L’articolo è tratto dalla newsletter sullo sport femminile curata da Giorgia Bernardini “Zarina”. Ci si iscrive qui.
Quando a sette anni ho chiesto a mio padre se potevo iniziare a giocare a calcio non era pronto. Mi rispose in maniera vaga che non era sicuro potessi, perché vicino casa c’erano solamente squadre maschili. Nonostante tutto, in virtù della mia insistenza quotidiana, un giorno mi disse che avrei potuto iniziare nella squadra del paese, dove giocavano anche i miei compagni di classe. Così il calcio divenne parte della mia vita da bambina. Divenne crescita, passione, scoperta, ma anche divario, quando a 13 anni iniziai ad accorgermi che le differenze fisiche con i miei compagni maschi diventavano ogni giorno più grandi. Fu a quell’età che decisi di passare in una squadra femminile, l’inizio di un nuovo percorso.
Gli anni del calcio femminile, passati tra la squadra del Belluno e quella del Vittorio Veneto, furono indimenticabili. Anni di lotte, di compleanni passati in qualche campo della regione, anni di treni, freddo, pioggia, fango, gioie. Facevo di tutto per non saltare neanche un allenamento, mettevo il calcio davanti a tutto, ma poi vedevo che per le ragazze più grandi di me non era così. A Vittorio ci allenavamo al campo accanto a quello della prima squadra e quando notavo l’assenza di qualcuna delle calciatrici che ammiravo ero molto delusa. Poi scoprì che oltre a giocare a calcio, lavoravano. Per me, ancora piccola, era inconcepibile: io volevo solo giocare a calcio.
Presto però anche io iniziai a fare i conti con la realtà: il calcio non mi avrebbe dato un futuro. “Il calcio non ti darà da mangiare, lo studio sì”, diceva mia madre arrabbiata ogni volta che fingevo di aver fatto i compiti per guadagnare un’ora di campetto in più. Alla fine mollai, come molte altre ragazze a cui è stato detto di scendere dalle nuvole perché non c’era futuro nel sogno di essere calciatrici e non era solo un discorso di non essere abbastanza brave o veloci: farsi strada nel calcio femminile è prima di tutto farsi strada in un percorso accidentato, pieno di dubbi e rinunce, con zero certezze.
Per fortuna però qualcuna non ha mollato: alcune sono rimaste ferme sui loro propositi, hanno lottato per un sogno che a molte altre sembrava troppo grande anche solo per essere pensato e perseguito. Marta Carissimi è una di loro. Ha esordito in Serie A nel 2003 con la squadra della sua città, il Torino. In 20 anni di carriera ha giocato con Verona, Inter, Fiorentina e Milan, più una parentesi allo Stjarnan, in Islanda. Tra Nazionale giovanile e maggiore ha vestito l’Azzurro per 87 volte.
Tullio M. Puglia/Getty Images
Nonostante la carriera a tempo pieno come calciatrice, si è laureata e ha iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia. Un percorso di vita, quello di unire calcio ai massimi livelli, studio e lavoro, che unisce molte calciatrici e che ha richiesto enormi sacrifici. Ma è proprio da qui, dall’impossibilità di poter giocare a calcio a tempo pieno, che nasce la battaglia di Marta Carissimi e di altre atlete come lei, che con i loro sforzi hanno gettato le basi per i progressi che sono stati raggiunti nel calcio femminile di oggi che si avvicina al professionismo anche in Italia.
Della sua carriera, dei suoi sforzi e di quello che sta facendo ancora oggi per il calcio femminile ne abbiamo parlato insieme.
È passato più di un anno da quando hai smesso, ma visti i tuoi impegni all’interno dell’ambiente è come se non te ne fossi mai andata. Immaginavi così il tuo futuro fuori dal campo?
Lo vedevo così il futuro, diciamo, perché il calcio per me è sempre stato importante, ma sapevo che non poteva essere un lavoro. Poi verso la fine della mia carriera sono passata alla Fiorentina, che in quel momento era l’unica squadra maschile ad essere entrata nel calcio femminile. Lì ho iniziato a vedere che era tutto in grande evoluzione, ho visto cosa poteva nascere, ho visto nuove figure all’interno dei club più strutturati e ho capito che avrei potuto continuare in questo ambiente. Nella mia ultima stagione di calcio giocato, nel 2019/2020, ho iniziato una formazione accademica in questa direzione con un master in gestione degli impianti sportivi.
Durante il lockdown sapevo che avrei smesso di giocare e ho scelto anche di chiudere con il lavoro in azienda, senza sapere di preciso cosa avrei fatto, ma con la consapevolezza che avrei potuto dare qualcosa al calcio femminile. Così ho iniziato un percorso da libera professionista come consulente di marketing per le aziende – sempre con un focus sul femminile – mentre prendevo il patentino UEFA B come allenatrice per formarmi dal punto di vista tecnico.
Nel frattempo ho iniziato come commentatrice della Nazionale per la Rai e ho partecipato ad un corso sulla leadership femminile organizzato dalla FIFPRO. Sono state selezionate quattordici persone da tutto il mondo ed è stato stupendo, molto interessante e formativo. Per me come avrai capito la formazione conta tantissimo per comprendere la direzione che sta prendendo il calcio, cosa sta diventando, dove stiamo andando e per aprirmi a nuove opportunità.
Da poco ho terminato il corso in Management del calcio indetto da FIGC e Bocconi, un corso davvero interessante. Poi in tutto questo è arrivata anche la collaborazione con DAZN come commentatrice della Women’s Champions League: questo è il quadro, faccio un po’ di cose.
