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Marco Gaetani
L'incubo Roma-Slavia Praga
25 ott 2023
25 ott 2023
Ricordo del quarto di finale di Coppa UEFA del 1996, che divenne un emblema della sofferenza romanista.
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Marco Gaetani
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Giocare al fianco di un grande campione può essere frustrante. Bisogna allinearsi a dei ragionamenti che non sempre sono immediati a chi non è dotato di quel genio: chi non ci riesce rischia di finirne strangolato, incapace di comprendere la giocata che sta per arrivare con quel secondo di anticipo necessario per approfittarne.

Francesco Moriero inizia a correre in campo aperto, nonostante la fatica, l’acido lattico che ormai da svariati minuti cerca di farsi strada. A differenza di altri, sa mettersi perfettamente in sintonia con i pensieri dei più grandi. E così, quando vede il non ancora ventenne Francesco Totti ricevere il pallone in una fetta di campo solo teoricamente non destinata al pericolo, prende e parte, convinto che, a un certo punto, quel pallone finirà sui suoi piedi. Corre come se fosse su un hoverboard, passando a velocità doppia almeno un paio di corpi in apparenza più stanchi del suo.

Arriva, quel pallone. Lo controlla a fatica, vincendo la resistenza di una maglia blu che cerca di gettarsi invano ai suoi piedi. Si ritrova all’imbocco dell’area, giusto a una manciata di centimetri dall’intersezione con la mezzaluna del limite. Sa che non può concedersi altri due tocchi, gliene serve uno, e gli serve giusto. Calcia sporco, quasi di punta, per evitare il ritorno dell’ultimo difensore e per provare a prendere in controtempo il portiere. La rete sotto la curva Nord raccoglie questa preghiera laica mentre l’Olimpico erutta, Moriero si toglie la maglia e la tiene alta come la fiaccola della Statua della Libertà aggirando i cartelloni pubblicitari e iniziando a correre sotto la tribuna Tevere: sembra di rivedere una scena di un anno e mezzo prima, stesso punteggio, 3-0, e avversario diverso. La corsa di Moriero è quella che fu di Daniel Fonseca, che aveva appena messo in cassaforte il derby di fine novembre del 1994. Ma stavolta è diverso, perché alla Roma non serve solo una vittoria, ma proprio il 3-0: quelli che si stanno giocando sono i tempi supplementari del quarto di finale di ritorno di Coppa UEFA. È il 19 marzo 1996, è una di quelle notti in cui tutto sembra andare per il verso giusto. Sembra. Perché è la notte di Roma-Slavia Praga.

Scivolare sul ghiaccio

Quando dall’urna di Ginevra esce la pallina dello Slavia, qualcuno a Trigoria pensa a un regalo della Madonna: è l’8 dicembre 1995 e la Roma pesca quella che, agli occhi di tutti, è la pallina più dolce, schivando Barcellona, PSV Eindhoven, Bordeaux, Bayern Monaco, Nottingham Forest e Milan. Carlo Mazzone, teoricamente in silenzio stampa, è talmente entusiasta da rompere il silenzio: «Era importante evitare il Milan, possiamo dire che ci è andata bene».

Primo nel campionato ceco ma a secco di titoli nazionali dal 1947, sembra il vaso di coccio in mezzo a squadre decisamente più attrezzate: in Europa, fino alla cavalcata della stagione 1995/96, non si era mai spinto più in là del secondo turno in Coppa delle Fiere. Soprattutto, rimarrà fermo per la sosta invernale fino a febbraio, uno stop che dovrebbe teoricamente favorire la Roma. A segnare il gol che ha eliminato il Lens nel turno precedente è una mezzapunta di 23 anni, capelli lunghi e mossi, biondo cenere: è velocissimo, gioca in maniera elettrica, puntando la porta ogni volta che può. Si chiama Karel Poborsky. Sono i giorni in cui l’Italia si prepara alle elezioni politiche anticipate della primavera del 1996 e, per qualche ora, tiene banco il caso del vicepresidente della Camera immortalato in occasione di un matrimonio in una posa che scatena un vespaio.

Come passa il tempo quando ci si diverte eh?

