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Cosa si prova a non vincere una medaglia olimpica
11 ott 2021
11 ott 2021
Intervista a Mattia Camboni, windsurfista arrivato a un punto dalla medaglia a Tokyo.
(articolo)
10 min
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A Enoshima, il 31 luglio, una cappa di umidità grigia e filamentosa disegna grinze sulle maglie sudate. Non tira un filo di vento, e suona beffardo dal momento che nel pomeriggio è prevista la Medal Race olimpica per il Windsurf, classe RSX maschile. Sarà l’ultima volta che un uomo, a un’Olimpiade, salirà su quel tipo di tavola per regatare (dalla prossima Olimpiadi le tavole saranno windfoil). Sarà l’ultima volta che lo farà Mattia Camboni, con o senza il vento. L’inizio della gara viene rinviato di mezz’ora: Mattia, in acqua, prova e riprova, durante questa parentesi d’attesa, sequenze di pompaggio per la partenza. Immagina, prefigura, assapora scenari. Sogna, ora che la vede così vicina, che sente la consistenza prendere corpo tra le mani, una medaglia. Attende fiducioso che un refolo gli dia fiducia.

Ha l’espressione concentrata di chi vuole mangiarsi il mondo. Ma anche di farla finita, il prima possibile.

Foto di Valerio Mandrici

«Arrivavo con i risultati migliori della mia vita», mi ha detto tempo dopo, quasi due mesi più tardi, a Civitavecchia, dove abitiamo entrambi, mentre le strade intorno a noi erano spazzate dallo scirocco. «Risultati che non avevo mai fatto, che nessun italiano aveva mai fatto». Camboni si è presentato alle ultime Olimpiadi reduce da due argenti: uno al Mondiale, uno all’Europeo. Il 2021 lo aveva già consacrato, in Giappone cercava la glorificazione.

Per tutte le Olimpiadi ha navigato in condizioni di vento avverse alle sue caratteristiche (vento forte, mentre a lui è più congeniale la brezza), a Enoshima, però, prima che la Medal Race inizi, il vento era esattamente quello che lo esalta. «Se pregavo er Signore de damme le condizioni che volevo, me dava quelle». Il giorno prima, a sua madre, al telefono, ha chiesto a quanto lo dessero i bookmakers. Voleva sapere di essere considerato l’uomo da battere, che non fosse solo una sua percezione errata delle cose. «Poi», dice sorridendo, ma è un sorriso amaro, ancora un po’ stupito: «poi è successo».

Flashback, che bella la giovinezza

Ho visto molte volte Mattia Camboni scendere veloce delle scale e infilarsi su una tavola pronta a salpare dalla darsena antistante l’hotel dove la Federazione Italiana Vela organizzava i suoi raduni. La prima volta che ci ho parlato, però, è stata nel 2016. Era appena tornato dai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, dove era stato il più giovane atleta di sempre, nel suo sport, a competere in una Medal Race.

Mi ha raccontato degli inizi, del primo ricordo legato al mare «che è una vela di Pippo», di come suo nonno, il padre della madre, avesse di fatto portato il windsurf a Civitavecchia, da Cagliari, «un windsurf a volume, tutto di legno, ne ha costruito anche uno per tutti i soci della Lega Navale». Il windsurf, per i Camboni, «è sempre stata una cosa di famiglia». Il padre, dopo che c’eravamo salutati, mi aveva approcciato timido, ma orgoglioso, per raccontarmi i sacrifici, le litigate con la moglie, ma anche le soddisfazioni. Le spese - ma lo sai quanto costa una tavola? - ma anche la condivisione di una passione che in qualche modo lo aveva legato alla madre di Mattia. Quando poi vedi tuo figlio fare quello che piace a te, è una specie di prosecuzione della propria identità, la trasmissione di un’eredità.

«Uscivo da scuola e non vedevo l’ora di andare in mare, supplicavo mia madre di non mandarmi a scuola se c’era scirocco. Poi dopo sei o sette ore di vela ero stanchissimo, e lei faceva i compiti al posto mio».

Campione del Mondo Under 17 a 15 anni; Campione Europeo U17 a 16. Mattia Camboni è stato, probabilmente è ancora, quello che si dice un enfant prodige. Un predestinato. Tanto che nel 2012, in vista delle Olimpiadi di Londra, nonostante fosse ancora minorenne, Alessandra Sensini (windsurfista che ha vinto un oro, un argento e due bronzi a quattro edizioni dei Giochi Olimpici, da Atlanta ‘96 a Pechino 2008) lo ha scelto come sparring partner. Dopo Rio (dove alla fine è arrivato decimo) è stato reclutato dalle Fiamme Azzurre, fatto che gli ha permesso di dedicarsi appieno al windsurf.

