Vi sarà capitato, ma per quello che so dei social network forse è capitato soprattutto agli interisti, di aggiornare i feed e di continuare a imbattersi in quei “19” incorniciati in un tricolore su sfondo nerazzurro. Questo è il primo scudetto in cui mi è capitato di fissarli e pensare: «È il sedicesimo scudetto di mio nonno, il nono di mio padre, il sesto da quando sono nato io». Non lo so perché l’ho presa così, con questa prospettiva storica, come se ogni scudetto valesse per la luce che riflette sui precedenti, e parlasse della storia di una società più che della squadra che lo ha effettivamente conquistato, forse dovremmo smetterla di contarli. Ma forse è perché mi sono vissuto male la stagione, perché è quella in cui ho visto meno partite dell’Inter da quando sono nato, e ho perso il fuoco con il presente, e quindi riesco ad assorbire questa grande gioia solo mescolandola con senso di rivalsa a tutte le sofferenze che ho patito negli ultimi dieci anni e poi ancora prima, nei primi dieci di presidenza Moratti.
È l’Inter, in realtà, che mi ha insegnato questa sospensione del giudizio e questo atteggiamento di sospetto, che mi ha educato alla penitenza e alla riconciliazione, che i momenti belli me li sarei potuti godere di più, e alla fine mi sono vissuto più intensamente tutti gli altri. Perché l’Inter non è la squadra della mia città, ma è la storia della mia famiglia.
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Anche Conte aveva smesso di piacermi. E questa doveva essere per forza l’Inter, perché Conte non aveva mai smesso di piacermi mentre allenava la Juve. Conte è stato una benedizione per il calcio italiano, non solo per il personaggio, per la gimmick, ma anche per la professionalità, per la raffinatezza delle idee, per le sue ossessioni, per il confronto sempre conflittuale con il passato, che non ha mai ceduto alle carezze della nostalgia, e per l’animo in lotta contro l’ordine costituito.
Dopo la partita col Parma mi chiedevo se si sarebbe dimesso. A quel punto l’Inter aveva raccolto 11 punti dopo 6 giornate ed era a 5 punti dal primo posto, non c’era veramente nulla di cui disperare, eppure l’Inter giocava troppo male perché a Conte, come un po’ sembrava a guardarlo in tv, quasi non importasse. Diceva che mancavano cinismo, determinazione e cattiveria, come fanno gli allenatori di provincia da cui ha sempre provato a prendere le distanze. Dopo la partita di ritorno contro lo Shakhtar, diceva che non mancavano neanche quelle, solo la capacità di convertire in gol le tante occasioni create. Che è vero, c’erano state. L’azione in cui Lautaro prende la traversa sarebbe stata un gran bel gol da ricordare. Ma tutto il contorno era stato deprimente, anche la maglia era fastidiosa, la seconda, e adesso mi rendo conto che è difficile ricordarsene, ma è stata veramente brutta quella partita contro lo Shakhtar. Io ho avuto il coraggio di rivederla solo a tratti: le incomprensioni, gli errori tecnici, le idee sbagliate, non facevano pensare a una squadra che avrebbe vinto il campionato.
Nella mia testa era tutto chiaro: la libertà d’impresa un po’ nebulosa della proprietà cinese, il clima ostile tra Conte e alcuni non meglio noti dirigenti nascosto tra le righe di tutti i retroscena pubblicati dai giornali, i giocatori che vedono sempre aumentare le mensilità di stipendio arretrate e a fine anno si presentano in sede per ridiscutere i contratti. Ora che la squadra non era mai stata così forte, era già tutto finito. In mezzo ci sono state tante partite che non riuscivo a vedere perché ho scoperto, ma forse potevo prevederlo, che lavorare di notte e nei weekend è incompatibile con il calcio che sono disposto a seguire io, cioè più o meno tutto quello che le televisioni sono disposte a distribuire. E a un certo punto ero felice così, perché sentivo mio padre disgustato dopo la partita in casa contro il Real Madrid, tornavo in magazzino arrabbiato e pensavo che non avrei mai visto un minuto di quella partita, e così è stato finché non ho iniziato a scrivere questo articolo.
All’improvviso, l’Inter si scopriva persino una squadra stupida. Stupida nei suoi giocatori peggiori, come Vidal che cade in area, poi fa il bullo e si fa espellere al trentesimo, e nei suoi giocatori migliori, come Barella che insegue Nacho fino a travolgerlo e a provocare un rigore. In campionato, gli scontri diretti contro Lazio e Milan erano andati così così, e anche quelli erano stati confronti nevrotici, con tante occasioni create ma anche molti brutti errori e un generale senso di insicurezza che poi determinava il risultato finale.
Nella confusione dei primi mesi, Vidal e Nainggolan sarebbero potuti diventare titolari a centrocampo. Foto di Claudio Villa / Getty.
