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Non riesco ad essere egoista, intervista a Kouamé
20 feb 2019
20 feb 2019
L'attaccante ivoriano del Genoa ci ha parlato di calcio italiano, modelli da seguire e razzismo.
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Se avessimo visto giocare Christian Kouamé per la prima volta questa domenica, nella partita che il Genoa ha vinto in rimonta contro la Lazio, ci saremmo comunque già fatti un’idea precisa del peso specifico che ha nel gioco del “Grifone”. Una gara in cui Kouamé ha mostrato tutto il suo repertorio tecnico, che ieri si è messo in luce in due fasi molto distinte: la prima, esiliato sulla fascia sinistra, arginato da Patric nel contesto di una partita anchilosata; la seconda, più anarchica, nel secondo tempo, quando i compagni lo hanno cercato costantemente, da vero epicentro di ogni manovra offensiva. Il successo del Genoa è di quelli significativi, non solo per la

, ma anche, nel suo piccolo, per Christian Kouamé e i suoi compagni: raggiunto all’ultimo secondo, e a quasi sei mesi dal crollo del Ponte Morandi. Un successo che rinvigorisce il legame della squadra con la città, insomma, oltre che con i suoi tifosi.

 



«Mi viene normale ricoprire più ruoli, e penso sia una cosa giusta» mi ha detto pochi giorni prima di scendere in campo con la Lazio, a una mezz’ora scarsa dall’amichevole di rifinitura del giovedì, al Centro Sportivo Gianluca Signorini. Sulle gradinate del campo di Pegli ci sono statue che perpetrano un ideale classico di armonia, tutto il contrario - eppure, in qualche maniera, coerenti - dell’andatura snodata dell’ivoriano quando attacca la profondità. «Se non penso a fare una cosa sola in campo è perché non riesco a essere egoista, a pensare solo a me. E non voglio limitarmi a una cosa sola».

 

Effettivamente è dall’inizio della stagione che Kouamé è impegnato in un processo di lievitazione costante, che l’ha portato a imporsi come uno dei giovani più interessanti della nostra Serie A. Lo vediamo svolgere, durante la partita, una marea di cose diverse in zone differenti di campo, ricoprire ruoli e svolgere funzioni con una fluidità nella quale il gol sembra un po’ l’ultimo dei pensieri. Che per un attaccante suona quantomeno strano. «Ci penso, al gol, ovviamente. Ma non credo che un attaccante debba solo fare gol». La frase che dice subito dopo sembra un riflesso pavloviano, un cliché che tutti i calciatori, a un certo punto, sembrano portati a perpetuare: «Prima di tutto devo aiutare i compagni nel lavoro di squadra. Poi penso al gol». Nel caso specifico di Kouamé, però, questo non è un semplice artificio retorico: è



 

Nel Cittadella, l’ultimo passaggio tra i professionisti prima dell’approdo al Genoa, si era consolidato come una spalla capace di svariare su tutto il fronte d’attacco. Sotto la Lanterna, in coppia con Piątek, ricoprendo lo stesso ruolo, è riuscito a lenire gli effetti del salto di categoria. Normale che - nonostante Prandelli pensi che largo sulla fascia possa essere «un’arma importante» - la posizione in cui si senta più a suo agio sia «come seconda punta. Anche come prima, ma il ruolo di seconda punta lo sento più mio». Da unico attaccante ha giocato in casa dell’Empoli: sfruttando una dominanza che non è subito evidente guardando il suo fisico, ma che invece emerge ogni volta, per via del suo uso saggio, e consapevole, del corpo nello spazio.

 



 





 


Dopo l’importante gol contro il Napoli, nel girone d’andata, Kouamé ha esultato à la Drogba: un tributo particolare, dato che il gol è giunto nella settimana in cui l’icona ivoriana aveva annunciato il proprio ritiro.


 

Dopo averlo schierato da centravanti con l’Empoli, Prandelli non era propriamente entusiasta dell’esperimento: «Mi piacerebbe vederlo giocare in un’altra posizione», aveva chiosato dopo averne esaltato l’impegno e la spensieratezza, riconoscendogli generosità e corsa, ma anche una certa mancanza di lucidità davanti alla porta.

