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Valerio Mattioli
Inni Mondiali
09 giu 2014
09 giu 2014
"We Are One" è la canzone ufficiale di questo torneo. Un tormentone che non piace a nessuno e suggerisce "l'innata joie de vivre del buon selvaggio". Quando la FIFA e il Latin pop generano mostri.
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Valerio Mattioli
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Ogni quattro anni, assieme al Mondiale di calcio, arriva anche la canzone ufficiale del Mondiale stesso; quella del 2014 si intitola We Are One, anche se il nome con cui i più la conoscono è Ole Ola: che non è, come qualcuno potrebbe pensare, un allegro nonsense del genere A-Ulì-Ulé, ma un evidente, accattivante omaggio al Paese che i Mondiali quest’anno li ospita, e cioè il Brasile. O meglio: di brasiliano il titolo non ha nulla, sia Ole che Ola sono termini di origine spagnola e vuole il caso che in Brasile si parli portoghese, ma insomma siamo lì, e poi suvvia, dici Ole e lo capiscono tutti, idem per Ola, poi pazienza se il tipico moto ondoso dei tifosi risalga, così mi dicono, a Messico '86. Stando ai credits, per scrivere il brano – su cui ci soffermeremo a breve e che per inciso dura in tutto tre minuti e quarantacinque secondi – si sono messi in nove. Nell’ordine: un danese, un colombiano, un’australiana, tre statunitensi, un canadese, e pure un marocchino cresciuto in Svezia e residente a New York. E poi c’è anche una brasiliana, giusto. Probabilmente intento della collaborazione era restituire l’afflato internazionale della più grande manifestazione sportiva del mondo, nonché suggerire una specie di legame fraterno tra i popoli del pianeta Terra (We Are One, appunto); in ogni caso, il risultato è una specie di pop-reggaeton con qualche timido accenno di batucada, unico tocco “brasiliano” assieme al ritornello che nel profilo melodico cita alla lontana la straclassica Aquarela Do Brasil. Protagonista assoluto del brano è Pitbull, il rapper figlio di esuli cubani; con lui c’è anche Jennifer Lopez, che invece è di origine portoricana. Di nuovo: è pur sempre America Latina, no? Sono entrambi... com’è che si dice, latinos, hispanics, insomma, quella roba lì. Va bene, resta il particolare che uno è nato a Miami, l’altra nel Bronx, e nessuno dei due parla portoghese, ma niente paura: terza voce del brano (quella che durante il ritornello sussurra “lepo lepo” e che canta la mezza strofa finale) è Claudia Leitte, che almeno è nata nello stato di Rio de Janeiro. E poi c’è il video: con Pitbull che si dimena circondato da discinte ballerine carioca, e bambini seminudi (le favelas) che prima giocano a palla e alla fine innalzano festanti una coppa di legno (o di fango?). Per una nazione dal bagaglio musicale immenso come il Brasile, deve essere stata un’umiliazione immensa. Mi viene da pensare che le folle che a San Paolo, Rio, Brasilia e Salvador, protestano da mesi contro i Mondiali, adesso hanno un motivo in più per manifestare. https://www.youtube.com/watch?v=TGtWWb9emYI

Cartolina dal Brasile. Il video comunque è girato in Florida.