È vero che la classifica restava buona, e che la qualificazione agli ottavi è rimasta in sospeso fino all’ultimo secondo dell’ultima partita, ma rispetto alle aspettative con cui era partita la stagione non c’era molto a cui aggrapparsi. Poi la squadra ha iniziato a crescere quasi senza accorgersene, ma soprattutto non me ne accorgevo io perché non la guardavo. Non ho visto la partita col Sassuolo, vinta 0-3 col 34% di possesso palla e senza Lukaku, e non ho visto la partita contro il Napoli, forse la prima vittoria pesante della stagione, col 41% di possesso palla e due tiri in porta tra cui il rigore decisivo di Lukaku.
Ho visto però, in mezzo a queste due, le vittorie contro Bologna e Cagliari, completamente diverse tra di loro, eppure entrambe terminate con lo stesso risultato, 3-1. La prima è stata una partita remissiva, col pallone sempre tra i piedi del Bologna nel secondo tempo, ma messa subito al sicuro con un paio di accelerate fulminanti. La seconda, quattro giorni dopo il disastro contro lo Shakhtar, una partita giocata all’attacco, palla a terra, con Eriksen e Sánchez titolari dal primo minuto, tantissime occasioni create e un vantaggio del Cagliari durato 77 minuti per un gol subito allo scadere del primo tempo con un cross dalla trequarti a difesa schierata. Nell’ultimo quarto d’ora è salito in cattedra Nicolò Barella e l’ha vinta da solo.
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Più non riuscivo a capire che squadra fosse l’Inter, più l’Inter diventava una squadra. E magari Conte non credeva in tutto quello che ha detto dopo l’eliminazione in Champions, ma devo riconoscergli che aveva fatto quello che devono fare gli allenatori in quei momenti, proteggere la squadra, apprezzare gli sforzi, tenere compatto il gruppo, che ha resistito adattandosi partita dopo partita. E a fine stagione ha indicato quella rimonta nei minuti finali come «il momento chiave» del campionato: «Il gol di D’Ambrosio al Cagliari, nel momento più difficile».
Un’altra cosa di cui mi accorgo soltanto ora è che l’Inter ha chiuso il 2020 con una striscia di otto vittorie consecutive. Mi fa strano perché ero ancora perplesso arrivato alla partita con la Roma, e quindi dopo essere andati due volte sotto in casa con il Crotone, e aver perso una partita a Genova in cui per qualche motivo Candreva e Keita erano gli ultimi due, in piedi fianco a fianco, che chiudevano la carrellata televisiva durante la presentazione delle squadre (come funziona in quel momento? C’è l’inno della Serie A? È troppo tempo che non vado allo stadio). E per qualche motivo io ero a Matera a pranzo dai miei e ho guardato mio padre e lui mi ha guardato, siamo rimasti in silenzio ed è finita così, un gol a testa e 2-1 Samp, con Damsgaard che danzava sul fango. Una delle tante partite di quel periodo in cui Eriksen entra tardi nel secondo tempo, ha una punizione che potrebbe cambiare tutto e non succede nulla, neanche ci va vicino. (Io me ne ricordo tante, ma come è possibile se vincevamo sempre? Questa è per forza l’Inter).
La partita con la Roma la ricordo principalmente per questo doppio cambio, che seguiva quello di Perisic per Martínez, che mi ha dato le stesse vibes di Santon per Icardi contro la Juve.
A quel punto è arrivata una vittoria contro la Juventus, a cambiare la stagione. Non capita spesso che l’Inter batta la Juve in campionato, e per uno strano contrappasso gli ultimi due allenatori riusciti nell’impresa erano stati Stramaccioni e de Boer. Avevano vinto e poi gli era naufragata la stagione, la carriera, la reputazione, tutto. Quest’anno è successo il contrario. È un peccato saltare velocemente la vittoria in Coppa contro la Fiorentina, un’altra partita triste con Eriksen che pareva messo in punizione dal primo minuto davanti alla difesa, ma il 2-0 alla Juve è stato proprio il defining moment di questa stagione, la grande vittoria senza cui forse non sarebbero arrivate le altre due grandi vittorie contro Lazio e Milan. Questa non sapevo se era una sensazione mia, dettata dal fortunato fortunato incastro di calendario che mi ha permesso di guardare tutte e tre queste partite dal divano e di scoprire una squadra nuova, ma ho letto che Barella ha detto lo stesso, che hanno capito di essere forti in quel momento.
