Pubblichiamo un estratto di "Fighters - Vite da ring" di Tommaso Clerici, edito da Ultra Edizioni.
Ho conosciuto Giovanni De Carolis quattro anni fa in una palestra di Milano, in occasione di una sessione di allenamento di pugilato diretta da lui. Una pratica diffusa negli sport da combattimento e chiamata in gergo “stage”: gli atleti più affermati si rendono disponibili per giornate di seminari in cui insegnano qualche trucco del mestiere agli appassionati di qualsiasi livello, che così hanno l’occasione di incontrarli. Saremo stati una trentina di partecipanti solo per il primo turno, che era di mattina, e Giovanni ci ha supervisionato dal riscaldamento fino alla parte di contatto, osservandoci attentamente, correggendoci o semplicemente dandoci qualche consiglio. In lui ho subito riconosciuto una certa predisposizione all’insegnamento: è chiaro nelle spiegazioni dei movimenti e delle combinazioni, è ricettivo a qualsiasi domanda ed è piuttosto paziente, virtù fondamentale quando si ricopre il ruolo di maestro. Alla fine dell’allenamento è rimasto tra noi a chiacchierare e mi è sembrato una persona discreta, schiva e riservata, molto educata e disponibile, poco a suo agio al centro dell’attenzione ma che quando si parla di boxe si lascia andare, diventando più estroverso e socievole.
In seguito l’ho intervistato in più occasioni, e quindi qualche mese fa l’ho ricontattato chiedendogli se gli andasse di raccontare l’esperienza che ha rappresentato l’apice della sua carriera da pugile, con le conseguenze positive (facilmente immaginabili) e negative (inedite e inaspettate) che ne sono derivate. Lui si è detto interessato, ci siamo accordati per sentirci ed eccoci qua, improvvisamente immersi in quel 9 gennaio del 2016. «È stato il giorno in cui ho combattuto per il titolo mondiale in Germania contro un pugile tedesco che in quel momento vantava una ventina di vittorie, diciannove per knockout, e una sola sconfitta, mentre io avevo un record meno sfavillante. Ogni volta che un fighter italiano ne incontra uno tedesco è come se ci fosse uno scontro culturale tra due mondi agli antipodi. Da loro la boxe è considerata uno sport di prima fascia, hanno strutture all’avanguardia e il pugilato è davvero una professione, nel senso che gli atleti ci campano bene. Noi non abbiamo né quelle possibilità, né la tranquillità che ne deriva, che è fondamentale. In Italia un pugile la mattina si sveglia, va a lavorare e quando stacca si allena. Se però poi deve sfidare un avversario che ogni giorno si alza per andare in palestra, si riposa, ci ritorna, poi ha il fisioterapista, il massaggiatore, e fa qualche attività promozionale per attirare sponsor che gli permettono di godersi una vita da benestante, capisci che i valori in campo cambiano. Non è certo una condizione di benessere a fare il campione, ma sono aspetti che contano. Io, ad esempio, per andarmi ad allenare devo fare 120 chilometri al giorno. Ricordo quello che disse il mio coach durante una trasferta in Germania, guardando gli spogliatoi della palestra in cui c’erano stati i workout aperti al pubblico prima del match: “A Roma solo in questo spazio ci farebbero una palestra intera”. Avevano anche una stanza adibita a lavanderia per le attrezzature. In Italia invece il maestro di boxe deve occuparsi di tutto, dalla gestione amministrativa dell’attività alla pulizia, fino alla vendita dei biglietti degli eventi a cui partecipano i suoi pugili, e spesso ci rimette anche. Il mio maestro dice sempre: “Se lo facessi per i soldi che guadagno sarei uno scemo”, e per noi pugili non è tanto diverso».