 

Kouamé, al di là dei paragoni, sembra innanzitutto un calciatore intelligente, consapevole delle sue caratteristiche, ma anche dei suoi limiti, a cui tendono gli sforzi per migliorarsi. Forse è anche per questo se tra i suoi modelli citi una delle punte più moderne in circolazione: «Un giocatore che mi piace tanto è Karim Benzema. Mi piace seguire i movimenti straordinari che fa, è davvero incredibile».

 

Secondo l’ultimo report CIES, Christian Kouamé è nella top 25 dei calciatori Under 21 più utilizzati in Europa, il sesto in Italia dietro Donnarumma, Audero, Milenkovic, Barella e Chiesa. Tutti punti fermi nelle rispettive squadre. Nonostante in stagione il Genoa abbia già cambiato tre allenatori, Kouamé è una costante. «Sia Ballardini che Juric che Prandelli hanno puntato sui miei punti forti; io non faccio altro che mettermi nelle condizioni giuste, cercando di mettermi in mostra durante gli allenamenti».

 




 

A inizio stagione la sua



 



 

Sarebbe piuttosto interessante capire se i compagni d’attacco, Piątek e Sanabria, si aspettassero da Kouamé un repertorio così variegato e per certi versi sorprendente, che conta caratteristiche più o meno intuitive: riconoscergli



 




Il gesto tecnico nel quale si riconosce di più, comunque, è «attaccare lo spazio. Credo che la corsa sia una delle mie caratteristiche migliori». Allo stesso tempo, però, «il calcio non è per niente solo corsa», aggiunge quando il discorso scivola sul processo evolutivo del calciatore, in un contesto in cui la velocità, la rapidità, sono vantaggi innegabili. «Ci vuole anche la testa, per capire dove



 

Di Kouamé si dice che a precludergli un futuro nell’Inter, nella Primavera della quale ha militato per un semestre, nel 2016, sia stata una certa immaturità tattica. De Petrillo, suo allenatore al Prato prima e dopo la parentesi nerazzurra, è convinto che «quando hai talento prima o poi esce fuori, non c’è bisogno di regole». Kouamé, in quel camminare sul sottile filo rosso che divide la maturità tattica dal talento anarchico, sembra aver trovato un bilanciamento piuttosto preciso finora.

 

Gli chiedo se secondo lui nel percorso di crescita di un calciatore sia meglio giocare nelle Primavera o nelle serie inferiori, e se magari la creazione delle squadre B possa essere positiva sotto questo punto di vista.

 

«Dipende anche dalla piazza dove vai», mi dice, «l’importante credo sia trovare una squadra in cui puntano su di te, in cui giochi non dico tutte le partite, però a sufficienza». «E comunque», aggiunge, «meglio giocare coi grandi perché impari tantissimo: io ho fatto così, guardando chi avevo davanti, cercando di rubargli i segreti».

 



È importante ricordare che oltre alle due esperienze in squadre Primavera, con Sassuolo e Inter, la formazione calcistica di Kouamé si è svolta essenzialmente nelle serie minori, tra C col Prato e B con il Cittadella. E il mondo delle giovanili lo ha praticamente solo lambito: arrivato in Italia poco prima che fosse sedicenne, trasportato da Abidjian - dove Paolo Toccafondi,



 



Alla firma del contratto con il Cittadella, in un bar vintage.


 

La sua famiglia è in Costa d’Avorio: con sé ha portato una collanina tribale, l’unico legame fisico, tangibile con le sue origini. E il ricordo del padre che non voleva lasciarlo partire, per istinto protettivo, eppure desiderava andasse - e arrivasse - lontanissimo. «Lo stesso farò con mio figlio, credo, se penserò che qualcosa possa ferirlo», mi dice quando il discorso verte sui rapporti tra padre e figlio.

 

Christian è padre da pochi mesi, e io di nuovo da poche settimane, entrambi di bambini che potrebbero diventare giocatori, come odiare il calcio. «Magari non lo spingerò a fare qualcosa che non vorrà fare; però a scuola calcio ce lo mando, poi sceglierà lui se gli piace oppure no».