Ma la Roma, come sta? Non malissimo. È in piena zona UEFA, chiude il 1995 battendo prima il Napoli e poi la Juventus, in Serie A dal 15 dicembre può anche sfruttare la sentenza Bosman facendo giocare Balbo da italiano, quarto straniero mascherato in aggiunta ad Aldair, Thern e Fonseca. In Europa, invece, tutto questo non è ammesso. La prima uscita con le nuove regole è proprio quella in casa dei bianconeri: apre Balbo e l’autogol di Ferrara nella ripresa regala un successo che nella Torino juventina mancava da 14 anni. A gennaio, la Roma prova a forzare il fronte della UEFA, valutando seriamente l’ipotesi di schierare Balbo da italiano anche nelle gare europee, anche se la confederazione europea sostiene che si tratterebbe di una violazione. Franco Sensi, presidente giallorosso, è in prima fila, ma non sembra cogliere aperture dalle altre squadre italiane.

Nulla è mendace quanto le reazioni ai sorteggi di fine anno: quando le coppe ricominciano, infatti, lo scenario è spesso diametralmente opposto. E la Roma, nei primi mesi del 1996, si inceppa troppo di frequente. A Milano, colpita due volte dall’ex Branca, ceduto a inizio anno in cambio di un conguaglio economico e metà del cartellino del giovane Marco Delvecchio; a Bergamo, ribaltata dai gol di Chicco Pisani e Morfeo; ancora a Milano, stavolta sponda Milan, e nel derby di ritorno, deciso dal solito rigore di Beppe Signori, arrivato su un fallo di mano di Marco Lanna dai contorni a dir poco inspiegabili. Ma è un altro rigore ad affollare i pensieri e la vigilia di Slavia Praga-Roma: è quello sbagliato da capitan Giannini al 90esimo minuto di Parma-Roma, finita 1-1 a causa dell’errore della bandiera romanista.

Si sa già che in Repubblica Ceca si giocherà in mezzo al ghiaccio e Mazzone, alla vigilia, scherza: «L’ultima volta che abbiamo giocato sul ghiaccio non sbagliammo i tacchetti, ma i guanti: ve lo ricordate quel guardalinee rifinitore per Ravanelli? Spero che stavolta i guardalinee girino alla larga». Il riferimento è a uno degli episodi più controversi della rivalità eterna tra Roma e Juventus, il famigerato tocco del guardalinee Manfredini ai danni di Aldair durante una rimessa laterale, dalla quale scaturì il gol del vantaggio di Ravanelli.

Frantisek Cipro prepara il match confrontandosi con Zdenek Zeman, suo grande amico e allenatore della Lazio. Durante i giorni di vigilia, trascorsi in parte addirittura in Portogallo, prova a confondere le acque facendo allenare i suoi con addosso un passamontagna. Si respira un nervosismo strano, che non coincide con una partita il cui pronostico dovrebbe comunque sorridere ai giallorossi, nonostante le difficoltà in campionato. Mazzone punzecchia Cipro - «So che ha parlato con Zeman, questo può essere un fatto positivo. Al mio collega ceco garantisco che passerà una notte tranquilla: siamo una società seria e giocheremo con soli tre stranieri» - mentre Giovanni Cervone, portiere della Roma, si lancia in una sparata che la dice lunga sul clima nello spogliatoio giallorosso: «Se dobbiamo avere paura di questi avversari, è meglio stare a casa». Diverso è l’umore di Giannini, che già da diversi mesi sente che la sua storia d’amore con la Roma sta per finire. Prova a non pensare alle critiche post Parma, ma non è semplice: «Meglio che sia toccato a me, nel fuoco ci vivo. Ho voluto tirare per un atto di istinto più che di coraggio: Di Biagio mi ha chiesto se me la sentivo, ho troncato i dubbi con un “certo”. Se non ci sono Balbo e Fonseca, i rigori li tiro io». A una manciata di ore dalla partita d’andata, la UEFA annuncia di recepire la sentenza Bosman, aprendo all’utilizzo dei giocatori comunitari in aggiunta ai tre giocatori stranieri. Ma la Roma perde Aldair poco prima del match e il problema non si pone lo stesso.

Si gioca su un campo reso illeggibile dal ghiaccio, sembra uno dei fondi secondari che potevano essere scelti su Sensible Soccer. Dopo nemmeno dieci minuti, su una punizione di Poborsky senza troppe pretese, Cervone combina un disastro, sbagliando il conto dei passi all’indietro e lasciando che il pallone finisca all’incrocio dei pali. Mazzone, in piedi davanti alla panchina con lo zuccotto d’ordinanza in testa, ha la faccia di chi ha appena visto il figlio imbrattare il muro del salotto di vernice non lavabile. La Roma reagisce, centra una traversa con Balbo, prova l’assalto a inizio ripresa e si fa infilare da una fuga di Lerch sulla destra. Il cross sarebbe trascurabile, ma Cervone, in uscita bassa, replica il pastrocchio del primo tempo e lascia a Vagner il comodissimo tap-in del raddoppio.

