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Immaginando l'All-Star Game
12 feb 2016
12 feb 2016
Quattro scenari che renderebbero indimenticabile il weekend delle stelle di Toronto.
(articolo)
11 min
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25 su 25

di Dario Vismara

Che Steph Curry abbia iniziato a trascendere i limiti delle capacità umane, beh, più o meno ce ne siamo accorti tutti nel corso della stagione. Dopotutto non è umano pensare e poi anche segnare robe del genere:

Quello che però ha fatto alla gara del tiro da tre non ha veramente alcun senso.

E dire che nel primo round di qualificazione non ha nemmeno così incantato: il suo Splash Brother Klay Thompson e il rookie Devin Booker hanno entrambi fatto meglio del suo mediocre 17, e solo un round supplementare contro J.J. Redick gli ha permesso di avanzare fino alla finale. Classic Steph: talmente consapevole di essere su un piano di esistenza diverso dagli altri da permettersi di cazzeggiare fino a quando non si fa realmente sul serio. Un po’ quello che fa per interi quarti della regular season NBA, alla faccia di chi dice che sta spendendo troppe energie.

Una volta posizionatosi di fianco al primo carrello per la finale, glielo si può leggere in faccia che la concentrazione è del tutto diversa: occhi fissi sul ferro, mani pronte a prendere il pallone, paradenti incastrato a metà che gli esce dalla bocca (poi prontamente copiato dai ragazzini di tutto il mondo, tipo la gomma da masticare di MJ). E si inizia: uno, due, tre, quattro, cinque. Così, per cominciare. Primo piccolo boato dal pubblico di Toronto. Nulla di così incredibile comunque: di carrelli perfetti se ne erano già visti, nella storia della gara del tiro da tre.

Piuttosto, è durante il secondo carrello che la gente inizia a darsi di gomito: dal mezzo angolo sinistro Curry tira in stagione col 50% su 160 tentativi, la sua miglior “mattonella” per percentuali combinate al volume di tiri. Altro carrello perfetto, e fanno dieci in fila. On to the next one.

Il terzo carrello, il frontale, è quello dei record: l’anno scorso aveva segnato 13 tiri consecutivi - mai nessuno ci era riuscito nella competizione - e qualcuno deve averlo detto al pubblico dell’Air Canada Centre, visto che il “OOOOOH” dopo il 14esimo canestro è più rumoroso rispetto agli altri. Ah, ovviamente viene frantumato anche il record per il miglior inizio nella competizione, perfettamente in linea con la partenza da 24-0 degli Warriors per aprire la stagione.

Il quarto carrello, quello dal mezzo angolo destro, è il più complicato: è la zona di campo da cui Steph tira di più (180 tiri in stagione - solo 75 giocatori hanno provato così tante triple, ma sparse su tutto l’arco) ma anche quella più “imprecisa”, visto che segna solo il 41.1% dei tiri presi da lì. Un paio di palloni rimbalzano tra ferro e tabellone prima di entrare, la money ball finale fa addirittura un paio di giri prima di adagiarsi sul fondo della retina. Steph rimane per un secondo con il braccio alzato ad osservare il destino di quel pallone, consapevole che è solo un breve rallentamento nel compiersi della storia.

La fiducia di Steph si nota anche dalla scelta della posizione del carrello di sole money ball: mentre nel round iniziale e in quello di spareggio lo aveva fatto mettere nel mezzo angolo sinistro, per la finale sceglie l’angolo destro, la miglior posizione a livello di percentuali della sua stagione (52%). Con il pubblico canadese tutto in piedi per l’ultimo carrello e i colleghi giocatori che si tengono l’un l’altro a bordo campo nell’incredulità generale, Steph continua in trance agonistica con la sua meccanica di tiro sempre uguale a se stessa, senza alcuno sforzo apparente: 21… 22… 23… 24…

25.