«Nella mia vita personale, poco prima dell’occasione mondiale stavo attraversando un periodo complicato. Ero fidanzato da tempo con una ragazza, Veronica, da cui ho avuto due figli, la prima a ventitré anni, ma le cose tra noi non funzionavano più. Questa situazione aveva delle inevitabili ricadute sulla mia attività da pugile, per quanto mi sforzassi di evitarlo. Tanti pensano che la boxe sia uno sfogo, in realtà devi restare sempre lucido, non puoi permetterti di spegnere il cervello, mentre io facevo fatica a essere mentalmente presente. Perciò a livello fisico ero al massimo della forma, ma non riuscivo a trovare la concentrazione giusta. Sono diventato un pugile professionista nel 2007, e Veronica c’era già. All’inizio della nostra relazione vivevamo in una casa senza corrente elettrica né gas. Quando è nata mia figlia, la vicina ci ha aiutati permettendoci di attaccarci al suo impianto elettrico. Pensa che la mia prima cucina l’ho comprata nel 2009 dopo aver combattuto in Danimarca per un titolo europeo, fino a quel momento usavo i fornelli da campeggio. Non mi sono mai espresso pubblicamente più di tanto sul mio passato, perché penso che ognuno di noi abbia avuto le sue difficoltà. Io non vengo neanche da una famiglia disagiata, anzi, ma i miei litigavano spesso e l’adolescenza l’ho passata da solo, per cui ho voluto diventare indipendente presto, cominciando a lavorare, e allo stesso tempo mi sono iscritto all’università. Nonostante i problemi economici, non ho mai pensato a delinquere: non ci sono portato e non mi andava l’idea di scegliere la strada più facile per mettermi in tasca dei soldi nel modo sbagliato. Non mi va neanche di parlarne troppo, perché semplicemente ho deciso di fare quello che mi piaceva, la boxe, ed è questo che conta. Non sono diventato un pugile per rabbia, per sfogarmi o altro, ma perché amo questo sport, che ho scoperto quando da ragazzino mi sono iscritto in palestra per mettere su massa muscolare. A quel tempo giocavo a calcio; alla fine ho abbandonato gli scarpini scegliendo i guantoni, ma ho dovuto aspettare i diciotto anni per fare il primo incontro da dilettante, perché mia madre era preoccupata e non voleva che cominciassi con i match. All’esordio, quando sono tornato all’angolo e mi hanno tolto il paradenti, mi sono caduti due incisivi. Era estate, e per la vergogna non sono uscito di casa per settimane. In ogni caso, sul ring la freddezza e la capacità di ragionare in qualsiasi circostanza prevalgono sempre sull’impeto. Conta la determinazione, non quanto sei incazzato, al di là dei soliti cliché».
«Io e Veronica lavoravamo insieme, quindi ci siamo ritrovati a condividere ogni giornata dalla mattina alla sera. La nostra condizione è migliorata con l’avanzare della mia carriera da pugile: ho cominciato a insegnare nelle palestre e a guadagnare di più, mentre prima facevo il cameriere in un ristorante, dove ero timido e impacciato pure a versare il vino ai clienti. La sera staccavo troppo tardi e le sessioni in palestra ne risentivano, quindi sono passato a lavorare in uno smercio di materiali edili dalle sette del mattino alle quattro del pomeriggio, così avevo tempo per allenarmi, anche se lo stipendio era misero. Nel 2008 sono riuscito ad aprire una mia palestra di boxe che possiedo tuttora. Insomma, proprio quando ci eravamo finalmente sistemati, non dovevamo più fare i salti mortali per arrivare a fine mese ma anzi avevamo due figli, una situazione stabile e ci eravamo anche comprati casa, sono iniziate le discussioni. È stato quando il mio percorso nella boxe ha cominciato a ingranare e ad alzarsi di livello, per cui gli allenamenti e in generale lo stile di vita sono diventati più scrupolosi, da atleta chiamato a incontri duri e difficili. Non è semplice restare al fianco di uno sportivo nel pieno della sua attività agonistica, lo riconosco, specialmente nel pugilato. Sono emersi malumori che si sono fatti sempre più pesanti, e alla lunga il nostro equilibrio si è spezzato. Anche se a ridosso dell’incontro per il Mondiale sembrava che il rapporto con Veronica avesse finalmente trovato una svolta positiva, per cui sono salito sul ring in una condizione smagliante».
«Nella mia carriera ho sempre fatto l’underdog, lo sfavorito. Andavo a combattere all’estero e ogni volta avevo i pronostici contro, infatti all’inizio ho sofferto di un senso di riverenza nei confronti dei miei avversari, i pugili di casa. Alcuni erano campioni che guardavo in televisione, e quando mi ritrovavo con loro sul quadrato accusavo inconsciamente quel ruolo da comprimario che mi avevano cucito addosso, per cui durante il match non riuscivo a spingere al massimo, facevo il mio senza esagerare, senza tentare il guizzo vincente, sfoggiando comunque buone prestazioni. Ma non bastavano per vincere: ho disputato diversi incontri con titoli in palio raccogliendo risultati altalenanti. La mia non è certo la storia del talento o del campione predestinato, spesso venivo giudicato un pugile mediocre. Allora ho capito che avrei dovuto fare di più, metterci l’anima, ed è così che è andata con il tedesco affrontato per il titolo del mondo, una chance arrivata dopo una serie di risultati favorevoli. Mi avevano scelto perché cercavano un atleta abbordabile, pensavano che sarei stato battuto senza grossi problemi. Avevo già incrociato i guantoni con il mio avversario qualche mese prima, perdendo ai punti pur avendo dominato il match, ed è stata una batosta da incassare. Ma in Germania, se non sei tedesco, il verdetto te lo danno a favore solo se hai stravinto. Però ero soddisfatto di avergli dato filo da torcere davanti al suo pubblico e di aver dimostrato che non ero la carne da macello che si aspettavano, una facile preda da dare in pasto al loro beniamino. Quando sono entrato nell’arena per il rematch, che mi hanno concesso perché il verdetto precedente aveva fatto scalpore, stavano proiettando un filmato in cui il tedesco tosava una pecora e diceva: “Questo è quello che farò a De Carolis”. Vederlo mi ha aiutato ad avere l’atteggiamento giusto nel combattimento».