Mazzone, spalle al muro, butta dentro Totti al posto di Cappioli. Rischia di diventare una notte da incubo quando Petruzzi si fa espellere e lo Slavia va a un passo dall’esondazione, sbagliando il tris con un altro dei suoi ragazzi terribili, Vladimir Smicer, per poi colpire una traversa con Penicka. Al triplice fischio dello scozzese Mottram, l’unico romanista felice è Gigi Proietti: l’auditel dirà che il suo Maresciallo Rocca ha messo insieme 12 milioni di spettatori, vincendo la sfida con le dirette di Milan e Roma, che sommate non arrivano a quota 10. A fine partita, imperturbabile agli errori, Cervone raccoglie i pensieri e lascia lì il suo vaticinio: «Al ritorno ribalteremo la situazione: loro non sono fenomeni e il grande pubblico giallorosso saprà aiutarci per trovare i tre gol necessari per accedere in semifinale».

Gli highlights della partita d’andata.

Come spesso accade, l’effetto sull’umore romanista è quello di una slavina. Il 10 marzo, all’Olimpico, i giallorossi non vanno oltre l’1-1 contro il Cagliari. Sensi tuona negli spogliatoi: «Sono scandalosi, giocano come i ragazzini e la prossima volta manderemo in campo la Primavera: questi non meritano la maglia della Roma, non meritano questi tifosi». In sala stampa si presenta Menichini, il vice di Mazzone, perché Carletto è squalificato: «Non siamo stati all’altezza, abbiamo poche gambe, non siamo riusciti a esprimerci». A venire incontro alle gambe stanche dei giocatori romanisti arriva però qualcosa di inatteso: alla grande stagione degli scioperi che agitano il Paese si aggiunge anche quello del mondo del calcio, con i calciatori che chiedono la cancellazione dei parametri interni per i giocatori a fine contratto per effetto della sentenza Bosman (quello che poi diventerà il “parametro zero”), il pagamento di 12 miliardi di lire arretrati nel fondo di garanzia, il diritto di voto in Consiglio federale, il no alla liberalizzazione totale degli extracomunitari e più attenzione verso gli episodi di violenza nei confronti dei calciatori.

A guidarli il presidente dell’Assocalciatori, Sergio Campana, e Gianluca Vialli, consigliere, che si fa volto della protesta: «Agli immancabili moralisti che ci accuseranno di faciloneria, rispondo che l’80% dei calciatori italiani guadagna a malapena cento milioni lordi di lire all’anno». Padova-Roma, prevista per sabato 16 marzo, salta come tutta la giornata di campionato.

La grande illusione

Mazzone prepara la partita di ritorno blindando Trigoria, lasciando la squadra lontana da occhi indiscreti di giornalisti e tifosi. A chi gli è vicino confessa: «Mi sto giocando le mie ultime carte». E tra le ultime carte di Mazzone, la principale, quella alla quale tiene di più, porta il numero 10 sulle spalle. Giuseppe Giannini vive un momento molto turbolento con Franco Sensi e sa di essere una bandiera pronta per essere ammainata. Crepe profonde generate da una frase detta dal presidente dopo il rigore sbagliato contro la Lazio nel derby del marzo 1994: «Chi non è capace di segnare un rigore in un derby non è degno di indossare la maglia della Roma». La condanna, definitiva, era arrivata nel corso del 1995: «Il futuro di Giannini nella Roma? Da dirigente».

Mazzone è pronto a morire affidandosi al suo "Principe" e a un altro pupillo, Francesco Moriero, costato 10 miliardi di lire e, fino a quel momento, reduce da una stagione segnata più dagli infortuni che dagli acuti. «Per me è la partita della vita, la aspetto con la stessa ansia con cui attendo la nascita del mio primo figlio», dice l’ex ala del Cagliari. Le scelte di Mazzone, su tutte quelle del rilancio di Giannini, suonano come un affronto al momento vissuto da squadra e capitano, e il tecnico replica con la tradizionale schiettezza nella conferenza stampa prepartita: «Chi mi considera un incosciente non ha capito che tipo di uomo io sia. E poi non sto certo mandando in campo un meccanico. L’ambiente non deve condizionare l’allenatore e l’allenatore, se è degno di Roma, non deve farsi condizionare. Sarà dura, rimontare due gol è difficile, ma quella dell’andata non era una partita». Nelle radio locali vengono riproposte le radiocronache di Roma-Dundee, semifinale di Coppa dei Campioni del 1984, anche all’epoca si partiva dal 2-0 per gli avversari e finì con il 3-0 che aprì le porte della finale.

