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Giovanni Fontana
Il Tour degli altri
03 ago 2015
03 ago 2015
Per i big le cose sono andate come previsto, ma dentro al Tour ci sono tante altre storie.
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Giovanni Fontana
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Il fatto che a questo Tour le cose siano andate

vuol dire che, per tanti, è stato un Tour noioso. Nonostante un bel percorso, nonostante la splendida vittoria di Nibali a La Toussuire. Froome ha dimostrato di essere il più forte dal primo giorno, poi nelle ultime salite è venuto fuori Quintana, come due anni fa. Valverde, terzo, ha confermato di essere il più continuo, prendendosi il primo podio al Tour che due anni fa gli era stato tolto da una caduta. Contador era troppo appesantito dal Giro d’Italia e probabilmente l’età lo rende non più in grado di vincere un Tour de France. Nibali, purtroppo, è tornato a essere il corridore che si limita a singole vittorie. Arrivato al Tour probabilmente sbagliando il picco di condizione, si è ritrovato a essere competitivo soltanto nell’ultima settimana, quando l’appiattimento dato dalla stanchezza generale gli ha permesso di esaltare le sue doti di recupero, che comunque non gli sono bastate ad arrivare sul podio. Certo, per un tifoso è meglio un Tour da Nibali che dieci da Valverde.

 

Quand’è così, sui big c’è poco da raccontare. Dentro al Tour, però, ci sono un sacco di altre storie.

 





Tony Martin è uno di quei corridori che deve maledire il fatto che il ciclismo sia uno sport di squadra. Se ciascuno corresse per sé, se gli scalatori non avessero a disposizione una squadra che li accompagna in pianura, i passisti come lui potrebbero dare minuti e minuti a tutti gli altri. Certo, sarebbe un altro sport, ma uno sport nel quale Tony Martin può vincere il Tour de France. Invece, in questo sport, Tony Martin può al massimo aspirare a vincere qualche tappa: le cronometro, che sono suo quasi-monopolio da ormai cinque anni; qualche tappa a fine giro, quando le squadre dei velocisti non hanno più la forza di tenere il gruppo. Un tempo i corridori come lui avevano anche un’altra possibilità: indossare la maglia gialla, per diversi giorni, vincendo la crono (o il cronoprologo) della prima tappa e mantenerla fino alle salite.

 

Dal 1967 al 2010, con una sola eccezione, la prima tappa è sempre stata una cronometro individuale. Martin diventa il più forte cronoman in circolazione nel 2011: vince il campionato mondiale di specialità per tre anni di fila e domina le crono al Tour de France. Nel 2011, nel 2013 e nel 2014 Martin vince la prima crono del Tour, ma non c’è il prologo, e non indossa la maglia gialla. Nel 2012 c’è il prologo a cronometro, ma Martin – grande favorito – fora e non vince. È la sua maledizione, non riuscire a indossare la maglia gialla. Per intendersi, Cancellara, che era stato il migliore cronoman al mondo negli anni precedenti a quelli di Martin (è di soli 4 anni più anziano), l’ha indossata per 39 volte. L’annuncio, per il Tour 2015, di un percorso con una crono iniziale rende scontati gli

di Martin per la stagione: «Quest’anno ho la rara occasione di provare a indossare la maglia gialla al primo giorno di corsa. Questo è in cima alle mie priorità per il 2015».

 

Il tracciato è perfetto per lui, completamente piano, e un po’ più lungo del classico prologo nel quale può inserirsi anche qualche velocista o corridore da pista. Martin fa il miglior tempo della storia di una crono al Tour de France, ma Rohan Dennis, che non aveva mai fatto meglio di lui, lo batte per 5 secondi. Martin è secondo e perde la sua occasione per la maglia gialla.

 

Alla seconda tappa Dennis rimane attardato, Martin è maglia gialla virtuale e rimane con i migliori. Lancia lo sprint al suo compagno di squadra Cavendish, che però anticipa troppo la volata. Cavendish viene superato da Greipel e da Sagan e si rialza: così facendo si fa superare anche Cancellara, che guadagna l’abbuono per il terzo posto e la maglia gialla, sfilandola a Martin per tre secondi. Alla terza tappa cade Cancellara, Martin è nuovamente maglia gialla virtuale. Sulla salita finale va via Rodriguez, Froome riesce a recuperarlo e a classificarsi con lo stesso tempo. Con l’abbuono per il secondo posto guadagna 46 secondi su Martin, e lo scavalca in classifica per un solo secondo. Ancora una volta, per il terzo giorno di fila, per qualche misero secondo Martin non indossa la maglia gialla.