Ole Ola non è piaciuta quasi a nessuno, tantomeno nella terra che ha dato i natali a Ary Barroso, Antônio Carlos Jobim, João Gilberto, Gilberto Gil e Caetano Veloso. E anche fuori dal Brasile, in diversi hanno già fatto notare come il brano sia poco più che un aggiornamento non particolarmente riuscito di Waka Waka, canzone ufficiale di Sudafrica 2010. Al di là delle evidenti assonanze stilistiche (un dance pop “global” che in quattro anni non sembra aver compiuto grandi progressi), entrambi i brani ricorrono a un immaginario esotista dal pericoloso retrogusto neocoloniale: indipendentemente da geografia, lingua, latitudine e fuso orario, i Paesi dell’emisfero sud sono ridotti a caricatura che tutto mescola e tutto fagocita, coi bisillabi dei titoli che evocano idiomi primitivi e arcani, e l’esuberanza colorata delle musiche a suggerire l’innata joie de vivre del buon selvaggio. In effetti, anche Waka Waka suscitò prese di posizione perlopiù risentite da parte dei sudafricani, che mi figuro attoniti all’immagine di una tizia colombiana (Shakira) vestita di pelli di leopardo mentre intona un plagio di una vecchia canzone del... Camerun; né in casi del genere aiuta la presenza di musicisti originari del Paese ospitante i Mondiali – la Leitte in Ole Ola, i sudafricani Freshlyground in Waka Waka – che visti i presupposti suona inevitabilmente come un risarcimento ex ante, una specie di atto dovuto in virtù di una goffa quanto ambigua convenienza: la Leitte e i Freshlyground sono lì sostanzialmente “per cortesia”, il loro contributo certifica la correctness dell’operazione ma al tempo stesso viene confinato a una posizione sempre e comunque periferica, marginale. È anche interessante come i protagonisti principali della vicenda – il cubano Pitbull, la portoricana Lopez, la colombiana Shakira – appartengano tutti, sebbene con sfumature diverse, a quell’ambiguo contenitore metamusicale che va sotto il nome di latin pop. Probabilmente alla FIFA hanno pensato che, essendo una fetta cospicua di appassionati di calcio latini, tanto vale ricorrere a musicisti latini pure loro; ma sul piano diciamo così politico, è una scelta dal preciso carattere ideologico. Riducendo la questione ai minimi termini, direi che alla tipica tracotanza delle popstar angloamericane si preferisce il più ecumenico crossover di icone meticce ma senza esagerare: già nel 2003, nel saggio Global Pop – Local Language, la studiosa María Elena Cepeda ragionava su come il cosiddetto latin pop fosse innanzitutto una creatura tutta interna all’industria del pop nordamericana; per la Cepeda, il successo di personaggi come Jennifer Lopez e soci, più che al peso vieppiù crescente delle comunità ispanica negli USA, era da ricondursi al suo adeguamento ai cliché, gli stereotipi, finanche il linguaggio del pop “bianco”. Messa in altri termini: il latin pop altro non sarebbe che un concentrato di presunta latinità per come immaginata dai non-latinos – ricchi, bianchi e protestanti – dell’emisfero nord, il che ci riporta alla critiche seguite a Ole Ola, che sul settimanale brasiliano Epoca è stato descritto come una versione “FIFAlizzata” di un Paese che esiste solo nella testa di un creativo della Nike. https://www.youtube.com/watch?v=pRpeEdMmmQ0

La (pur sempre gradevole) Waka Waka di Shakira & Freshlyground. Produttore del brano è John Hill, uno che in passato ha lavorato con tizi tra loro diversissimi come Wavves, Santigold, Tune-Yards e M.I.A. L’originale da cui è il brano è copiato, dei camerunensi Golden Sounds, lo trovate invece qui.

Il binomio FIFA-latin pop non sembra casuale e non è nemmeno faccenda episodica. Porta anzi una data di nascita precisa: nel 1998, a essere scelta come canzone ufficiale dei Mondiali di Francia, è La Copa de la Vida di Ricky Martin. Nella storia della manifestazione, si tratta di una novità piccola ma significativa: prima di allora, le canzoni ufficiali del Mondiale erano quasi sempre appendici meno che trascurabili della manifestazione vera e propria, affidate perlopiù a musicisti di seconda fascia del pop locale. Ripercorriamone le tappe: il capostipite del genere – El rock del Mundial dei cileni Los Ramblers – nacque quasi per caso come furbesca operazione di marketing non dei dirigenti FIFA, ma del manager dei Los Ramblers in persona, che sfruttò i Mondiali in Cile del 1962 per lanciare il gruppo. Quattro anni dopo, in occasione di Inghilterra '66, il singolo World Cup Willie di Lonnie Donegan fu il primo a ricevere l’approvazione della Football Association inglese. A scrivere la canzone di Messico '70 venne invece assoldato tale Roberto Do Nascimento: del risultato non si ricordano nemmeno coloro che assistettero al Mondiale in diretta, e per gli stessi messicani il brano è un mezzo mistero. Che all’epoca le canzoni non fossero la preoccupazione principale dei dirigenti FIFA lo dimostra il Mondiale tedesco del 1974, per il quale venne scelto un brano inspiegabilmente in polacco. Per Argentina '78 invece, la scelta ricadde su un nome di prestigio, l’italianissimo Ennio Morricone: la sua Marcia mondiale assume sfumature inquietanti se si considera chi era al potere nell’Argentina di quegli anni. La lista prosegue con Placido Domingo per Spagna '82, e l’attrice inglese (pescata non si sa come) Stephanie Lawrence per Messico '86. https://www.youtube.com/watch?v=hCQdUFhc1P8

La “marcia mondiale” del comunistissimo Ennio Morricone per l’Argentina di Videla. Uno dei punti più bassi dell’uomo che appena qualche anno prima aveva firmato l’inno rivoluzionario Vamos a matar compañeros.