Il prato dell’Olimpico che ti si apre davanti dopo scale che sembrano infinite, nelle partite serali, ha un fascino tutto diverso rispetto alle partite giocate sotto un sole pieno. Ti godi i riflessi, le luci dei riflettori che rimbalzano sulle minuscole pozze d’acqua che si creano sulla pista d’atletica, i pali brillano come se ci fossero dei faretti che sparano un fascio di luce dal terreno. Sono le notti in cui assapori una tensione particolare, in cui si trova a fatica il proprio posto per le persone ammassate sulle scale che sembrano non avere la minima intenzione di fare un passo, come se arrivare e sedersi per qualche istante potesse infrangere questo momento di sospensione.

Poi arriva l’annuncio delle formazioni, che fornisce quel pizzico di sacralità che serve. Sotto il tabellone della curva Sud appare uno striscione lapidario: ALL’ATTACCO! I cartoncini gialli e rossi iniziano a prendere vita in tutto lo stadio, il messaggio che va dalla Nord alla Sud passando per la Tevere è un monito alla squadra: “Non molleremo mai”. Il 19 marzo del 1996 è anche il compleanno di Carlo Mazzone. Giannini entra in campo davanti a tutti i suoi compagni, lancia un’occhiata alla Sud, poi lo sguardo torna basso, concentrato. Ha in mano il gagliardetto, ai piedi della curva riappare uno striscione che, ciclicamente, ha punteggiato sfide di cruciale importanza nella storia romanista: “Una fede, una volontà, un traguardo… Vincere malgrado tutto”.

Mazzone, che è stato un allenatore decisamente più coraggioso e raffinato di quanto si sia detto nel corso della sua lunga carriera, non può contare su Jonas Thern e decide di mettere in campo la Roma più offensiva che può. Tira su e giù la zip del giaccone Asics di quell’anno, dello stesso punto di verde che la squadra ha indossato nella trasferta da tregenda di Praga. Moriero e Carboni sulle corsie, tre difensori centrali, il tandem Di Biagio-Giannini a centrocampo, a ridosso di Balbo e Fonseca c’è Francesco Totti, che sulle spalle porta una inusuale maglia numero 8: in campionato ci sono già i numeri personalizzati ma in Europa non vengono utilizzati, e deve abbandonare così il 20. Mazzone si gioca la sua vita giallorossa in una notte, su di lui aleggiano due spettri: quelli di Oscar Washington Tabarez e Francesco Guidolin. Come da tradizione non arriverà nessuno dei due.

La Roma deve necessariamente provare ad alzare i ritmi per darsi una speranza e questo porta inevitabilmente ad aumentare i rischi: un diagonale di Penicka blocca il battito cardiaco dell’intero Olimpico ma Cervone riesce ad andare a terra in una frazione di secondo e a evitare che la partita muoia dopo soli sette minuti. Una rete ospite, con la regola dei gol doppi in trasferta in caso di punteggio in parità, chiederebbe alla Roma uno sforzo improbo.

Le prime imprecazioni, tonanti, si alzano nel momento in cui Balbo gira al volo un pallone che danza sul dischetto dopo un cross di Moriero: palla alta. Nulla di paragonabile a ciò che combina Carboni, che entra in area con un controllo malandrino. Mentre i difensori dello Slavia invocano un mani che non esiste, il terzino si presenta a tu per tu con Stejskal e cerca la cosa più difficile, una conclusione di esterno sinistro che termina larga e inizia a far pensare che questo Slavia sia una montagna troppo alta da scalare, protetto dalla mano di una divinità sconosciuta.