«Quell’incontro me lo ricordo ancora nitidamente. Avevo passato i mesi precedenti a visualizzarlo, a immaginarlo in ogni sua fase, mi ci sono immedesimato all’ennesima potenza. Mi mettevo sul ring da solo a provare i movimenti, le combinazioni, a cercare di prevedere come avrebbe cercato di colpirmi e come avrei reagito. Infatti quando è arrivata la serata del match ero tranquillo, sereno e sicuro di essere pronto, perché mi ero preparato su ogni dettaglio. Per esempio mi ero portato dietro uno ionizzatore, strumento con cui si riesce a bere un’acqua alcalina con un residuo fisso basso, quindi di qualità, in modo da godere di una buona idratazione senza avere il problema di dover trattenere i liquidi. Sono aspetti che possono sembrare marginali, ma che vanno curati per il loro impatto sulla performance e che ho imparato a gestire da autodidatta, perché all’inizio non potevo permettermi di essere affiancato da figure professionali come un nutrizionista. Anche l’alimentazione è un altro elemento fondamentale, per me fa il sessanta percento della preparazione.
Tornando a quella sera, prima di uscire dall’albergo che mi ospitava ho scritto su un foglietto: “Vincerò per KO”, perché era così che finivano le mie sessioni in solitaria, quando immaginavo l’incontro. Analizzando i combattimenti del mio avversario avevo notato una sua lacuna difensiva tipica di quando cominciava ad accusare la stanchezza, che avrei potuto sfruttare sferrando il mio gancio destro. In allenamento l’avevo provato allo sfinimento, era tutta questione di aspettare l’attimo giusto. E all’undicesimo round è successo, il gancio è entrato alla perfezione colpendo il tedesco, che ha cominciato ad avere le gambe molli ed è finito alle corde, io l’ho incalzato tempestandolo di pugni e l’arbitro ha interrotto il match. Mentre il suo entourage protestava, mi sono gettato sul tappeto del ring per esultare, sono stato sommerso dalla gioia del mio team e quando mi sono rialzato ho fatto fare il giro del quadrato a Veronica dopo averla abbracciata. Il pubblico mi fischiava, erano in cinquemila, ma dopo, nello spogliatoio, in tanti mi hanno fatto i complimenti».
«Finita la conferenza stampa post match sono andato dagli organizzatori per prendere la cintura da campione, ma un bodyguard mi ha detto che non me l’avrebbero data quella sera, l’avrei ricevuta per posta una volta rientrato in Italia. È stata una doccia fredda, sono rimasto sorpreso e amareggiato, anche perché al mio ritorno a Roma le persone venivano in palestra a chiedermi della cintura e io non l’avevo. Per me era il riconoscimento concreto, il simbolo dell’impresa che avevo compiuto, volevo stringerla tra le mani. Era come vincere un’Olimpiade senza ricevere la medaglia. Nelle settimane successive ho aspettato inutilmente, allora ho comincia- to a chiamare e mandare email agli organizzatori, che prendevano tempo rassicurandomi. Un giorno ricevo un pacco, lo apro e dentro ci trovo l’altra cintura che era in palio nel match – un titolo minore, insignificante – rotta in mille pezzi, distrutta. Ho pensato: “Ma questi so’ matti”. Alla fine quella vera mi è stata spedita sei mesi dopo l’incontro, una presa per il culo. E non è finita qui: in seguito alla vittoria avrei dovuto difendere il titolo fino a tre volte contro i pugili tedeschi dell’organizzazione che aveva portato in scena l’evento del mondiale, era un vincolo contrattuale. Se non avessi rispettato la clausola avrei dovuto pagare una multa fino a 750mila euro, ti rendi conto? D’altronde avevo firmato, accettando queste condizioni assurde, perché non potevo farmi sfuggire l’occasione, pensando che se avessi vinto il titolo saremmo riusciti a trovare una soluzione. Ho cercato qualche scappatoia legale, mi sono affidato a diversi avvocati ma non c’è stato verso, il contratto andava onorato».
