Non sono uno di quegli italiani per cui il calcio è soltanto una versione più urlata della Grande Religione Monoteista, per cui il corpo di Cristo è un pallone di cuoio e le preghiere sono sermoni che recitano i nomi di Balotelli ed El Shaarawy che non possono giocare insieme oppure il dogma per cui Maggio non può giocare nel 4-4-2. Non sono un orgoglioso difensore nazionalista del Sacro Sport Nazionale pur amandolo di un amore viscerale, un amore che mi porta di tanto in tanto ad avere attacchi di romanticismo per misconosciuti giocatori brasiliani quarantenni e odio cieco per allegri guappi che (e questo è il mio pensiero obnubilato dalla passione viscerale per il nostro Sacro Sport Nazionale) si allontanano ingrati dalla caritatevole mano che ha curato le loro sventure per abbracciare l'acerrimo nemico, la nemesi stessa di quella mano caritatevole.
Ho imparato ad amare, ancora prima del calcio, come un'arte zen fatta di cervello e spettacolo ma mai di rabbia, la pallacanestro: ricordo ancora la media punti di dimenticati mezzi-panchinari come Clarence Weatherspoon, so recitare a memoria il quintetto di Utah delle Finals 1998 (StocktonHornacekMaloneOstertagRussel) e possiedo le tre diverse versioni della numero 1 di "Penny" Hardaway degli Orlando Magic, Finals 1995 (e che quintetto: Horace Grant, Nick Anderson, Shaquille O'Neal, Dennis “3-D” Scott). Capisco e tollero, pur con difficoltà, l'esistenza di una rugby-mania in questo paese mediterraneo. Sono uno sportivo aperto. E in quanto sportivo aperto, democratico, e soprattutto meritocratico, soffro quando sento la frase, pronunciata con tono molle, di chi vuole tagliare corto, di chi crede che un pallone sia il minimo comune denominatore di ogni cosa che si possa chiamare sport ed emozione, di chi nasconde un risolino di disprezzo, di chi non sa e non vuole sapere – soffro quando sento la frase che è un indice puntato contro lo sport che forse più di ogni altro è avvincente e adrenalinico: «La Formula Uno ormai è noiosa».
[Nota: Esistono alcune varianti: «La Formula Uno ormai fa schifo»; «In Formula Uno ormai non succede più nulla»; «In Formula Uno non si sorpassano più»; «Quello che parte primo arriva primo»; «Non ci sono più i piloti di una volta». Importante aggiungere una spolverata, senza troppo badare alla sintassi o alla corretta posizione logica, della parola “Senna”.]
Tutto questo è, semplicemente, falso. Con questo pezzo proverò a spiegare perché se c'è una cosa imperdibile nel mondo dello sport, insieme a una finale di Wimbledon e a una di Champions League, quella cosa è un Gran Premio come Spa-Francorchamps (per dirne uno). E forse imparerete a non preoccuparvi (della noia, di Senna, dell'ordine di partenza sulla griglia) e ad amare la Formula Uno.