Il primo tempo si consuma con un assalto disordinato, mai troppo efficace, mai davvero credibile. Gli ospiti si concedono di tanto in tanto qualche blitz ma la partita è come anestetizzata, alla ricerca di qualcosa che possa rompere questo stallo. Vedere la partita da una curva all’altra, all’Olimpico, è quasi sempre un esercizio di difficoltà atroce. La presenza della pista d’atletica rende un’impresa scorgere i dettagli delle azioni che si svolgono dalla parte opposta dello stadio. È necessario che la vista sia libera, che non ci siano ostacoli. È necessario vedere Gigi Di Biagio che nel recupero del primo tempo carica un mancino deviato maldestramente da Suchoparek: anche in Sud riescono a intuire che il pallone sta cambiando direzione e spiazzerà il portiere. E anche in Sud, forse, si riesce a sentire il rumore del palo, tonfo demoniaco che manda Roma e Slavia Praga all’intervallo sullo 0-0 e che induce Mazzone a un cambio controintuitivo: fuori Fonseca, la cui prestazione le cronache del giorno dopo definiranno «indecente», e dentro un altro fedelissimo del "sor Magara", Cappioli, con Totti che avanza al fianco di Balbo.

Ma i minuti passano e la Roma sembra sempre più pasticciona, caciarona, uno di quei ristoranti in cui i camerieri ci mettono il cuore tra una portata e l’altra ma non riescono a tenere il conto delle comande e ai tavoli si sbuffa all’ennesimo piatto sbagliato. Poborsky si prende gioco di mezza difesa giallorossa e pennella un cross mancino che Smicer non riesce a impattare in tuffo di testa. E proprio Smicer, qualche minuto dopo, si libera in area di rigore e mastica sui piedi di Cervone il diagonale che avrebbe chiuso il discorso. È il momento peggiore della Roma, Mazzone fa alzare dalla panchina Statuto, vuole farlo entrare al posto di Annoni per sbilanciare ulteriormente la squadra. Nei secondi in cui a bordo campo gli vengono controllati i tacchetti, un pallone viene liberato malamente dalla difesa dello Slavia e Moriero, quello che aspettava questa partita come la nascita di un figlio, spara senza pensarci due volte dai 20 metri. È uno squarcio su una tela fino a quel momento intrisa di malinconia. La rete sotto la curva Sud si fa scuotere dal destro di Moriero e all’improvviso tutto appare possibile.

Mazzone congela il cambio, c’è ancora mezz’ora di vita per andarsi a prendere il supplementare. Statuto entra cinque minuti dopo ma al posto di Di Biagio, di colpo lo Slavia deve fare i conti con un avversario che non pensava di dover affrontare, la paura. Moriero ci riprova praticamente dalla stessa mattonella e la fotocopia esce solo leggermente sbavata, quanto basta per lasciare il punteggio sull’1-0. Adesso Moriero è ovunque, attira il pallone come una calamita anche liberando lo spazio in corsia ad Annoni: ha un’altra occasione dal limite, stavolta di sinistro, ma Stejskal blocca a terra.

L’assalto sgraziato sembra finalmente efficace, la Roma bombarda la porta avversaria, è questione di minuti, di centimetri, di palloni al di là o al di qua di un palo. Ma i minuti passano e fanno aumentare l’angoscia, l’impressione che tutto questo sforzo possa portare solo a un’altra delusione. Ma la Roma si può nutrire del ricordo del turno precedente, una qualificazione presa con le unghie quando i supplementari con il Broendby sembravano una certezza: tacco di Totti, giocata che avremmo rivisto per centinaia di volte negli anni a venire, per l’inserimento di Carboni, letale con il piede debole, il destro, a differenza del velleitario esterno sinistro sfoggiato in avvio con lo Slavia. Si arriva così, a forza di tiri che escono di poco e di occasioni potenziali non sfruttate, a un momento che, se preso da solo, senza contesto, senza un prima e un dopo, pare semplicemente essere la perfezione.

Il cronometro della partita dice che è l’82esimo, c’è una punizione da destra, se ne fa carico Carboni, che pretende di battere arrivando dall’altra parte del campo. È un calcio potente, diretto verso il primo palo. Giannini lo intercetta con una leggera piroetta, si deve spostare per arrivarci di testa e indirizzarlo dall’altra parte. Giannini è stato il capitano di una Roma tormentata, è stato amato e criticato, con quella durezza in eccesso che si riserva a chi porta in dote aspettative fuori scala. Fabrizio Gabrielli ha scritto che "voleva ingraziarsi il pubblico, ma era incline alla tragedia". Ma adesso che corre sotto la curva, saltando il tabellone pubblicitario con grazia davvero principesca, adesso che sente di aver regalato alla sua gente un momento del quale parleranno per decenni, non c’è spazio per pensare alla tragedia. Sembra soltanto la chiusura di un cerchio, un attimo di eternità.