Foto di Valerio Mandrici

Dopo essersi qualificato per la Medal Race di Rio, Camboni ricordava di essere sceso in acqua «fin troppo tranquillo, un po’ timido». Dopotutto aveva appena vent’anni, «ero quello con meno esperienza». Diceva anche che le Olimpiadi non possono essere assurte a unico paradigma che definisce un campione da un ottimo atleta, anche se lo sguardo - si capiva - era già puntato a Tokyo. «Cosa mi piace di questo sport? La fatica. Mi piace alzare l’asticella dei miei limiti, ammiro i ciclisti perché si fanno un culo così grosso ogni giorno, sei ore sulla bici, una vita di merda, esci alle sette col freddo e sai che il tuo compito è quello di andare a faticare».

Da Rio in poi, Mattia è cresciuto esponenzialmente. Bronzo agli Europei nel 2017, Oro ai Giochi del Mediterraneo l’anno dopo, in cui ha vinto anche l’Europeo. E nel 2019, l’oro nella Coppa del Mondo. Già campione, a Tokyo ci si aspettava un oro come conseguenza naturale delle cose.

Oggi, mi rode il culo

In uno dei video che il Team Italia ha fatto girare sui social prima dell’inizio delle Olimpiadi, a un certo punto Mattia dice: «Per me il windsurf è felicità». Quando gliene parlo, adesso che Tokyo è solo un ricordo, lui sorride e scrolla la testa. «No, non mi diverto quando salgo sulla tavola. Ogni allenamento è duro, durissimo. Andare in windsurf è sempre bello, certo, ma vacci 4 o 5 ore al giorno, tutti i giorni. Voglio trovarlo, chi si diverte. Il divertimento svanisce». Poi aggiunge: «il divertimento vero sta nel vincere tutto. Tutto il resto è noia».

Foto di Valerio Mandrici

Non so, se le cose fossero andate diversamente a Enoshima, se Mattia sarebbe così genuinamente sincero con me. Forse con la medaglia al collo avrebbe perpetuato la narrazione del divertimento come unico combustibile del successo (e non quel tipo di passione così centrifuga da farsi ossessione).

Poi parla della sua gara. «Un errore del genere può capitare», cerca di farsi autoassolutorio, o consolarsi almeno. «E poi lo vedi sfumare in questo modo. Ti crei le situazioni perfette, curi i minimi dettagli, e poi la perdi così… è un dolore. Ed è rabbia. Te rode er culo».

Camboni, nel giorno più importante della sua carriera, o della sua vita, che per chi proffonde questo tipo di sforzi quotidianamente è un po’ come dire la stessa cosa, è stato squalificato per partenza anticipata. Una penalità di 21 punti - 21 come i grammi che, si dice, pesi l’anima - che gli hanno fatto perdere, per un punto sul totale, il podio. La medaglia.

«Eravamo in tre, tutti attaccati, tavola a tavola. L’uno ha portato fuori l’altro. Abbiamo forzato tutti e tre la partenza, e ci hanno squalificati». Sono convinto che rielaborare l’errore come condiviso, in qualche maniera, contribuisca a scagionare Mattia, almeno, dal fardello francamente insostenibile di aver sbagliato di per sé.

Foto di OLIVIER MORIN/AFP via Getty Images

Mentre parliamo evoca la storia di Steven Bradbury, il pattinatore di short track australiano che alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City, nel 2002, per una serie di squalifiche e cadute rocambolesche, ha finito per vincere l’oro. Alla fine di quella gara Bradbury disse «non ho vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario». I dieci anni di sforzi di Mattia, invece, il suo personalissimo calvario, si sono trasformati in un piccolo incubo.

«Non era mai successo, nella storia della vela, che ci fosse una partenza anticipata in una finale. Figurati tre. Non ho sentito né il suono, né ho visto la bandiera. Ho continuato a pompare. Non pensavo di aver spinto così tanto in partenza. Non m’era mai capitato», ripete, come un mantra «mai fatta una partenza anticipata… pensa che stronzo».