A quel punto, in mezzo al frastuono assordante del palazzo, Steph guarda dritto nell’obiettivo della telecamera, si porta le mani al petto e scandisce due semplici parole: “IT’S OVA”. (Ed è effettivamente così, visto che Thompson e Booker decidono saggiamente di rinunciare al loro round finale sparendo nei meandri del palazzetto. Adrian Wojnarowski scrive su Twitter che Thompson ha bofonchiato solo «Ma cosa ho fatto di male nella vita…» prima di rifugiarsi negli spogliatoi).

Durante l’intervista di rito con Lisa Salters, Curry ignora completamente la solita domanda inutile e dice solo: «Vogliamo battere il record delle 33 vittorie dei Lakers. E vogliamo battere anche quello del 72-10 dei Bulls. Poi andremo ai playoff e non ne perderemo neanche una. Fo’ Fo’ Fo’ Fo’», prima di aggiungere «Siamo qui per fare la storia. Deal with it» e far cadere per terra il microfono.

È in quel momento che il basket si accorge che non sta per niente scherzando, e che quell’episodio rappresenta lo snodo cruciale della dittatura di Steph Curry sul mondo della pallacanestro. Nulla, dopo quel 25 su 25, sarebbe stato più lo stesso.

Black Mamba Celebration

di Dario Costa

All’improvviso le luci si spengono e l’Air Canada Center sprofonda nel buio. L’oscurità mette i brividi, il silenzio avvolge l’arena.

“Caro basket, dal primo momento…”

Un faro illumina il centro del campo: all’inizio è solo un barlume, ma l’intensità aumenta ad ogni passaggio scandito con trascinante maestria.

“E così ho corso…”

Ora è possibile attribuire un volto alla voce.

“Sono pronto a lasciarti andare…”

Gli spettatori trattengono il fiato: è proprio lui, il padre di Jesus Shuttlesworth!

“... 5… 4… 3… 2… 1… ti amerò per sempre. Kobe”.

Denzel Washington accenna un leggero inchino e la folla lo acclama, coprendo il riverbero di una chitarra. Le luci si spengono di nuovo, per riaccendersi dopo pochi secondi. Sul palco sistemato sotto la tribuna di fronte alle panchine ci sono quattro ceffi bardati in gialloviola.

Il boato è assordante.

«Forse non lo sapete ma abbiamo una canzone intitolata Magic Johnson nel nostro repertorio. Beh, suona un po’ datata. È tempo di aggiornarsi: questa è Bite Like The Black Mamba!».

Irrompe un giro di basso dal marchio registrato, quattro lettere: Flea.

I Red Hot Chili Peppers sono tornati e hanno riscoperto la loro tempra funk.

Born in the city of brotherly love / but the only one I ever got was a 30 inches leather ball.

Pubblico in delirio. Nella penombra, qualcuno crede di scorgere Adam Silver e David Stern che saltellano a ritmo.

You sure wanna deal with me? 24/7 real basketball freak!.

Al secondo giro, tutta l’arena sta già cantando a squarciagola il refrain.

Or call me Vino, aging like bottles of the finest wine / goin’ down as the greatest Laker of all time.

Le 40.000 mani alzate e aperte verso il cielo confermano senza indugi: sì, è il più grande Laker di sempre. L’entrata in campo del numero 24 è accolta da un’autentica ovazione. Mentre procede attraverso le due file composte dal resto degli All-Star, l’applauso sembra non finire mai. Kobe è al centro della storia, il microfono è finalmente suo. Il concetto di resa, così come quello di declino, è una mera illusione.

«Grazie, grazie a tutti. Non ho molto da dire ma spero davvero, dal profondo del mio cuore, che questo sia un arrivederci e non un addio».

L’urlo dagli spalti resta sospeso a mezz’aria, tra stupore e speranza.