C’è Giannini che corre mentre alle spalle un popolo lo insegue. Ci sono compagni e raccattapalle, fotografi e sogni. E c’è una foto che lo ritrae con la sua numero dieci in una mano, la faccia sformata dalla gioia, la maglia della salute con il lupetto di Gratton in rosso. La gente aggrappata ai vetri urla, urlano tutti, urla anche Francesco Totti, che nel mito di Giannini è cresciuto e che di quell’eredità si farà alfiere, epitome, persino accrescitore. È una gioia disordinata e bellissima, che monta sugli spalti e sui divani di chi, da casa, sente Claudio Icardi pronunciare una frase che ancora oggi riemerge prepotente ogni volta che c’è da parlare di quella notte: «E poi c’è chi non crede alle favole, è un principe che ha preso sottobraccio la sua Roma, non ha sbagliato praticamente un pallone». C’è soltanto un dettaglio che stona, perché quello di Giannini non è il gol che vale le semifinali di Coppa UEFA, ma quello che consente alla Roma di darsi altri 30 minuti di speranza. Totti, infatti, spreca in chiusura la palla del definitivo 3-0, chiudendo troppo il destro e gettandosi con le mani sul volto a terra, con una malinconia che siamo più abituati a riconoscere in Giannini che in lui.

Proprio Totti ispira il 3-0 di Moriero e allora torniamo all’inizio, alla corsa sotto una Tevere imbandierata, a una notte scritta da uno sceneggiatore. Ma è uno sceneggiatore sadico, perverso, velenoso. Ha lasciato in coda il cattivo, lo aveva nascosto nei cambi di metà secondo tempo, confuso in mezzo agli altri, facendo sì che nessuno lo notasse.

Jiri Vavra è stato un giocatore dimenticabile, un mestierante del calcio ceco degli anni Novanta, una sola presenza in Nazionale, un passaggio da uomo qualunque. E come un uomo qualunque, al minuto 115 raccoglie un pallone senza pretese, uscito da un corpo a corpo che vede Aldair sconfitto. Lo stoppa, se lo porta sul destro, lo calcia. Gli esce una conclusione rasoterra, che percorre in maniera quasi inverosimile la stessa traiettoria del pallone del 3-0 di Moriero. Cervone resta piantato sui piedi, non ha la forza di reagire, di abbozzare la minima reazione. Non gli resta che guardare e sperare, invano, che esca. Non esce.

Il carneade Vavra, anche lui, parte di slancio verso la Tevere, esultando in maniera plateale e ottenendo in cambio insulti e qualche bottiglietta che, come da prassi, non raggiunge il campo, fermandosi sul tartan, mentre le centinaia di tifosi dello Slavia appollaiati in distinti Ovest si godono il loro momento di eternità, stavolta sì, compiuto fino in fondo. Sensi borbotta che «è una stagione maledetta», arriva a dire che sarebbe stato meglio finirla nei 90 minuti, con uno 0-0 senza emozioni, invece di vivere questo sogno spezzato, questo strazio epocale. Moriero lascia il campo con la testa bassa, che di tanto in tanto gira verso la curva: «Mi spiace per loro», dice commosso.

La versione integrale della partita, per i più coraggiosi.

Alla fine della stagione, Mazzone, pur centrando la qualificazione in coppa UEFA, lascerà il posto a Carlos Bianchi, in un avvicendamento non particolarmente ispirato. Se ne andrà anche Giannini, la cui carriera da giocatore bello e dannato sarà racchiusa in un particolare emblematico: ammonito alla penultima giornata in casa della Fiorentina, si ritroverà costretto a saltare l’ultima di campionato in casa, contro l’Inter, salutato dai tifosi con lo striscione “Solo chi la ama e chi soffre per la maglia ha il diritto di onorarla…Per sempre grazie capitano”.

Tornando su quella notte, sul momento del gol di Vavra, Giannini ha detto: «Meglio essere investiti da una macchina che prendere un gol così», analizzando tutti i dettagli, il cuoio che sfila via tra le gambe di Lanna, forse anche una impercettibile deviazione. C’è chi quella partita ha provato a rimuoverla, chi ha scelto di non vedere più nemmeno gli highlights, chi l’ha definita un manifesto del romanismo, o di un certo tipo di romanismo. E c’è anche chi, ognitanto, ci ripensa e la riguarda, per ricordarsi le emozioni di quel sogno bellissimo e violentato da una sveglia sgraziata, suonata prima del previsto. Per capire, una volta per tutte, dove ha fissato l’asticella della propria soglia del dolore.

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