Barella contro la Juve ha giocato un’altra partita illuminante in cui è stato semplicemente il giocatore più forte in campo, magari non quello che ha giocato meglio ma quello con più coraggio, con più fantasia, con più mezzi tecnici. Sono felice che ci fosse lui a raccogliere il lancio in scivolata di Bastoni perché è così che mi voglio ricordare l’Inter dei prossimi cinque anni, piena di giovani sfrontati che fanno cose ambiziose e si lanciano con la bandana in territori inesplorati, e fa niente se al momento giusto sanno metterla giù con quella delicatezza o se finiscono a mordersi i gomiti – con Lautaro per esempio è sempre una monetina – mi basta che abbiano quella immaginazione.
Nel video celebrativo condiviso dall’Inter, l’assist di Bastoni viene definito a pass for heaven ed è così che l’ho vissuto, come una porta verso un futuro migliore. Però è sempre difficile parlare di futuro con l’Inter. Quante volte negli ultimi anni ci è sembrato di aver visto il futuro e poi non ce lo siamo goduto per niente? Coutinho, Cancelo, basta vedere come stava andando a finire con Eriksen. Anche per Skriniar, fino a fine settembre, sembrava molto concreta la possibilità che andasse a giocare all’estero per una cifra neanche così irrinunciabile. Ancora a dicembre, e quindi circa un mese prima della partita contro la Juve, Fabrizio Romano parlava di talks tra Inter e Tottenham per portarlo da Mourinho.
Questo per dire quante cose sono cambiate con quella partita, in cui Skriniar ha giocato benissimo, per poi giocare ancora benissimo contro Lazio e Milan e poi segnare un gol bello e decisivo contro l’Atalanta. Era strano e un po’ avvilente che uno dei migliori marcatori al mondo, con una tecnica di passaggio eccezionale, non potesse trovare spazio “negli schemi di Conte”, ma è vero che per difendere bene bisogna sentirsi sicuri, della propria posizione e di quella dei compagni, e Skriniar non sembrava più a suo agio nella nostra difesa.
Il momento di maggiore difficoltà, in cui quasi non riusciva a muovere le gambe.
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Nel frattempo la stagione dell’Inter continuava a cambiare. Nel ritorno in Coppa Italia contro la Juventus, un mesto 0-0 di cui ho vissuto gli ultimi 5 minuti in macchina su Radio Uno, Conte è tornato a schierare dal primo minuto Brozovic, Barella ed Eriksen a centrocampo. L’esperimento si è ripetuto cinque giorni dopo contro la Lazio, e a quel punto l’Inter ha trovato il suo undici titolare, quello da mettere sui francobolli (l’unico dubbio sarebbe chi scrivere come quinto di sinistra, ma dopo i gol contro Genoa, Cagliari e Verona, per me il posto se lo è meritato Darmian).
Non è stata la prima volta in assoluto, avevano giocato insieme anche in casa contro la Fiorentina e poi nella trasferta di Cagliari, ma rispetto alla prima partita di campionato in cui Barella e Brozovic giocavano alla stessa altezza con Eriksen più avanti, questa volta il danese agiva in zone più arretrate, da secondo playmaker della squadra, mentre Barella faceva da collante tra centrocampo e attacco. Da questa accortezza in poi, l’Inter andrà avanti a vincerle tutte, e io a guardarne sempre meno.
Non ho visto le vittorie contro Parma, Atalanta, Torino, ma mi sono emozionato come se non conoscessi il risultato finale rivedendo il colpo di testa di Lautaro dentro i 4:14 minuti riservati dalla Lega Serie A. Quella contro il Bologna invece potevo vederla ma pensavo sinceramente di essere diventato sordo e sono rimasto sul divano depresso con questo fischio nei timpani, collegato sul cellulare per gli ultimi minuti. Contro il Sassuolo non avevo capito fosse di pomeriggio e poi comunque non sarei riuscito a vederla. Dopo quella col Genoa, un’imposizione di volontà sinceramente brutale per la superiorità e la naturalezza, in una partita che un po’ temevo perché mancava Hakimi, fino a oggi non ho visto una partita intera dell’Inter. E quindi forse non ho capito quanto è forte.
L’Inter ha vinto tante partite con un gol di scarto, 11 su 25, ma forse neanche troppe, se pensiamo che ne ha vinte 14 con due o più gol di differenza. Tra le macro-categorie di dati aggregati per squadra, l’unica in cui sta primeggiando è quella degli xG concessi, sia su azione che su calcio piazzato, mentre quelle offensive sono quasi tutte dominate dall’Atalanta. È stata questo tipo di squadra, vagamente indecifrabile ma inevitabilmente più forte, non ha battuto nessuna delle top 6 sia all’andata che al ritorno (aspettando la trasferta allo Juventus Stadium), ma le ha battute tutte almeno una volta.