A qualcuno, forse gli stessi che hanno visto ballare l’alta dirigenza della lega, pare di riconoscere il tizio calvo che si avvia verso l’uscita. Ha un passo dinoccolato, alle mani sfoggia sei anelli piuttosto vistosi e scuote la testa mormorando tra sé e sé.

«L’ho sempre detto: vuole essere me, fino alla fine».

Il regno di Zach

di Marco Vettoretti

Aaron Gordon, Andre Drummond e Will Barton non hanno speranze e ne sono consapevoli sin dalla loro presentazione. Il ragazzino al loro fianco è Zachary LaVine, campione uscente del NBA Dunk Contest, e non c’è anima all’interno dell’Air Canada Centre che non si aspetti di vederlo alzare il trofeo di lì a poco.

L’esordio è stordente: LaVine si esibisce per ultimo, prende un’abbondante rincorsa che parte dalla metà campo opposta, trotterella per qualche metro, dopodiché accelera. Lo stacco dalla linea del tiro libero è poetico. Nulla a che vedere con le traiettorie fredde e sgraziate di Brent Barry o Serge Ibaka. Zach è Jordan che incontra Doctor J: veleggia verso il canestro con il pallone ben saldo nella mano destra, e trova persino il tempo per portarselo all’altezza della testa prima di affondare. Boato. Primo cinquanta.

La seconda schiacciata del turno di qualificazione è una necessaria formalità, dove LaVine punta sull’usato sicuro riproponendo uno dei due fifty del Barclays Center dell’anno scorso. Praticamente cita sé stesso. La rincorsa corre parallela alla linea di fondo, il numero 8 dei Timberwolves decolla e fa scorrere la palla a spicchi in senso orario, dalla mano destra alla sinistra, dietro la schiena, chiudendo la schiacciata con la mano debole. Lo stupore del pubblico lievita ad ogni replay proposto dal jumbotron. Secondo cinquanta.

Sbrigata la pratica della qualificazione, LaVine, che un anno prima aveva ragionato inversamente, cala i carichi pesanti in finale. La terza schiacciata di serata non è mai stata vista prima: dalle sedie a bordocampo viene fatto alzare Ricky Rubio, uno che se serve ti posiziona la palla con la scritta Spalding rivolta verso i fotografi. Il catalano fa rimbalzare il pallone a terra, LaVine approccia frontalmente e stacca a due piedi. Non lo aveva mai fatto, né nel 2015 a New York, né nel turno precedente. L’impronta è chiaramente quella della seconda/terza schiacciata di Carter ad Oakland, nel 2000, ma una volta passatosi la palla tra le gambe, in parabola ancora ascendente, Zach pianta una rotazione di 360° che chiude la schiacciata e spalanca le diciannovemilaottocento mandibole dell’Air Canada Centre. I giurati si guardano smarriti.

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Terzo cinquanta.

Giunto a questo punto, Zachary ha la competizione in tasca. Gli è rimasta una sola cosa da fare: svestire per l’ultima volta la tuta dei Timberwolves e far alzare il sipario sulla sua quarta e per nulla decisiva schiacciata: l’omaggio definitivo.

Vestendo la 34 azzurra dei Minnesota Timberwolves, LaVine riproduce in tutto e per tutto la Eastbay Funk Dunk di Isaiah Rider in quel lontano All-Star Saturday datato 12 febbraio 1994. La prima between the legs messa in scena su questo palcoscenico. Il seme di quella follia i cui frutti verranno raccolti negli anni a venire da Kobe Bryant, Vince Carter, Desmond Mason, Jason Richardson, Paul George e, appunto, Zach LaVine.

Zach raccoglie il pallone, si dirige verso l’angolo sinistro del campo e, per il solo gusto di farlo, fa spostare due o tre poveri cristi che stanno cercando di fare il loro lavoro. Si asciuga nervosamente le suole delle scarpe con la mano e parte, con un palleggio a metà rincorsa scandisce il tempo dello stacco: apre il compasso, si passa il pallone da una mano all’altra, inarca la schiena all’indietro e, mentre sta ancora salendo, con una leggiadria inebriante, ruota ampiamente il braccio destro, scaraventando la palla a spicchi nel canestro. Silenzio. Quarto cinquanta. Ovazione.