Quello dei motori è il mondo più intriso di nostalgismo tra tutti i mondi sportivi. “La Formula Uno di adesso”, nel mantra, è sempre contrapposta a “quella di una volta”, un Eden bucolico fatto di macchine che si impennano, testacoda infiniti, sorpassi contro sorpassi su contro altri sorpassi, auto che finiscono la benzina a pochi metri dal traguardo e vengono spinte a mano dal pilota oltre la bandiera. Temporalmente, l'Eden non è collocabile in un preciso segmento storico, e allora “una volta” può essere di volta in volta incarnata da Nigel Mansell, da Gilles Villeneuve, e però anche da Jacques Villeneuve, da Senna e Prost, da Jackie Stewart, ma anche da Mika Häkkinen. Mika Häkkinen: avevo pensato di citarlo come grande esempio di Pura Guida nel versante “Formula Uno di adesso”, sono andato su YouTube per riassaporare quel capolavoro di Spa-Francorchamps, ultimo giro, anno 2000, il sorpasso su Schumacher che stava sorpassando la B.A.R. del doppiato Ricardo Zonta, con la Ferrari che passa a sinistra, esterno pista, e la McLaren che sceglie di passare a destra, interno pista, e in mezzo il lentissimo Zonta immobile, che non fa nemmeno una deviazione dal suo percorso rettilineo (pena la catastrofe) e me lo immagino con gli occhi chiusi dalla paura, mentre ci si gioca il Mondiale attorno a lui, in pochi centimetri di sorpasso. Avevo pensato di inserire quel sorpasso nell'ambito della “Formula Uno di adesso", e nei commenti trovo i segni inequivocabili della peste nostalgica: «Questa era la vera Formula Uno!» [sic] Eppure era il 2000, non il 1988, o prima ancora. La nostalgia quindi si muove, avanza, e quello che fino a cinque, sei anni fa era “la Formula Uno di adesso” diventa improvvisamente “la Formula Uno di una volta”: la nostalgia è uno zombie, ti morde, ti trasforma, e prosegue la sua corsa a mordere gli anni e i campionati e i piloti.
Prima di tutto, l'adrenalina. È molto logico e freddo e inequivocabile: uomini semi sdraiati dentro una macchina che assomiglia in tutto e per tutto a una versione bulimica della Batmobile che corrono a trecento chilometri all'ora. È o non è più adrenalinico di uno scambio sulla tre quarti difensiva fatto di «Buffon, corto per Bonucci; Bonucci allarga per Barzagli; Barzagli a Pirlo; Pirlo è attaccato, indietreggia; di nuovo a Buffon; Chiellini; ancora Buffon; rinvio; prova ad arrivarci Vidal; fallo su Vidal»? Non significa che il calcio sia noia: il calcio ha momenti di adrenalina unici, ma è per la maggior parte del tempo noioso. È studio, è attesa. Il calcio è la Prima Guerra Mondiale degli sport. La Formula Uno, a considerare l'intero circuito e tutte le macchine in gara, è molto meno affetta dalla noia. Prima di tutto, ci sono quei trecento chilometri all'ora. Nessuno di voi è mai andato a trecento chilometri allora. Immaginatevi l'adrenalina che avete provato quando avete schiacciato il pedale della vostra macchina fino al quasi-limite (dettato dalla coscienza, non dal motore o dalla legge), diciamo centoottanta, centonovanta. Immaginatevi a trecento, con le gambe lunghe a pochi centimetri da terra e nessun cruscotto né airbag a proteggervi. La Formula Uno è velocità e la velocità è adrenalina, e lo era nel 1970 come nel 1993, e lo è ancora adesso. C'è la partenza, le macchine in griglia e i semafori rossi che si accendono e si spengono: non è ancora iniziata la gara, lo spettacolo, e una delle parti più esaltanti di tutto l'evento è pronta per la fruizione, senza attese né fasi di studio né misure da prendersi l'un l'altro. Si parte, si arriva a cento all'ora in pochi secondi, si frena e ci si butta in curva, uno a fianco all'altro, uno sopra l'altro, ruote bloccate e alettoni e gomme che si toccano.
