel rugby, va oltre le questioni tecniche e tattiche, a volte è una vera e propria dimensione totalizzante, qualcosa che definisce la maniera in cui ci si mette a disposizione della squadra, come personalità. Tu come vivi il tuo ruolo di mediano di mischia e il fatto di essere stata adesso anche capitana della Nazionale italiana?
Io ho iniziato come ala, poi Andrea Di Giandomenico ha cominciato a farmi allenare da mediano di mischia, perché aveva visto delle caratteristiche tecniche funzionali a questa posizione. Oggi mi ci trovo bene, a mio agio: è il mio ruolo, mediano di mischia. Giochi per far giocare gli altri il meglio possibile e poi c’è la sfida interna tua di saper cogliere le occasioni, di rimanere sempre all’erta per trovare il buco sul quale ripartire da un punto d’incontro. Si fa un sacco di fatica, perché si corre tantissimo, ma per me non c’è soddisfazione più grande di vedere che il flusso del gioco è collettivo, che la squadra sta girando con il ritmo giusto. A volte mi è venuta la curiosità di giocare in mischia, ma solo per capire cosa si prova: non li invidio per niente.
Sul ruolo di capitana invece, è sicuramente una grande emozione. Io sono stata capitana in tutti club in cui ho giocato e ora mi sta succedendo un po’ in Nazionale. Cerco di guidare il gruppo condividendo la leadership, rendendola collettiva un po’ alla volta: è molto bello perché aumenta il riconoscimento degli altri nel tuo ruolo di leader. All’inizio ci si sente molta responsabilità, si vuol cercare di gestire tutto, poi capisci che devi essere un riferimento naturale, e non perché fai cento cose tutte insieme: così costruisci la tua credibilità dentro la squadra. Poi sai, io vengo da sport individuali, ho iniziato a giocare tardi, sono una persona un po’ timida, introversa, e nel rugby ho conosciuto un lato di me che ama il gruppo, la condivisione, che sa essere estroverso, parte integrante e attiva di un gruppo di persone: mi ha cambiato la vita.
Quando si parla di sviluppo del rugby, sia maschile che femminile, spesso ci si scontra con una realtà geografica per cui gran parte delle squadre, dei giocatori e delle giocatrici, sono nell’Italia settentrionale: il rugby, insomma, si è fermato a Eboli, anzi forse anche prima. In alcune realtà, come Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, c’è probabilmente un elemento culturale, in termini di parità di genere, difficile da scardinare, se pensiamo che si tratta delle quattro regioni fanalino di coda, in Europa, per occupazione femminile. Davvero non si può fare nulla per provare a ribaltare questa sproporzione fra Nord e Sud nel rugby italiano?
Io sono nata e ho vissuto gran parte della mia vita nella zona d’Italia che vive il rugby in maniera più forte, il Veneto. È vero che c’è un distacco forte, a livello nazionale, fra Nord e Sud, rispetto all’interesse e ai risultati nel rugby. Ma, di nuovo, penso sia anche una questione culturale. Sviluppare uno sport che in Italia fa fatica a essere visto come “uguale”per i due generi, in aree del paese dove la differenza di genere è ancora più marcata che nel resto del territorio, è ancora più difficile. Si deve quindi sviluppare un processo organico, bisogna avere il coraggio di farlo partire e noi dobbiamo metterci del nostro, come atlete. Mi ricordo una volta di una ragazzina quattordicenne che venne a parlarmi dopo una partita con la Nazionale, a Senigallia, e mi disse che da cinque anni giocava, ma che era l’unica ragazza: ci vuole grande forza, grande coraggio, per continuare, e in tante invece mollano. Noi abbiamo Giuliana Campanella, la nostra team manager, che è di Messina e lei da tutta la vita si batte per il rugby femminile in Sicilia, porta in giro la sua squadra, la allena, ma è lo sforzo individuale di una persona, è la solita eccezione, costruita da un essere umano eccezionale: è una cosa bellissima, ma dobbiamo fare in modo, lavorando in maniera strutturale, di farlo diventare normale.
Un’ultima cosa. Si parla molto, e spesso fra tante polemiche, di come il focus di World Rugby sui contatti alla testa, per cercare di limitare i casi di concussion, stia un po’ snaturando l’identità di questo sport, portando a punire con dei cartellini rossi molto rigidi dei contatti involontari. Tu cosa ne pensi?
Credo sia necessario aumentare la sicurezza in campo il più possibile, anche perché questo rende il rugby più accessibile. Il nostro è uno sport che sta cambiando e, come tutti i cambiamenti, all’inizio è difficile adattarsi, soprattutto per quanti magari hanno una percezione diversa di questo sport, perché ci hanno giocato venti, trent’anni fa: giustamente fanno più fatica a metabolizzare le nuove regole. Il rugby sta semplicemente diventando uno sport che privilegia più il gioco che il contatto. L’attenzione ai placcaggi alti, alle concussion, obbliga tutti ad aumentare l’efficacia del gesto tecnico, a mettere più attenzione nella costruzione tecnica del momento di contatto, a modulare la propria corsa in maniera da minimizzare le possibilità involontarie di colpire la testa di un avversario. Tutto questo è solo positivo, perché aumenta la sicurezza delle giocatrici e dei giocatori in campo e dunque influisce in maniera utile sul futuro di questo sport.