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Fabio Severo
Il trono vuoto
10 set 2014
10 set 2014
Marin Cilic e Kei Nishikori non sono Roger Federer e Novak Djokovic. Bene così? O è un problema? Cosa vuol dire il "vuoto di potere" in cima allo US Open?
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Fabio Severo
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All’inizio della finale maschile dell’US Open una giornalista di

ha twittato “Ok, sfogatevi pure. Però a un certo punto sarebbe meglio concentrarsi sulla partita reale, piuttosto che pensare alla partita che non è”. Postato alla fine del riscaldamento mentre gli spalti dell’enorme Arthur Ashe Stadium erano ancora semideserti, il tweet invitava a accettare la realtà che quella finale non fosse Novak Djokovic contro Roger Federer come tutti volevano; no, quest’anno la finale l’avevano conquistata il croato Marin Cilic e il giapponese Kei Nishikori, due atleti che non può conoscere nessuno che non segua almeno dieci tornei all’anno, roba da fusi orari impossibili e noioso giornalismo di settore. Soprattutto due giocatori che non avevano mai raggiunto una finale di uno Slam prima di lunedì pomeriggio. Il cammino che ha portato i due a scontrarsi per il titolo ha prodotto una cascata di anomalie statistiche: è stata la prima volta dal Roland Garros 2005 in cui due debuttanti hanno giocato una finale di un major, addirittura la prima con due esordienti a New York dal 1997, la prima volta in cui nessuna delle prime nove teste di serie ha raggiunto la finale dal Roland Garros 2002, ma soprattutto la prima finale Slam senza Djokovic, Federer o Rafael Nadal dall’Australian Open del 2005. Tolte le rivalità storiche e le celebrazioni delle leggende sportive, rimaneva soltanto da guardare il tennis, privato del culto della personalità e giocato da due volti su cui nessuno aveva mai davvero poggiato lo sguardo prima.

 

Marin Cilic ha vinto con una sicurezza mentale e un’efficacia di gioco mai espressa prima, una trasformazione completa che gli ha fatto vincere gli ultimi tre turni del torneo senza perdere un set. Con il suo sguardo sempre sofferente e un’andatura che sembra tradire il peso della sua stessa altezza di quasi due metri, gli addetti ai lavori si erano abituati da anni a considerarlo un giocatore dai fondamentali e il servizio esplosivi, ma incapace di vittorie di alto livello, incline a perdere partite per il troppo pensare, il troppo dubitare. Dopo la semifinale dell’Australian Open del 2010 e l’ingresso in top ten al numero 9 la sua carriera non aveva mantenuto le promesse che si esigono dalle

: prima di lunedì aveva vinto undici titoli, ma tutti della categoria ATP 250, la più bassa, mai una finale in un Masters 1000, neanche una semifinale. Cilic per tutti era quello che ad esempio nel 2012 ai quarti dell’US Open era 6-3 5-1 e servizio contro Andy Murray, solo per poi perdere inspiegabilmente 7-6 il secondo, 6-2 il terzo e 6-0 il quarto set. Quell’anno Murray ha vinto l’US Open, e la differenza incolmabile tra i due stava tutta in quella partita: uno costruisce e poi disfa tutto, l’altro persevera e vince in grande. Il culmine della parabola autolesionista di Cilic è stato raggiunto durante Wimbledon 2013: si ritira durante il secondo turno citando un fastidio al ginocchio sinistro, e dopo settimane di assenza ingiustificata viene fuori che

presente in delle pasticche di glucosio comprategli dalla madre. Torna a giocare a gennaio 2014 all’Australian Open, poi subito dopo conquista due titoli e una finale nei tre tornei successivi. Qualcosa è cambiato, e tutti guardano al suo nuovo allenatore, Goran Ivanisevic.