È vero, la F1 è stata noiosa, lo è stata per anni, e gli anni hanno coinciso (più o meno) con il quinquennio di Schumacher campione del mondo su Ferrari, con propaggini prima e strascichi dopo. I numeri dei sorpassi, in questo, sono chiari. Dal 1981 (Mondiale vinto da Nelson Piquet su Brabham) quando la media sorpassi era di 40,87 per Gran Premio, è stata una lunga discesa (30,88 nel 1990, 18,06 nel 1995) fino ad arrivare al 16,33 del 2000, per toccare il fondo nel 2005, con 13,06 sorpassi per gara, il dato più basso negli ultimi 30 anni. Le cose sono cambiate negli ultimi due anni, e sono cambiate in un modo radicale (più che radicale: rivoluzionario): si torna a una media di 28,79 nel 2010, si sale a 60,63 nel 2011, e poco sotto, 57,15, la scorsa stagione. Anche quest'anno siamo su questi livelli, e mancano ancora alcuni dei Gran Premi più “spettacolari”. I sorpassi totali nel 2011 sono stati 1.152, di cui 126 soltanto a Istanbul, nel GP di Turchia. Il record assoluto lo detiene Interlagos, Brasile, con 144 (nel 2012). Il merito è del DRS, il sistema (Drag Reduction System) introdotto nel 2011 che permette di ridurre per pochi secondi la resistenza aerodinamica (e di conseguenza l'aderenza all'asfalto) per aumentare notevolmente la velocità. Come quei bonus che si incontrano lungo il percorso dei videogiochi arcade, un boost dalla vita breve. E infatti il DRS può essere utilizzato soltanto in alcune DRS zone e soltanto per un sorpasso, vale a dire se la distanza tra l'auto dell'inseguitore e quella dell'inseguito è inferiore al secondo. Poi: il pit stop. Con il divieto di rifornimento (le auto partono con il pieno di carburante per poter completare la gara) il tempo per le soste è diventato di circa due secondi (solo il cambio pneumatici, Pirelli, uguali per tutti i team) e la gara si fa in pista e non ai box. Significa che le strategie sono sì importanti, ma un pilota non rischia di perdere troppe posizioni in seguito a un cambio gomme (ricordate quelli da 8-9 secondi?)
Ho fatto una chiacchierata con il vicedirettore della Gazzetta dello Sport, Umberto Zapelloni, a proposito dell'argomento “nostalgia”. Zapelloni (che, da Skype, ha subito acceso la condivisione video, segno che ho immediatamente interpretato come segnale distensivo e amicale ma che mi ha costretto a infilarmi una maglietta sopra la canottiera da città agostana) è effettivamente dell'opinione che il circuito fosse meglio un tempo. Definisce i numeri dei sorpassi degli ultimi due anni «gonfiati», e la critica ha certamente un suo perché: è pressoché impossibile difendersi da una macchina inseguitrice che abbia attivato il kers in rettilineo. Ma sempre di sorpassi si tratta, e se non altro la riduzione della resistenza aerodinamica impedisce che si creino noiosi ingorghi in cui le vetture sembrano i vagoni di un treno, mentre il pilota “lepre” può finire le gare con trenta secondi di vantaggio sul più vicino inseguitore. Poi Zapelloni ha mosso una critica al sistema della Formula Uno attuale: la perdita di fascino non è derivata tanto da quello che vediamo in pista, ma da quello che vediamo fuori – o, meglio, da quello che non vediamo più fuori. Vale a dire: il romanticismo-da-circuito. Vale a dire (e questo, in forme differenti, esiste in tutti gli sport) l'aumentato controllo che le scuderie esercitano sui propri piloti. È comprensibile, ma è l'obiezione secondo cui (per tornare al calcio) i giocatori dovrebbero avere un vocabolario più ampio di quello scarso e caracollante che utilizzano ogni domenica e dovrebbero “far funzionare la testa” e cose del genere. Quello che porta la comune morale ad additare il calciatore come mancato modello di educazione e civilizzazione. Quello che dipinge José Mourinho come un intellettuale illuminista in un mondo in cui regnano le tenebre, quando quello recitato in ogni conferenza stampa da Mourinho non è altro che un copione, forse più ricco di quello di qualsiasi suo collega, ma un copione preso da un'altra sceneggiatura e in fondo altrettanto statico e banale (un copione alla Vin Diesel, un copione alla Steven Seagal). Quando parlava Senna, mi ha detto Zapelloni, nessuno sapeva cosa aspettarsi e «non potevi perderti una dichiarazione sua, perché rischiava di dire qualcosa di clamoroso ogni Gran Premio». «Da Schumacher in poi», ha detto ancora: «Il pilota è molto più robotizzato, molto più banale nelle sue espressioni fuori dall'abitacolo». Si salva Alonso, per il vice direttore della Gazzetta, che spesso «rompe le veline della scuderia», in parte Hamilton («anche se Hamilton è stato preso fin da bambino da una scuderia come la McLaren abilissima a manipolare il personaggio, lo ha praticamente costruito»), sicuramente Räikkönen. La nostalgia giustificata da Zapelloni, insomma, è quella del “circo” (circus, in inglese, sta molto meglio), un tempo movimentato e istrionico e sorprendente, oggi troppo professionale e colpevolmente “freddo”.