Per la storia di quello che a questo punto chiamerei FIFA-pop, Italia '90 rappresenta un primo, ipotetico punto di svolta: Un’estate italiana della coppia Bennato/Nannini diventa un successo sia in patria che all’estero, imponendosi effettivamente come tormentone dell’estate e colonna sonora riconosciuta del torneo. La stessa fortuna non toccherà alla Gloryland interpretata da Daryl Hall quattro anni dopo per USA '94, ma ecco che nel 1998 gli organizzatori del Mondiale francese si rivolgono a un baldo portoricano che da un paio d’anni detta legge nelle classifiche sudamericane ed europee; si chiama Ricky Martin e nel 1996, col superhit Maria, ha di fatto imposto la grammatica-base del latin pop al cambio di millennio, tanto per la musica (ritmi sostenuti, melodismo esasperato e atmosfere “calienti”) che per l’immagine (il solito “latino ma non troppo”). È una scelta che si rivelerà provvidenziale: il legame tra Martin e la Francia è, milioni di dischi venduti a parte, semplicemente nullo, ma in fondo non è che Morricone fosse argentino più di tanto e la Lawrence vantasse particolari qualità “messicane”. Però è anche la prima volta che la FIFA si rivolge, anziché a cantanti di seconda fascia, idoli locali, o al massimo rispettabili musicisti di estrazione paracolta, a una popstar internazionale vera e propria (a meno che alla categoria non vogliate ascrivere Daryl Hall, la cui carriera ai tempi di USA '94 era già a picco). Vero è che negli Stati Uniti, e cioè il principale mercato pop al mondo, Martin arranca ancora: ma a quello provvederà proprio La Copa de la Vida, che a Mondiale concluso viene presentata ai Grammy Awards del 1999 e diventa il detonatore definitivo di un intero genere. https://www.youtube.com/watch?v=8BkYKwHLXiU

La Copa de la Vida. La già citata María Elena Cepeda individua non a caso proprio in Ricky Martin l’origine delle distorsioni da lei associate al fenomeno latin pop.

Da La copa de la Vida a Ole Ola sono passati sedici anni e quattro Mondiali. E se il binomio FIFA-latin pop viene subito smentito dall’edizione nippo-coreana del 2002 (con Anastacia che interpreta Boom), quella tedesca del 2006 vira l’intuizione del 1998 in chiave se possibile ancora più equivoca: interpreti di The Time of Our Lives sono l’ex reginetta dell’R&B Toni Braxton in coppia con Il Divo, l’agghiacciante gruppo vocale costruito a tavolino da Simon Cowell e vero protagonista del brano. Nonostante il nome italiano, Il Divo è un quartetto composto da uno spagnolo, un francese, uno svizzero e un americano, esponente di quell’operatic pop cugino “adulto” delle frivolezze latin care a Ricky Martin & co. Cantata in un misto di inglese e spagnolo, The Time of Our Lives è una ballata tronfia, solenne e pedissequamente “lirica”, che implicitamente si adegua al cambio di registro imposto dalla location del Mondiale, l’austera e seriosissima Germania. Messi da parte i ritmi ballerini di Ricky Martin (che restando in Europa potevano andare bene per la peccaminosa Francia, dopotutto un Paese latino esso stesso), le citazioni classicheggianti e i timbri tenorili dei cantanti andrebbero quindi letti come omaggio alla tradizione colta del Vecchio Continente, di cui la Germania è da sempre cuore, anima e motore. Se a questo punto vi state chiedendo cosa abbiano a che fare questi quattro emuli di Bocelli e Julio Iglesias con la patria di Wagner e Weber, saprete già che la risposta è “niente”, ma è comunque indicativo come la cartolina caricaturale cui accennavo in apertura parlando di Ole Ola, nel linguaggio FIFA non risparmia nemmeno uno dei Paesi più ricchi e potenti del mondo. Una menzione speciale la merita infine il video del brano, coi quattro de Il Divo che cantano in uno stadio vuoto, di notte, circondati da eleganti violiniste tutte rigorosamente femmine (suppongo un’allusione alle mogli che silenziosamente sopportano le intemperanze dei rispettivi mariti quando di mezzo c’è una partita di pallone), e nel contempo osservano rapiti lo schermo gigante su cui si staglia l’immagine sinuosa di una Toni Braxton a tette di fuori. Tanto per ribadire che ecco, il calcio è una roba da maschi. Sottilissimo. https://www.youtube.com/watch?v=4aOxDHqWyK0

Apoteosi dell’immaginario calcistico, anno 2006: tette su schermo gigante, pallone, e un esercito di signorine avvenenti che mute assecondano quattro bei maschi imbrillantinati. È il Mondiale vinto dall’Italia, quindi tutto torna.

Di Waka Waka e Ole Ola ho già detto fin troppo, anche se del primo andrebbe sottolineato un altro, importantissimo ingrediente: e cioè l’equivalenza arbitraria, infondata, vaga e però (per gli occidentali) plausibile tra Sud America e continente africano, solo che qui si aprirebbe un capitolo intero su concetti come transcultura e generi meticci come il tropical bass, di cui Waka Waka è una versione anestetizzata e depurata da ogni pur vaga ipotesi di conflitto. Se vi interessa, di queste cose in Italia si occupa bene il sito Palmwine. Diciamo comunque che almeno Waka Waka, sospetti ideologici a parte, era un brano gradevole, mentre Ole Ola è quella che da queste parti chiamerebbero ’na zozzeria. Però suvvia, che vi aspettate dal FIFA-pop? Non è che Un’estate italiana sia meglio solo perché l’ha scritta Giorgio Moroder.

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