 

http://youtu.be/cx2sLvfE1Bs



 

L’illustre connazionale di Cilic è l’ultimo arrivo della recente moda degli allenatori superstar: ha cominciato Andy Murray con Ivan Lendl, poi c’è stato Djokovic con Boris Becker, Federer con Stefan Edberg. Anche Nishikori, l’avversario di Cilic in finale a New York, ha un coach VIP: Michael Chang, che più o meno tutti i nati negli anni ’70 ricordano per aver battuto Ivan Lendl nel 1989 agli ottavi del Roland Garros, tirandogli pallonetti scambiando da fondo perché bloccato dai crampi, mangiando banane ai cambi campo, servendo da sotto e vincendo dopo aver provocato un doppio fallo di Lendl aspettando la battuta subito dietro la linea di servizio. I coach vecchie glorie hanno dato grande linfa alla stampa specializzata, riaprendo lo scatolone dei ricordi e dando adito a proiezioni del maestro sull’allievo: ecco allora che Murray migliora il dritto e la condizione fisica con Lendl (e ci vince due Slam e una medaglia d’oro olimpica), Djokovic fa qualche serve & volley in più grazie a Becker, Federer ritorna attaccante quasi puro ispirato dalla sublime arte della rete di Edberg, Nishikori impara a soffrire ancora di più grazie al maratoneta Chang, e Cilic cambia il servizio e impara a divertirsi seguendo i consigli di cavallo pazzo Ivanisevic, come veniva chiamato ai suoi tempi.

 

http://youtu.be/T9_smUdMqI4



 

Parlando subito prima di sollevare il trofeo, Cilic ha ringraziato Ivanisevic per averlo convinto a preoccuparsi di meno delle percentuali e delle variabili tattiche, poi dopo ha parlato di come in passato ha sofferto il rispetto che provava per certi avversari. Vedendolo giocare in questo US Open, intoccabile al servizio e impostando gli scambi con dei colpi profondissimi e centrali, togliendo all’avversario gli angoli e la presa sul campo, Cilic è apparso come un giocatore completamente immerso nel gioco e privo di qualsiasi paura. Ivanisevic ha parlato del suo pupillo come una reincarnazione del suo stesso stile, eppure della sua carriera il momento che tutti ricordano è la paura e le preghiere che Ivanisevic rivolgeva al cielo a mani giunte quando nel 2001 ha servito per il match nella finale di Wimbledon contro Pat Rafter, vinta per 9-7 al quinto set e unico major della sua carriera. All’epoca numero 125 del mondo e in tabellone solo grazie a una wild card, in quel game Ivanisevic ha servito tre doppi falli, di cui due su match point, tornava alla linea di fondo agitando il braccio per scioglierlo, chiedeva indietro sempre le stesse palle per scaramanzia, mostrando ogni emozione che provava. Cilic ha seguito il maestro nel fare doppio fallo sul primo match point, ma sul punto successivo ha chiuso il torneo con un rovescio vincente incrociato, mentre Ivanisevic ha vinto quell’ultimo game solo insistendo sul servizio, l’unico colpo dietro cui riusciva a nascondere una parte del terrore che lo stava tramortendo.

 

http://youtu.be/_hECNfj5G_s



 

Ivanisevic è anche ricordato per essere l’unico professionista a aver perso un incontro per “mancanza di adeguata attrezzatura di gioco”, quando nel secondo turno del torneo di Birmingham del 2000

. Per questo non capisco come molti giornalisti abbiano confermato il suo egocentrismo affettuoso verso Cilic descrivendolo come una reincarnazione dell’ex numero 2 del mondo, che a me è sempre sembrato vivere o morire su un margine sottilissimo, splendido giocatore d’attacco ma in fondo sempre potenzialmente suicida e protetto dal suo incredibile servizio. Cilic mi è apparso molto più chiuso in sé anche nella perfezione tennistica che ha raggiunto in questi giorni, un picco che probabilmente non supererà più, e già sarà difficile vederlo confermare questo livello di gioco nei prossimi mesi. Tra poco compirà 26 anni, ed è difficile immaginare che a quell’età sarà in grado di arginare l’appagamento di un risultato così grande e continuare a scavare per riattivare la lucida follia agonistica che ha espresso all’US Open. Oppressi dal dominio del quartetto dei Big Four, è facile dimenticare quanti vincitori di un solo o al massimo due Slam ci sono stati tra gli anni ’90 e i primi 2000. Poiché l’anno è cominciato con l’improbabile vittoria di Stanislas Wawrinka all’Australian Open e gli Slam si sono conclusi con quella di Cilic, c’è una forte tendenza a parlare di un cambio della guardia, ma sembra un ragionamento più dettato da necessità puramente narrative che altro.