Un'opinione simile è quella di Fabiano Vandone, commentatore tecnico per Sky Formula Uno, ex pilota di Formula Tre e Formula 3000: «Fino al '93 ho guidato, e ho conosciuto molti piloti poi passati alla F1, Barrichello, Morbidelli, Häkkinen, Schumacher. Schumacher, a vent'anni, era un ragazzo con il quale si scherzava, si giocava a pallone nel paddock, ai tempi della Formula Tre. È stato quello che ha avuto il cambiamento peggiore, poi, perché è stato il più esposto all'impatto con i media, anche molto di più di Barrichello, Häkkinen, o Zanardi. Ha cambiato atteggiamento con tutti: chi non gli serviva più non era più salutabile. In tre anni ho visto una persona radicalmente diversa. E non riesco a dargli una responsabilità personale, perché non posso immaginare quello che ha passato. Prima andava in pista a correre e divertirsi, poi è andato in pista a difendersi da media, team che hanno l'esigenza dell'immagine e del risultato, sponsor che sono una pressione aggiuntiva, e non stiamo parlando di uomini maturi, ma di ragazzi di venticinque anni».
«La Formula Uno di oggi è costruita per la televisione», mi dice Vandone: «Quindi io, io organizzatore, organizzo un evento di tre giorni nel quale la televisione è il miglior mezzo per seguire il tutto. Non interessa più così tanto che ci sia l'appassionato che gode, dal vivo, nel sentire il rumore della marcia che scala, il bloccaggio di gomma. E così le tribune possono arretrare, per questioni di sicurezza. A Montecarlo negli anni Settanta il pubblico si affacciava sul circuito dietro i cartelloni, senza nemmeno barriere. Oggi non esiste più questo rapporto, e questo obbliga ad avere un pubblico diverso. Il pubblico vive della tecnologia. È cambiato il pubblico. È la naturale progressione di uno sport che riesce a essere al passo con i tempi: tecnologia, telemetria, elettronica, possibilità di fruizione su diverse piattaforme e diversi canali. La Formula Uno si sta evolvendo a 360 gradi».
Torno alla pista, e torno all'oggi, senza passati, trapassati, nostalgie, e senza confronti, soprattutto. Torno alla pista perché in fondo è della pista che vive la F1, come è del campo che vive il calcio, e non delle interviste, e via dicendo. Ci sono moltissimi esempi pratici, ossia pezzi-di-gara, finali-di-campionato, eccetera, che parlano da soli ben più di un articolo come questo e con argomentazioni molto migliori. Tutti gli esempi – che sono tanti, e impossibili da ricordare tutti, e ancora più impossibili da elencare tutti o anche quasi tutti – dicono la stessa cosa: la Formula Uno “di oggi” è puro spettacolo adrenalinico. E proverò, senza annoiare troppo e dimenticando centinaia di altri episodi, a ricordarlo con pochi esempi del periodo che definirò “D.S.”, ovvero Dopo Senna.
C'è la partenza del Gran Premio di Spa, in Belgio, nel 1998 (due anni prima del già citato sorpasso di Häkkinen), quando alla partenza, sotto una pioggia torrenziale da temporale estivo – era il 30 agosto –, quelle piogge in cui tutto è bianco e grigio e non esistono contorni di oggetti, o movimenti di oggetti, ma soltanto idee di contorni e sensazioni di movimento, dopo la prima curva tredici auto si accartocciano scivolando una contro l'altra, sopra l'altra, come se all'asfalto si fosse sostituito un fiume di ghiaccio, e nelle riprese video non si sentono nemmeno i rumori degli schianti, dei telai e delle sospensioni e delle scocche che rientrano, che si spezzano, che cedono e si incastrano l'une nelle altre, ma soltanto il silenzio e il movimento, tredici auto che scivolano, e la sensazione di essere in inverno è ancora più forte.