Infatti non ti chiedo cosa tu faccia durante il tempo libero perché mi sembra evidente che non ne hai.
Ricapitolando: laurea in ingegneria gestionale, master in gestione degli impianti sportivi, commentatrice Rai e Dazn, consulente in marketing e fresca di corso in Management del calcio. Qual è l’obiettivo?
Vorrei mettere a disposizione sempre di più la mia esperienza e le mie competenze, sia quelle che ho ottenuto studiando e formandomi sia quelle acquisite lavorando a trecentosessanta gradi nell’azienda di famiglia, dove mi occupavo un po’ di tutto in maniera trasversale. Ho fatto un percorso sia calcistico sia professionale, quindi le mie competenze non sono solo accademiche. L’obiettivo è questo, non saprei dirti con precisione in che vesti e in che ruolo.
Nel corso FIGC in Management del calcio eravate solo due donne in un gruppo di trentacinque partecipanti. Secondo il tuo punto di vista com’è possibile colmare il vuoto di leadership femminile in un ambiente tipicamente maschile come quello del calcio?
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Però, pur essendoci queste opportunità nel tuo corso eravate solamente due donne, forse la mancanza di modelli femminili ai vertici gioca un ruolo in questo meccanismo.
È vero anche che, in generale, per qualsiasi ambito, avere dei modelli aiuta a sapere di “poter diventare”, ma per fare in modo che questo avvenga bisogna lavorare molto; competenze e opportunità sono la chiave. Credo molto nel mix delle due cose e credo fortemente che avere donne nel mondo del calcio, come in qualsiasi altro ambito lavorativo, possa aiutare. Penso che il confronto fra generi, fra punti di vista diversi così come culture diverse, non possa che portare all’arricchimento. Vedere la stessa cosa da punti di vista differenti porta sempre ad una crescita.
Dalla prossima stagione per il calcio femminile italiano si apriranno le porte al professionismo ma i dubbi che ruotano attorno al nuovo modello con una serie A sempre più elitaria a dieci squadre e la sopravvivenza delle piccole società vivacizzano il dibattito. Quali saranno le principali difficoltà che il professionismo dovrà attraversare?
Come dice “We ALL rise with more eyes”, il titolo dello spot di Dazn, c’è bisogno che si arrivi ad un meccanismo sempre più qualitativo nel calcio femminile affinché si possa attivare un circuito più vasto di sponsor e visibilità. Che ruolo occupano i media in questo gioco?
Il Mondiale di calcio femminile del 2019 ne è stato un esempio: è arrivato a tutti, anche a chi non lo aveva seguito fino a quel momento. Anche grazie a partite iconiche come Italia-Brasile il pubblico si è appassionato al calcio femminile, un match che è stato visto da sette milioni di persone.
Ora ci sono altri canali come DAZN che, pur essendo una Pay Tv, ha fatto una partnership con Youtube per trasmettere gratuitamente la Champions femminile. Oppure La7 che dà in chiaro una partita di serie A femminile ogni weekend. Ne cito solamente alcuni, però è evidente come i media siano determinanti affinché il calcio femminile possa amplificare il suo pubblico e dimostrare il suo valore.
Come valuti l’informazione che si fa in Italia rispetto al calcio femminile?
Penso anche al fatto che sono passati già sei anni da quando la Federazione ha imposto alle società maschili l’obbligo di avere giocatrici tesserate Under12 e di acquisire il titolo sportivo. Abbiamo fatto degli enormi passi in avanti e siamo sulla strada giusta: adesso arriverà il professionismo ed è una cosa che avremmo voluto tanto, ne parlavamo da forse vent’anni ma i tempi non erano maturi. Ora che lo sono è importante che tutte le componenti funzionino in sinergia e i media in Italia hanno un grande compito in questo.
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Al di là del lavoro di alcune testate e qualche rispettabilissima pagina gestita da appassionati/e, è difficile reperire informazioni sul calcio femminile e le sue interpreti a trecentosessanta gradi, a meno che queste giocatrici non abbiano la fama di Cristiana Girelli o Barbara Bonansea. All’estero c’è un’attenzione mediatica molto diversa.
Il vantaggio attuale è che i club di calcio maschile hanno molto seguito e utilizzano i loro canali anche per parlare delle loro atlete; in questo modo raggiungono una fetta di pubblico molto più ampia rispetto alle testate dedicate che, al momento, sono seguite da una nicchia.
Dopo quel match fra Croazia-Italia abbiamo capito che andare allo stadio con il telefono carico è fondamentale (partita in cui le trasmissioni Rai sono state interrotte improvvisamente a causa di un black-out allo stadio, nda).
Nonostante la tua diretta abbia suscitato ilarità, molti e molte non hanno preso bene la mancata ripresa del servizio Rai.
Qui si potrebbe aprire il solito discorso sulla qualità degli impianti che vengono utilizzati e messi a disposizione del calcio femminile, è la UEFA in questo caso che sceglie dove giocare in partite come questa.
Anche per noi è stato un momento di disagio, ci siamo trovati con gli schermi anneriti da un momento all’altro. Per fortuna avevo il telefono carico e ho cercato di far vedere gli ultimi minuti della partita dal mio profilo.
Per concludere ti farei una domanda in pieno stile colloquio di lavoro: dove vedi Marta e il calcio femminile tra cinque anni?
Per quanto riguarda me invece, non so di preciso dove mi vedo e a fare cosa, l’unica cosa che auguro a me stessa è di essere felice qualsiasi sarà la mia strada.