«Ci ho messo del tempo a realizzare di essere diventato il campione del mondo, perché la strada per arrivarci, la gavetta, è stata lunga. Quando sono tornato in Italia ho ricevuto un’accoglienza inaspettata: atterrato a Fiumicino mi sono trovato davanti le telecamere dei principali telegiornali nazionali, un sacco di persone si sono radunate sotto casa di mia madre, altre nel paese in cui abito, dove è stata organizzata una festa in mio onore. Quest’attenzione mi ha stupito, ma fino a un certo punto: in Italia un pugile esiste solo quando vince qualcosa di davvero importante, altrimenti viene ignorato. Comunque sarò sincero: ancora oggi, quando mi presentano negli eventi pubblici a cui partecipo, quella di campione del mondo è una qualifica che mi imbarazza parecchio. È una specie di acclamazione che mi mette in difficoltà, mi piacerebbe che dicessero semplicemente che sono un bravo pugile. Tra l’altro, dopo la conquista del titolo i problemi personali sono tornati a bussare alla porta, anche perché ci sono stati diversi momenti di tensione dovuti alle vicende della cintura e del contratto, per cui mi sono ritrovato a vivere due realtà parallele che si influenzavano a vicenda: come sportivo avevo realizzato un sogno e avrei dovuto godermi la vittoria, arrivata dopo anni di sacrifici e dedizione; dal punto di vista umano invece soffrivo, perché quello che avevo costruito in un decennio con Veronica era crollato miseramente. Perciò andavo in palestra e mi allenavo, ma quando tornavo a casa e mi ritrovavo da solo i pensieri sulla mia situazione tornavano a galla e mi facevano soffrire. Nel rapporto con lei erano iniziate le montagne russe, un continuo saliscendi in cui ci riavvicinavamo per amore e poi improvvisamente scoppiava di nuovo il conflitto. Quando stavamo insieme lontano da tutto eravamo felici, ma appena tornavamo alla quotidianità riaffioravano i dissapori. A luglio sono tornato in Germania a difendere la cintura per le incombenze contrattuali che ti ho spiegato e ho vinto nettamente il match, ma lo hanno giudicato pari. Qualche mese dopo ho combattuto contro lo stesso pugile del pareggio, perdendo per KO tecnico alla dodicesima ripresa, a dieci secondi dalla fine. Un paio di giorni prima di quell’incontro c’era stata una rottura pesante con Veronica, immagina l’impatto psicologico. Questa situazione non si è ancora risolta, siamo sempre lì, va a momenti. È difficile da spiegare, sono dinamiche complesse e delicate, scatenate da episodi accaduti in passato, ma non c’entrano tradimenti o cose simili. Sul ring sono stato sconfitto anche al match successivo, e da lì ho dovuto ricostruire la mia carriera.
Ora ho già trentasette anni ma mi sento ancora bene, sono pronto a nuove sfide, a breve combatterò contro Daniele Scardina per un titolo internazionale. Dell’esperienza da campione del mondo mi rimane un’immensa soddisfazione e la consapevolezza di aver raggiunto un obiettivo importante facendo un percorso tutt’altro che semplice, sia sul piano pratico, avendo una palestra e una famiglia da mandare avanti, sia a livello sportivo e personale. Sono stato sul tetto del mondo ma mi sono sentito davvero leggero, felice, solo per poco. La vita mi ha riportato con i piedi ben saldi a terra. Come se il fatto di venire considerato lo sfavorito sia uno scotto da pagare per sempre, mentre una gloria inaspettata resta una parentesi temporanea, illusoria. Ma sono riuscito a conquistarla ed è un traguardo che resta, nessuno potrà mai portarmelo via».
Prima dell’intervista mi sono imbattuto in un vlog in due puntate online su YouTube, intitolato Vita da pugile: Giovanni De Carolis, girato in occasione della sua prima difesa del titolo del mondo poi finita in pareggio. Nel filmato si vede un episodio in cui, durante la conferenza stampa precedente all’incontro, De Carolis rivendica la sua carriera, costellata di match difficili disputati all’estero, e si dichiara pronto a sovvertire i pronostici. L’organizzatore della serata lo interrompe, spiegando come in realtà i bookmakers lo diano come favorito. Giovanni sorride, sorpreso, e risponde: «Non lo sapevo, avevo visto altre quote. Mi fa piacere, significa che forse qualcuno si è accorto di me».