C'è, nello stesso Gran Premio, con la stessa pioggia, con gli stessi colori e la stessa sensazione di irrealtà, Schumacher, in testa alla gara, che tampona la McLaren (all'ottavo posto) di David Coulthard, che già era uscito in testacoda ma rientrato sul circuito, dopo che per due giri non era riuscito a doppiarla, e succede tutto all'improvviso, la Ferrari rossa che per un secondo si avvicina alla nuvola di nebbia della McLaren e che riappare su tre ruote, mentre quella mancante vola a quattro o cinque metri di altezza con i pezzi di sospensione e atterra poco più indietro insieme all'alettone posteriore di Coulthard. È successo che Coulthard, al quale i commissari sbandieravano bandiere blu da un pezzo (ovvero: fatti sorpassare, lascia strada) ha "alzato il piede dall'acceleratore”, che in Formula Uno equivale a rallentare moltissimo, quasi a inchiodare su una macchina normale (questioni di carico aerodinamico). E allora, sempre senza rumori, vedi le due macchine amputate che tornano ai box, Schumacher e la Ferrari senza la ruota anteriore destra, e Michael Schumacher trattenuto a stento dai suoi meccanici esce dall'abitacolo e punta dritto verso il box della McLaren, pronto a far scoppiare una rissa che alcuni esperti di retorica chiamerebbero “calcistica” nello stagno solo in superficie calmo e noioso della F1 (e d'altronde Coulthard e Schumacher non si amarono mai molto, come dimostra questo dito medio dello scozzese al tedesco, a Magny-Cours nel 2000).
C'è il Mondiale del 2007, vinto da Kimi Räikkönen su Ferrari all'ultimo Gran Premio, con 110 punti contro i 109 di Lewis Hamilton su McLaren. In particolare il GP in Cina, il penultimo, corso il 7 ottobre, quando Hamilton, ancora in testa al campionato, è in testa anche alla gara. Prima perde la prima posizione in favore dello stesso Räikkönen, poi, mentre da dietro si avvicina anche Alonso, decide di rientrare ai box per sostituire le gomme, ma all'imbocco della corsia dei box, la curva più facile di tutta la pista, perde il controllo della McLaren e si ferma sulla ghiaia. Piove, i colori sono ancora quelli grigi dell'autunno, e Lewis Hamilton, esordiente in Formula Uno, più giovane vincitore di sempre, mai ritirato in tutta la stagione (15 gare di fila portate a termine) non riesce a far muovere la macchina dalle sabbie immobili del fuoripista. Al box McLaren, anzi al muretto, Ron Dennis si sbraccia contro il televisore, arrivano da Hamilton dei goffi commissari di gara che provano a spingere l'auto che rimane però immobile, e Dennis si mette le mani nei pochi capelli, stringe i pugni, si sbraccia ancora come si sbraccia chi sta trattenendo la rabbia e la voglia di spaccare qualcosa. All'ultima gara, in Brasile, Hamilton è ancora il leader della classifica mondiale, ma un problema al cambio lo costringe al settimo posto e il campionato è vinto da Kimi Räikkönen per un solo punto, Räikkönen che partiva a meno 7 punti, e che alla vigilia diceva che non ce l'avrebbe fatta, e che i miracoli non esistono.
