Ha preso giovanissimo un ascensore che l’ha fatto arrivare nei piani alti del calcio. Ha visto lunghi corridoi distendersi, porte di stanze coi simboli dei migliori club d’Europa. Poi non è stato invitato a entrare. È rimasto lì, nell’anticamera della consacrazione.
Esiste una parola che Luis Fernando Muriel Fruto vorrebbe eliminare: illusione. Da anni lo insegue, lo rincorre sul campo, apre le braccia come un portiere che vede la palla uscire. «Ho illuso e poi deluso. Gli altri, ma prima me stesso».
Negli ultimi mesi Muriel sembra essersi risolto. 11 gol e 7 assist in 27 gare, un gol pesante nel derby col Genoa, soprattutto una costanza di rendimento. Lui a novembre la raccontava in questo modo: «Non so cosa e quando mi è scattato in testa, però mi sono detto: “Se fallisci, se l’aspettano tutti: stavolta stupiscili. Non con una giocata nuova: con una testa nuova».
C’è stato un picco riconoscibile nella sua carriera, allora pareva solo una sosta per riprendere meglio il cammino. Pareva, come se le montagne nel buio avessero tradito la percezione.
Questo culmine corrisponde a un periodo temporale, il giugno 2012, in cui Muriel esordisce in nazionale maggiore, dopo aver chiuso una stagione a Lecce che lo ha eletto fra le rivelazioni del calcio europeo. Le aspettative premono, gli soffiano contro. Ha ventun anni e sembra destinato a cime che in uno sguardo comprendano il mondo.
All’inizio di settembre, però, si incrina la sfera di cristallo che prevedeva meraviglie. Un problema al femore tiene Muriel fermo per tre mesi. “Ero tristissimo” racconta a distanza di tempo, neanche lui capisce bene come si fosse infortunato. Quell’interruzione nel momento migliore pare un brutto presagio.
Un po’ di quello che ha fatto quest’anno.
Separarsi
È nato il 16 aprile del 1991 nel paese di Santo Tomás, sulle rive del fiume Magdalena. A quattordici anni però si è trasferito con la famiglia a Barranquilla, la quarta città colombiana, venticinque chilometri a nord. En Barranquilla se baila asì canta Shakira che ci è nata. A Barranquilla, Luis guardava in tv la serie A e tifava per il Milan.
Nel suo pueblo natale ha iniziato a giocare a pallone. È lì che fa il primo gol, a cinque anni, dopo aver pregato i bambini più grandi di poter giocare. Oggi ci ha creato una scuola. E quando torna, gioca sempre una partita che contrappone Santo Tomás al vicino paese di Galapa.
Sente che le sue radici lo tengono lì, e si chiede se dipende dall’averlo lasciato così presto o se sia un segno che non l’ha lasciato davvero.
La prima cosa che ha fatto, appena il calcio gli ha permesso di guadagnare abbastanza, è stato mantenere una promessa: comprare un taxi nuovo a suo padre, tassista a Barranquilla. Il padre al quale Luis pensa, nei momenti di crisi degli ultimi anni, soffrendo all’idea di farlo soffrire.
A Udine lo segue una carovana di parenti, una famiglia espansa: i genitori, le due sorelle e altrettanti cugini. Il padre ha smesso di fare il tassista e ha lasciato Barranquilla, troppo pericolosa.
«Ogni volta che prendo un taxi mi viene nostalgia» dice il figlio, che lo accompagnava in certi turni di lavoro, per evitare le rapine, così come si è sempre messo al servizio della famiglia.
La situazione a casa era tosta: «A scuola gli altri bambini mangiavano e noi lì a guardare, perché non potevamo». Luis aiutava anche lo zio, controllore sui pullman, e vendeva le frittelle della nonna: «La mia voce la conoscevano tutti, ma mi vergognavo».
Illudersi
In quel giugno 2012 forse avevamo tutti bisogno di distinguere una forma di Ronaldo, Luís Nazário de Lima, sopravvissuta al suo ritiro del giugno 2011, un anno prima. L’infatuazione di quel periodo è sospetta: è come se nel paesaggio di montagna, forzando, avessimo deciso scientemente di far a meno di uno strumento per orientarci. Avevamo bisogno di vedere continuità col Fenomeno, non certo i limiti di Muriel.
Che ci sia una somiglianza con Ronaldo, è innegabile. Glielo dicevano Cosmi a Lecce e Mihajlović a Genova, glielo dice la moglie. Muriel stempera la cosa: «Forse qualche movenza, l’accelerazione palla al piede». Ma il Fenomeno rimane il suo mito.
A nove anni Luis fa il raccattapalle in Colombia-Brasile, vuole correre a stringere la mano a Ronaldo, che però esce subito e dall’altro lato del campo. Dovrà aspettare quindici anni, la Copa América 2015, quando sono nello stesso hotel: Luis è paralizzato, non gli esce la voce, allora manda avanti Cuadrado, che dice: “Fai una foto con lui?” e indica Muriel a Ronaldo, e finalmente le mani si stringono.
Dopo i primi mesi a Udine, Muriel lo definiva “un fratello” e spiegava: “È stato doloroso non viverci più insieme”. Juan Cuadrado bussava alla sua porta “anche per mezz’ora”, quando dovevano uscire e lui continuava a dormire senza sentirlo.
Un fratello maggiore di tre anni, che ha mostrato la via. È arrivato in Europa, all’Udinese, una stagione prima di lui. È già nel giro della nazionale maggiore quando Luis si affaccia. A Lecce i loro percorsi sembrano correre paralleli. Poi, si separano bruscamente.
Cuadrado esplode a Firenze, strappa a Muriel la finale di Coppa Italia del 2014. La semifinale d’andata la vince l’Udinese 2-1, con un gol di Luis. Nel ritorno, la Viola vince 2-0 e il secondo è di Cuadrado. Che prende il volo: la Juventus, il Chelsea, il posto fisso in nazionale. E il corpo sottile, come nota Muriel stesso: «Ingurgita di tutto ed è secco come un chiodo…».
Appena arrivato a Lecce, Muriel dice di sognare il Barcellona. È carico, è stato determinante per la Colombia ai Mondiali Sub 20, ha segnato 4 reti con una doppietta alla Francia di Griezmann e Lacazette.
L’ambiente salentino gli pare molto simile alla Colombia. Di certo si trova meglio che a Granada, dove l’Udinese l’aveva mandato in prestito: a diciannove anni, il primo impatto con l’Europa era stato un insieme sgradevole di panchine e freddezza da parte dei tifosi andalusi. La stagione trionfale di Lecce parla di 29 presenze a vent’anni, con 7 gol e ben 8 assist.