Dopo la vittoria con il Verona che mi ha un po’ confermato definitivamente avremmo vinto lo scudetto, sono tornato a chiedermi se questo tipo di squadra può funzionare in Europa. Se essere in grado di gestire con massima sicurezza anche lo scarto più piccolo non ti renda quasi più vulnerabile in una competizione come la Champions League, con una posta in gioco e una tensione nervosa che annullano questo tipo di certezze e ti espongono sempre alla rimonta degli avversari. Mi riduco a pensare che era meglio il format della Super Lega, ma questa è per forza l’Inter. Forse per la prima volta la situazione dell’Inter mi sembra fragile quanto quello del calcio europeo nel suo complesso. E in questo contesto di precarietà Lukaku, Hakimi e Barella sono sotto contratto per noi, quindi vale la pena provarci.
Io spero che l’Inter prenda un portiere. E sarei felice se Handanovic restasse in un ruolo minore, come ha fatto Toldo quando è arrivato Julio César, ma non so se è così che si percepisce. Ha un contratto in scadenza nel 2022, per cui la prossima sarà la stagione del passaggio di consegne. Spero che torni Dimarco, un mancino naturale per la fascia sinistra, dove quest’anno abbiamo potuto schierare solo giocatori di piede destro. In estate scadrà il contratto di Ashley Young, che tornerà in Inghilterra: sarebbe un modo intelligente di migliorare la posizione meno forte dell’undici titolare senza mettere in discussione Perisic e Darmian che sono cresciuti tanto nella seconda metà del campionato (e magari avranno addirittura mercato).
E spero ovviamente che rimanga Conte, perché senza di lui non avremmo vinto questo scudetto. La prima volta che gli ho portato rispetto è stata quando ha tolto Vidal per mettere Sensi a fine primo tempo della partita in casa con il Crotone. Nel secondo tempo abbiamo segnato 4 gol e divorato i tre punti. Il bello di cambiare idea è che si può dire di aver sempre avuto ragione. Ha portato Eriksen sull’orlo della depressione ma parallelamente gli ha fatto battere tutti i calci di punizione importanti sotto una pressione assurda in quello che sembrava un ulteriore esercizio di sadismo, finché non ha segnato quella punizione importante sotto una pressione assurda che ha cambiato in modo definitivo la stagione.
Nell’ultima settimana ho sentito Conte vivere una strana euforia. Già prima che fossimo ufficialmente campioni, dopo lo 0-2 a Crotone, quando aveva il volto stravolto e scaricava i nervi coi muscoli facciali, quasi parlava col fiatone e sospirava: «Stiamo riuscendo nell’impresa di buttare giù un regno». E si sentiva che stesse vivendo intensamente, provando a spiegare a sé stesso, il percorso che lo aveva portato a interrompere da allenatore interista un decennio dominato dalla Juventus: «Io mi sono sempre messo in gioco, ma penso che questa volta mi sono messo in gioco in maniera veramente importante».
Poi, dopo la partita contro la Sampdoria, è stato interrogato sui suoi meriti ed è tornato a fare considerazioni su sé stesso da seduta di terapia come: «Sono stato bravo a non mollare di una virgola, penso di essermi superato in questi due anni all’Inter». Oppure: «Ho dovuto mettere tutto me stesso. È stata l’impresa più difficile per diversi motivi. Non mi aspettavo alcune difficoltà dell’ambiente Inter».
L’esca sulle difficoltà superate è un argomento molto interessante da approfondire, ed è un peccato che in quella sede non sia stato fatto, per capire le complicazioni di una squadra “da dentro”, di cosa si parla quando si parla di “ambiente”. Ma io lo so perché ci sono nato, perché quell’atteggiamento di sospetto e di sfiducia ce l’ho addosso e persino Conte, che oltre a una ricca reputazione poteva contare su anni di esperienza nel mondo del calcio, quando se l’è trovato di fronte ne è stato destabilizzato. Magari ha pensato tante volte «potevo scegliere la Juve», e adesso può dire con tono accigliato: «Con l’Inter ho fatto la scelta più difficile, perché tanti avrebbero comunque… si sarebbero nascosti dietro la storia». È il bello di cambiare idea.
Non lo so quando Conte cambierà nuovamente idea, o quando si annoierà, o quando punterà i piedi su un argomento futile e rovinerà tutto, sento che succederà presto perché l’Inter ha un’occasione unica – è la prima squadra in Italia, ha un allenatore di alto profilo, una rosa relativamente giovane, e tutto questo in un mercato in contrazione, in cui gli equilibri nei prossimi anni potrebbero cambiare poco – e di conseguenza la sprecherà in modo sciagurato e tragicomico.
Avevo imparato che maggiore è la crisi più pesante è il vantaggio competitivo, poi la Juventus mi ha insegnato quanto è labile questo concetto nel calcio, se in effetti i tuoi mezzi sono (quasi) solo e soltanto degli uomini, ma insomma ho visto davvero una squadra forte, un gruppo unito, la possibilità di crescere ancora. Spero che sia questo scudetto il vantaggio competitivo, e spero che mio nonno domani si ricordi che l’abbiamo vinto.