E legato al Mondiale del 2007 c'è il Mondiale del 2008, vinto sì da Hamilton, questa volta all'ultimo Gran Premio, sempre quello del Brasile, e anche all'ultima curva. Ancora una volta piove, a San Paolo, e Felipe Massa, seconda guida Ferrari, è primo a tre giri dalla fine, con Hamilton sesto a inseguire Vettel che l'ha appena sorpassato (ed è ancora giovanissimo, e ancora senza medaglie da campione o da killer di rivalità) e condannato, in teoria, a perdere il campionato. Davanti a Vettel c'è Timo Glock su Toyota. Inizia a piovere forte, il commentatore Ettore Giovannelli prende la linea dalla telecronaca italiana e annuncia «sta diluviando», e alcuni piloti hanno ancora le gomme da asciutto. Dieci punti per Felipe Massa, in testa alla gara. Tre punti per il sesto classificato, Lewis Hamilton. La classifica generale dice (direbbe) novantasette pari, con Massa però campione. Sarebbe perfetto, il primo pilota brasiliano a vincere un Mondiale dopo Ayrton Senna, con la gara decisiva e il sorpasso decisivo nell'ultimo GP della stagione, in casa, a Interlagos, duecento chilometri appena da dove Massa è cresciuto, a Botucatu, entroterra paulista. Massa vince il Gran Premio, Glock, che deve terminare il giro, è a quasi dieci secondi di vantaggio su Vettel e sulla McLaren di Hamilton, ma le gomme slick lo costringono a girare lento, e all'ultima curva lo passano in tre: Vettel, Hamilton e Kubica. L'ultima curva prima del rettilineo. Non se ne accorge nessuno nel box Ferrari, e i meccanici esultano e urlano e abbracciano il padre di Felipe Massa, prima che un altro meccanico inizi a urlare: «NO! NO!» e a prendere a pugni il gruppo di persone abbracciate e festanti, per fermarli, per riportarli alla realtà. C'è la volontà e la fretta di condividere la tragedia, nei pugni di quel meccanico, di strappare la felicità a chi ne stava godendo. Poi dice mesto, a spiegazione dei pugni, «Glock s'è fatto passare», le facce contratte nei sorrisi e negli occhi chiusi di chi festeggiava la vittoria si sciolgono in delusioni e occhi apertissimi, e lui, prima di uscire di scena, teatralmente, con una testata rompe un vetro in mille pezzi. Lewis Hamilton è in auto, e piange appena gli comunicano, ormai sicuri dei calcoli, che è il più giovane campione del mondo della storia della Formula Uno.
C'è poi Sebastian Vettel, il più vincente pilota in circolazione, meno spettacolare di un Alonso o di un Hamilton, ma capace di rimonte come quella (ancora) del Gran Premio brasiliano del 2012, quando taglia il traguardo sesto dopo essere finito ultimo alla quarta curva del primo giro, speronato da Bruno Senna (nipote di Ayrton). Ci sono paradossali costanti eternamente impazzite, come il francese Grosjean, pilota bravo e aggressivo ma famoso per gli errori, i tamponamenti e le uscite di pista spettacolari, raccolte su YouTube in molte e varie compilation (una delle migliori è questa, in cui alla musica classica, da camera, con violini e viole, sono accostate le scivolate sul bagnato, con l'auto che sembra volteggiare in testacoda e ballare a ritmo), o Kimi Räikkönen, i cui team radio, le comunicazioni con la scuderia, sono altrettanto celebri: come in Malesia nel 2012, quando il team gli ricorda la distanza di Alonso dietro di lui, e aggiunge: «Ti tengo aggiornato sulla distanza e sulla velocità», e Kimi risponde soltanto: «Just leave me alone!», e più tardi, dietro alla Safety Car, quando gli ricordano di zigzagare per non far raffreddare i pneumatici alla velocità di crociera in cui è costretto ad andare, dice scocciato: «Sì sì sì sì sì lo sto facendo, non devi ricordarmelo».
E poi, le rivalità: quella tra Hamilton e Alonso nella stessa scuderia, la McLaren, esplosa nelle qualificazioni del GP di Ungheria 2007. Alonso, con il secondo miglior tempo (il primo è di Hamilton), si ferma ai box per un cambio gomme per provare l'ultimo giro veloce. Dietro di lui arriva il pilota inglese per la stessa strategia, ma manca un minuto e trenta secondi alla chiusura delle qualifiche, ovvero circa lo stesso tempo di percorrenza di un giro, e Alonso, nonostante abbia ricevuto il via libera dai meccanici per ripartire, in modo da permettere anche a Hamilton un cambio pneumatici, guarda gli specchietti dove l'altra McLaren aspetta in coda, e rimane fermo, partendo quando a Hamilton non può rimanere più il tempo utile minimo per riuscire a chiudere un giro.