Domani, chi lo sa

Tempo fa mi è capitato di leggere un articolo di Edward Etzel, un tiro a volista USA, oggi professore universitario, che spiegava - o cercava di spiegare - quanto fosse difficile, per un atleta di uno sport cosiddetto minore, cercare di arrivare al top mentre deve barcamenarsi per pagare le bollette. Citava un adesivo visto su una chitarra, che recitava «Real musicians have a day job», ovvero: i veri musicisti hanno un lavoro vero. Per un atleta olimpico, come Mattia Camboni, non vincere (che è anche peggio, per certi aspetti, di perdere) significa prendere coscienza di quanto quel lavoro vero sia schifosamente necessario. Dopo le lacrime ci sarebbe stata la vita reale. Nessun ascensore sociale, uno sport minore non ti proietta nel jet set, tanto meno se non vinci quella maledetta medaglia.

Ad amplificare la delusione, credo, ha contribuito il fatto che quella di Enoshima era l’ultima possibilità di vincere una medaglia olimpica cavalcando una tavola che dai prossimi giochi sarà un ricordo del passato. «Ma non ci pensavo, quando sono sceso in acqua. Pensavo solo alla medaglia. Stai venti giorni a pensà solo a quello, a tutti i sacrifici. Le Olimpiadi ti cambiano la vita: ma solo se fai medaglia. E non è la medaglia in sé, è l’opportunità di sistemarsi. A Rio ero un ragazzino di diciannove anni, ora ne ho 25...».

La spirale che innesca un fallimento, per un atleta, può essere ferale. Può alimentare i sensi di colpa, da una parte, e l’autocommiserazione, dall’altra. Ti può portare a convincerti che tutti gli sforzi siano stati vani. Oppure che lo sport, a cui hai dato tanto, tutto sommato non ti meriti. «Ho cambiato punto di vista, sullo sport. Ho capito che è crudele. Perché la vita è crudele».

Foto di Valerio Mandrici

Due mesi dopo sembra che l’amarezza non sia ancora passata del tutto. «Non ho mai vissuto grandi dolori, sono sempre stato fortunato. Ho raggiunto ogni obiettivo, delusioni quasi mai. Però mi è arrivata grossa, alla fine. Tutta insieme. Ho capito che lo sport è crudele perché chi merita non è detto che ottenga. Non conta niente».

Forse Camboni è fin troppo duro con se stesso. Non si appiglia a nessuna attenuante. «I pro sono quelli che non sbagliano, in queste situazioni». E continua: «Non è stata sfortuna. Direi più un errore, anche se troppo costoso. Più che altro perché l’ho fatto nel giorno più importante della mia carriera. Se fosse stata solo sfortuna avrei potuto limitare i danni, cercare di raddrizzare il mio destino. Così invece l’ho forgiato. Per 30 centimetri ho mandato a puttane cinque anni di allenamento».

Come accennato, alle prossime Olimpiadi di Parigi, tra tre anni, il windsurf maschile si gareggerà sulle tavole da windfoil: più rapide, più agili, chissà più spettacolari, in linea con il trend inaugurato dal CIO con Tokyo. «Anche se in realtà chi è appassionato si sarebbe guardato le gare lo stesso, e chi non ci capisce niente continuerà a non guardarlo, neppure se mettono i missili sotto alle tavole».

Lui si sta preparando, vuole rimanere nell’élite della vela italiana. «Ho cominciato dieci giorni fa, con il foil». Adesso gli vedo, negli occhi, lo stesso entusiasmo ragazzino che gli avevo visto dopo Rio, e che non poteva aver perso, perché gli appartiene. Dice di aver messo su, in dieci giorni, tre chili di massa magra, perché a tavole diverse corrispondono diverse fisicità, necessarie per dominarle.

«Se avessi vinto una medaglia magari mi sarei preso qualche mese. Invece ho cominciato quindici giorni dopo quella delusione. Avrei vissuto volentieri un po’ più di vita, perché in questi anni non ho vissuto pur di essere il numero uno. Non mi sono concesso niente niente niente. E forse non avrei puntato subito a Parigi. Perché ci sono solo 3 anni davanti, e forse non mi sarei ucciso. Ora, invece, lo farò».

Non è meraviglioso, in fin dei conti, che da una rosicata mastodontica sia in qualche modo scaturita una nuova sfida da raccogliere?

«Lo sport è crudele, sì, ma ti dà sempre una chance». E poi, poco prima di salutarci, aggiunge ancora, cambiando leggermente il senso delle sue parole, dei suoi pensieri evidentemente ancora in divenire: «Fino a quando ci credi, ovviamente. Perché la chance te la devi dare tu. Lo sport non ti dà niente: lo sport è crudele».

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