 

Una scuola calcio, Christian Kouamé, non l’ha mai frequentata - nonostante ad Abidjian ci sia una delle



 

tra i professionisti è un distillato di talento: controllo di spalla, due passi stretti, la conclusione di prima intenzione. 



 



Criscito lo lancia nello spazio proprio nel momento in cui Kouamé, con una repentina inversione di marcia, trasforma il movimento a rientrare in uno scatto bruciante con cui si incunea nell’area avversaria per concludere con un sinistro chirurgico, sul lato opposto. 



 

Un campionato nel quale non si è mai sentito fuori posto: «Il livello della Serie A si è alzato molto, è arrivato Cristiano Ronaldo e ora tantissimi la conoscono e credo che si alzerà ancora di più, perché secondo me altri campioni assoluti finiranno per arrivare». E in Serie A, Christian Kouamé si trova a suo agio, senza troppe sovrastrutture.

 



Mi ha colpito molto, riguardando la conferenza stampa della sua presentazione al Genoa, l’ingenuità con cui Kouamé ha affrontato i giornalisti, la simpatia nell’ammettere di non essersi mai preso il tempo sui 100 metri, la sensazione di generale felicità che emana, anche nell’intervista che recentemente Sky gli ha tributato a spasso per i carrugi di Genova. Anche se devo dire che dal tono della sua voce, durante l’intervista, la scanzonatezza delle sue prime interviste ha lasciato il posto a una certa maturità, che credo derivi dalla consapevolezza del suo ruolo. Come se sulla sua voce fosse sorta una ruga, quella del Pescatore di De André, che somiglia a una specie di sorriso.

 

A un certo punto la nostra chiacchierata finisce per scivolare verso il tema del razzismo degli stadi. A lui, dice, «episodi di razzismo non sono mai capitati. Quando ti capita una volta, due, allora lì credo che capisci com’è davvero. In generale parliamo di qualcosa che non dovrebbe proprio esistere, ormai siamo troppo avanti». Eppure così avanti non sembra che siamo, insisto, e gli chiedo se secondo lui i calciatori, visto l’impatto mediatico di cui godono, dovrebbero esporsi di più su questi temi extra-calcistici. «Il mondo oggi è così evoluto che c’è gente di colore ovunque, di cosa parliamo? Il fatto però è che dappertutto c’è anche ignoranza, e il razzismo non è solo contro chi è di colore, è contro molte altre persone».

 

Non dico che si tratti di indifferenza, o lassismo: anzi, secondo me denota una maturità ancora maggiore, una superiorità. Quando gli chiedo se pensi che soprannomi come “gazzella” o “freccia nera” siano luoghi comuni svilenti, al di là delle connotazioni razziste, proprio perché finiscono per ridurre un giocatore a un cliché, mi risponde «se fa piacere a loro, chiamarmi così, per me va bene. Non è interessante capire quanto faccia piacere a me».

 

Tornando ai fatti di campo, dopo questa stagione è naturale pensare a Kouamé anche in ottica Nazionale, e quindi Coppa d’Africa, soprattutto adesso che Kamara Ibrahim, il tecnico ivoriano che l’ha convocato per la prima volta, a fine 2017, nell’Under 23, è diventato allenatore della Nazionale maggiore. «Ogni tanto mi chiama, parliamo, ma ci sono anche altri giocatori che stanno facendo bene. Tutti vorremmo andare in Nazionale, ma probabilmente non è ancora il mio momento». «La mia generazione» continua «dovrà raccogliere un’eredità pesante. Non so se riusciremo mai a eguagliare quello che hanno fatto quelli là (dice riferendosi alla generazione dorata dei Drogba, Yaya Touré, Gervinho, NdA), ma dovremo provare almeno ad avvicinarci».

 

Alla fine, la volontà non è onnipotente, se il fato non decide di accoglierla. Christian Kouamé sembra essere padrone delle sue forze, ma anche allo stesso tempo inconsapevole protagonista di una sceneggiatura che non ha scritto del tutto lui.

 

Quando gli chiedo dove si vede tra cinque anni, poco prima di salutarci, mi dice: «Questo non lo so». E poi aggiunge «non lo decido io».

 

 

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