Quella tra Webber e Vettel, costante e tesa quasi in ogni Gran Premio, tra cui spicca di recente quello della Malesia 2013, quando a tredici giri dalla fine, con Webber primo e il tedesco secondo e gli ordini di scuderia che chiedono un rispetto delle rispettive posizioni per evitare inutili incidenti o l'eccessiva usura delle gomme, Vettel attacca comunque il compagno australiano e lo sorpassa dopo una battaglia durata più di una curva, in cui l'unica espressione che mi viene in mente, consapevole del cliché, è “sul filo del rasoio” (ma anche “con il coltello tra i denti” non ci sta male).
Infine, tutta la storia di Sebastian Vettel è un romanzo a sé stante. Non sarà spettacolare come Hamilton o Räikkönen, sarà tedesco e antipatico e robotico come Schumacher, ma il modo in cui si è presentato al mondo, nell'estate del 2008 a Monza, è un modo da ricordare. Sebastian Vettel al tempo aveva ventuno anni appena compiuti, guidava una macchina italiana ma lenta, la Toro Rosso di Faenza, la ex Minardi diventata la Red Bull italianizzata, con motori Ferrari. Nata nel 2006 (ma la Minardi iniziò già nel 1980) la Toro Rosso ha vinto negli ultimi sette anni un solo Gran Premio: quello di Vettel a Monza il 14 settembre 2008. Ancora una volta è la pioggia a caratterizzare la gara, una pioggia a cascata da temporale estivo, con le vetture che girano lentissime. A sorpresa la Toro Rosso di Vettel (fino a quel punto della stagione mai andato a punti) parte dalla prima posizione, e dal primo all'ultimo giro conduce la gara senza un errore e senza mai abbandonare quel primo posto. Non è granché dal punto di vista adrenalinico forse, ma dal punto di vista narrativo sì: un ventunenne vince su una ex-Minardi una delle gare più importanti, difficili (e poi il temporale!) e veloci del Mondiale, e vince in quella stessa maniera che diventerà il suo marchio di fabbrica. Mai un errore. In quella gara c'era anche molto altro, dietro Vettel, anche se (a ragion veduta, tutto sommato) soltanto Vettel è passato alla storia: c'è stata una serie di sorpassi spettacolari di Lewis Hamilton che, partito quindicesimo, è arrivato fino alla seconda posizione, da vero e proprio virtuoso del bagnato, aggressivo e ai limiti della scorrettezza come sempre, prima che la pista si asciugasse e come un elastico, con le gomme slick, retrocedesse al settimo posto finale. E poi c'è l'arrivo di Sebastian sul traguardo, con tutto il team Toro Rosso, l'italiana che non ti aspetti a Monza, che piange di sorpresa più che di gioia, e Vettel, dettaglio importantissimo, che esulta per la prima volta nella sua vita come esultava l'altro tedesco, l'altro cannibale, Michael Schumacher: con una scarica di pugni verso l'alto. A differenza di Schumacher, nel team radio Vettel prova a parlare italiano, e dice: «I don't know what to say. Grazie mille, grazie mille. Un gara perfetto [sic]».
https://www.dailymotion.com/video/x6rgqm_vettel-vince-a-monza_sport
Potrei andare avanti? Forse sì, ma probabilmente perderei la verve narrativa io stesso, video dopo video, riga dopo riga. Il fatto è che scrivere, spesso, non è un'operazione adrenalinica. Quello che farò sarà chiudere questo computer e riguardare tutti questi momenti e anche quelli tralasciati, e l'adrenalina tornerà, di sicuro, c'è la partenza, i giri del motore che salgono, e le macchine che in 1,5 secondi passano da zero a cento chilometri orari, a volte arrivano quasi a trecento, per frenare fino a settanta nello spazio di pochi metri; e magari salterò un pranzo, come lo salto la domenica, alle 14, quando i semafori si accendono e poi si spengono.