Vince Carter, davanti al televisore a casa, annuisce mentre si asciuga il sudore dalla fronte.

Remake 2003

di Fabrizio Gilardi

Odio i remake. Non ce la faccio proprio. A meno che, ma è cosa rara, chi viene dopo non riesca a mantenere intatta la struttura messa in piedi da chi è venuto prima, aggiungendo un tocco personale e un pizzico di creatività.

Quindi, Kobe, stupiscici. Finora nel ripercorrere l’opera del Maestro MJ hai ottenuto risultati ottimi dal punto di vista estetico, più che buoni da quello della gioielleria (5 anelli a 6) e decisamente rivedibili per quanto riguarda il rendimento nell’ultima stagione della carriera. Resta però l’All-Star Game, ovvero la partita di cui non frega letteralmente nulla a nessuno, escluso forse chi deve montare i video con le giocate più spettacolari. Ma che stavolta può essere interessante eccome, come lo era stata quello del 2003. Via ai casting. Bisogna ricostruire fedelmente il finale di quel supplementare.

Come rendere memorabile anche una partita totalmente inutile. Firmato Michael Jordan… e Kobe Bryant.

Nella parte di Michael Jordan: Kobe Bryant. Ovviamente. Anche perché il fadeaway da quasi fermo è più o meno l’unica cosa che riesce ancora a fare con risultati decenti (sigh). Jordan prima di quel tiro era 7/24, prestazione del tutto in linea con quelle attuali del Mamba: non dovrebbe essere troppo difficile arrivare a questo punto (sob). Poi serve anche fare quel canestro, ma mi fido.

Nella parte di Jason Kidd: gestione del cronometro e palla messa nelle mani giuste, nel posto giusto e nel momento giusto. Non posso garantire che in una situazione comparabile voglia passare quel pallone, ma l’unico candidato credibile è Chris Paul.

Nella parte di Shawn Marion: uno dei migliori difensori sugli esterni e che, dettaglio non indifferente, abbia voglia di difendere. E magari un po’ segnato dalla sfortuna nel corso della sua carriera. C’è: Paul George.

Timeout. Palla a quegli altri. Stavolta si gioca a Conference invertite, +2 per la Western.

Nella parte di Beyoncé: Beyoncé. No, un attimo, sono passati 13 anni? Ma che, davvero?!? No dai.

Nella parte di Kobe Bryant: il Cattivo, quello che rovina la Storia. E che poi però segna solo due liberi su tre, perché… boh. Forse perché in fondo in fondo un cuore ce l’ha e chiuderla così sarebbe stato davvero brutto. Sicuramente non perché intimorito. Se giocasse nella squadra giusta il candidato ideale sarebbe Curry. O forse Westbrook. Kyle Lowry ha senza alcun dubbio la faccia tosta per provarci e non ha alcun problema a sentirsi il Nemico. Manca tutto il tema del passaggio di consegne, ma gli attori questi sono.

Nella parte di Jermaine O’Neal: quello che, encomiabile, prova a difendere. E ci prova pure troppo, visto che sarebbe bastato anche parecchio meno. Però ci crede. Serve qualcuno che sia anche un po’ Calimero. BOOOOOOGIEEEEEEE.

Nella parte di Kevin Garnett: perché poi nel secondo supplementare KG ha letteralmente dominato. E aveva dominato anche prima, fino a meritarsi - nel disinteresse generale - il premio di MVP della partita. Fortissimo, ma marginale. Carmelo Anthony.

Tocca a sceneggiatore, regista ed attori. Se il remake esce bene fate un fischio, che magari vado a vederlo.

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