 

Anche Kei Nishikori all’US Open è stato indicato come futuro protagonista dei vertici del tennis, e più di Cilic è da anni indicato come campione in potenza: vincitore nel 2007 del suo primo titolo ATP a soli diciotto anni, Nishikori ha poi avuto una carriera a strappi per colpa di una serie di infortuni. Solo quest’anno a Miami a marzo si ritira prima della semifinale per un problema all’inguine, a aprile domina Nadal in finale a Madrid (sulla terra) per un set e mezzo, ma poi lascia per un problema alla schiena all’inizio del terzo set. Emblema dell’atleta votato alla disciplina e al basso profilo nel comportamento in campo, Nishikori, che è un prodotto della scuola di Nick Bollettieri essendosi trasferito in Florida da ragazzino, comincia la carriera annunciando il cosiddetto Project 45, ovvero l’obiettivo di superare la posizione numero 46 raggiunta da Shuzo Matsuoka, il giapponese classificato più in alto di sempre. Ci riesce a ottobre 2011, e a maggio di quest’anno entra nella top 10. Arrivando in semifinale all’US Open tocca vertici sportivi leggendari: diventa il primo giapponese a raggiungere la finale di New York dal 1918, e il primo a raggiungerla in qualsiasi major dal 1933. Quell’anno in semifinale a Wimbledon ci fu un giapponese di nome Jiro Satoh, che l’anno dopo, in viaggio verso l’Inghilterra per un turno di Coppa Davis, si gettò dalla nave nello Stretto di Malacca. Poco prima, durante una sosta a Singapore, aveva detto ai dottori della nave che non si sentiva bene, ma gli fu comunicato che poteva proseguire. “Mi hanno detto che potevo continuare il viaggio”, ha scritto nel

, “ma ho deciso che avrei potuto fare poco per aiutare i miei compagni. Ho chiesto loro di fare del loro meglio per sostenere l’onore del nostro paese. Per quanto non sarò presente con il mio corpo, lo sarò con lo spirito. Giocate come dei veri sportivi, e accettate la sconfitta con lo stesso spirito della vittoria”.

 

http://youtu.be/q097OxObBUU



 

Nessuno ha chiesto a Nishikori se volesse rivolgere un pensiero a Jiro Satoh, eppure il suo gioco ha tanto dello spirito di sacrificio che tormentava il suo predecessore, che in una

, uno dei quattro moschettieri francesi degli anni ’30: il giovane Brugnon sorride, ma Satoh, la schiena rigida e un volto inespressivo, sembra già un uomo di cinquant’anni, logorato dai doveri della vita. Nishikori si è trascinato per il campo in molti momenti con un’analoga sofferenza, provato da un ottavo e un quarto di finale finiti al quinto set per un totale di più di otto ore di gioco, e durante la semifinale contro Djokovic la fatica pregressa e il caldo lo facevano camminare a testa bassa, appoggiandosi mani al muro tra un punto all’altro, respirando faticosamente con la bocca. Ma ogni volta è riuscito a riattivare la sua intelligenza tattica e agonistica, spingendo soprattutto col suo ottimo rovescio, che sia incrociato che lungolinea risulta molto pericoloso quando colpito vicino alla linea. Il gioco di Nishikori, forse anche per i limiti fisici (è 21cm più basso di Cilic) appare più eseguito, pensato, il posizionamento in campo è molto curato e si percepisce la perseveranza con cui sostiene una condizione fisica senza la quale non sarebbe in grado di competere a alti livelli. Come tutti gli atleti non particolarmente dotati naturalmente, Nishikori esprime un continuo pensiero pratico nel suo gioco, una determinazione altissima in ogni momento, pena lo scontro con i propri limiti naturali. A confronto, Cilic sembrava muoversi come un gattone velocissimo, dinoccolato nei colpi che si seguivano in modo fluido, mentre Nishikori prima di colpire sembrava prepararsi ogni volta come per caricare il fucile. Le differenze di condizione si sono poi viste nella finale, dove Cilic ha camminato su quello che era rimasto di Nishikori, che troppo aveva speso per diventare il primo asiatico a giocare la finale di uno Slam.

 

Saranno loro a spartirsi i grandi trofei dei prossimi anni? Finirà il dominio dei consueti trionfatori? Probabilmente nessuna delle due cose, più che altro per una questione di numeri: Djokovic e Murray hanno solo un anno più di Cilic, Nadal due; nel parziale dei punti fatti in questa stagione, i primi tre Djokovic, Federer e Nadal hanno circa duemila punti sul quarto, Wawrinka; per quanto il tema della stagione sia come queste vittorie portano sempre più giocatori a abbandonare la sudditanza psicologica nei confronti dei vertici, l’ostacolo più grande non è tanto battere il numero 1 o 2 in un dato giorno, ma continuare a ritrovare la determinazione per vincere sette partite al meglio di cinque set in due settimane, soprattutto dopo che sei riuscito a farlo una volta, perché vincere

è un desiderio che non tutti riescono a sentire così profondamente. I piani alti della classifica sono pieni di talenti assoluti che soffrono delle loro stesse vittorie, cicale che non riescono a continuare a voler vincere per mesi o anni con la stessa intensità: Ernsts Gulbis è arrivato alla semifinale del Roland Garros ma poi non è riuscito a fare nulla di paragonabile nei mesi successivi, Jo Wilfried Tsonga ha vinto il torneo di Toronto battendo Djokovic, Murray, Grigor Dimitrov e Federer in sequenza, ma poi si è spento all’improvviso. Lo stesso Dimitrov, per quanto ormai stabile in top 10, ancora manifesta delle fragilità tecniche e perde alcune partite che non dovrebbe lasciare, forse condannato a soffrire per quel talento federeriano che ha voluto coltivare e che così poco si presta all’evoluzione del gioco; del Potro ha perso un’altra stagione per una nuova chirurgia al polso, Murray non ha ancora vinto un torneo dopo Wimbledon 2013 e è uscito dalla top 10. Forse quello che accadrà nei prossimi anni sarà una maggiore alternanza, più singoli tornei vinti dall’uno o dall’altro giocatore che trova le sue due settimane della vita. Ma non si dovrebbe cedere alla tentazione di cercare dei predestinati, nel tennis è facile capire se qualcuno lo è oppure no: quasi tutti i grandissimi campioni hanno cominciato a vincere Slam a 20-21 anni, negli ultimi quarant’anni tra i plurivincitori solo Ivan Lendl ha vinto il primo a 24, ma aveva comunque giocato già quattro finali in precedenza. Dopo del Potro, che ha vinto l’US Open a vent’anni, nessun giovanissimo si profila in grado di fare l’impresa che lo rivelerà come futuro dominatore. Piuttosto ci saranno altri episodi di trono vacante come in questo US Open, con tutta una serie di avventori più o meno formiche o più o meno cicale che proveranno a portare via l’argenteria. Come Gael Monfils, che fino al quarto di finale contro Federer ha giocato un torneo eccellente, dove ha dimostrato come il gusto del bello e l’ambizione possono coesistere in un tennis tanto acrobatico quanto naturale. Poi, tra una Coca Cola e l’altra bevute ai cambi campo, e dopo aver avuto (e mancato)

, privo di forze e idee. Qualche giorno prima, durante il suo secondo turno, Monfils aveva giocato un dritto in salto folle, il colpo del torneo: dopo aver vinto il punto fa un gesto circolare con la mano e sorride, e si capisce come per lui

, per quanto potrà togliergli vittorie o regolarità di rendimento. Molti tennisti passano una vita intera a sviluppare la giusta velocità di crociera, la calibrazione perfetta del funzionamento medio del loro apparato tecnico; Monfils invece continua a spingere tutti i bottoni del cruscotto, per vedere l’effetto che fa.

 

http://youtu.be/0pq3c9jO108


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