 

La tappa successiva presenta dei tratti in pavé, terreno sul quale Martin è tutt’altro che esperto, non corre le classiche del pavé (come la Parigi-Roubaix o il Giro delle Fiandre) e lo scorso anno è caduto e si è ritirato prima di terminare il primo tratto. Invece stavolta Martin riesce a stare col gruppo dei migliori. A 20 km dall’arrivo fora e, per non perdere tempo, Matteo Trentin, suo compagno di squadra, gli cede la bici. Trentin dirà di aver fatto fatica ad arrivare al traguardo con la bici di Martin, di dimensioni così diverse dalla sua (

un video del momento in cui comunicavano a Trentin che Martin aveva vinto la tappa e lui commentava «with my bike!!!», ma youtube l'ha tirato giù). Invece Martin rientra con i migliori e a 4 km dall’arrivo sferra l’attacco definitivo. Gli altri non riescono a rientrare, e Martin ottiene la sua prima maglia gialla.

 

Ma la bici di Trentin non è l'unico prestito che ha contribuito alla vittoria di Martin. Diverse settimane prima era andato in Belgio per allenarsi sull'acciottolato e provare a fare meglio dell'anno scorso. Una volta in strada aveva però scoperto di essersi dimenticato di mettere in valigia i pantaloncini da ciclista, col rischio di dover buttare il giorno di allenamento. Allora, dato che le Fiandre sono terra di biciclette, dall'ammiraglia della squadra hanno cominciato a chiedere in giro passanti se qualcuno ne avesse un paio in più. Dirk Vancaenegem, un passante con un nome straordinariamente da ciclista, ce l'aveva e della perfetta misura di Martin. Qualche settimana dopo Vancaenegem

i suoi pantaloni indietro, assieme a una maglia firmata, un biglietto di ringraziamento e la consapevolezza di aver aiutato un grande corridore a vestire la sua prima maglia gialla.

 


Martin indosserà la maglia per tre giorni, salvo poi cadere e rompersi la clavicola. Questo il sofferente, e vano, tentativo dei compagni di spingerlo fino all’arrivo – Martin non può appoggiare il braccio sinistro sul manubrio – per fargli conservare la maglia. Il giorno dopo Froome rifiuterà di indossare la maglia gialla per rispetto, e riconoscimento, alla sfortuna di Martin.


 




Il giorno in cui Martin è caduto e si è ritirato in maglia gialla è stato il giorno in cui l’eritreo Daniel Teklehaimanot, primo corridore africano della storia a farlo, ha indossato la maglia a pois, quella per il miglior scalatore. L’Eritrea è una nazione completamente priva di storia ciclistica: il Giro dell’Eritrea, fondato dalla comunità italiana nel 46 e poi interrotto, è stato ripreso soltanto nel 2001. Wikipedia lista solo cinque ciclisti nella storia dell’Eritrea, tutti attualmente in attività. Quattro di questi corrono per la MTN-Qhubeka, e due di questi hanno preso parte al Tour: Teklehaimanot e Kudus, i primi corridori africani neri a concluderlo. Eppure, come scrive l’Economist, «chiunque sia stato in Eritrea sa che il ciclismo è, ufficiosamente, la quinta religione di Stato».


Anche al Giro del Delfinato Teklehaimanot aveva puntato alla maglia degli scalatori, tenuta dal primo all’ultimo giorno di corsa. Con l’obiettivo di indossarla per almeno un giorno si è presentato al Tour. Nella fuga giusta alla sesta tappa, ha tagliato per primo tutti i gran premi della montagna di giornata e conquistato la maglia a pois, che poi ha mantenuto per quattro giorni, generando curiosità e attenzione. Negli stessi giorni, uno degli altri cinque eritrei

un insulto razzista al Giro d’Austria per cui l’autore veniva costretto a devolvere un mese di stipendio alla fondazione della MTN-Qhubeka. Sono le conseguenze della mondializzazione di uno degli sport più tradizionalmente “bianchi”. Hinault

che loro – quelli della MTN-Qhubeka – potrebbero essere “i prossimi colombiani”, cioè una generazione di corridori di nazioni storicamente digiune di storia ciclistica che si impone, all’improvviso e tutta assieme, come  era capitato negli anni 80 e 90 con i colombiani. Intanto, al ritorno in patria, i due eritrei del Tour

da Mercedes dipinte a pois (reminder: Teklehaimanot non ha vinto la maglia a pois, l'ha solo tenuta per quattro giorni) seguite da colonne di folla che li scortavano dentro uno stadio riempito per loro.

 

La MTN-Qhubeka, prima squadra africana al Tour, è anche l’unica squadra continental ad aver vinto una tappa, la 14°. Il circuito continental è una sorta di serie b del ciclismo: esistono 17 squadre world tour, che partecipano automaticamente al Tour de France, e 5 wild card, cioè squadre di livello più basso – continentale, appunto – che vengono invitate a discrezione dell’organizzazione. Queste squadre puntano spesso a fare bella figura in qualche giornata, magari inserendo dei corridori nelle fughe e sperando che vada bene. Quasi sempre va male. Serge Pauwels, un corridore della MTN-Qhubeka, è stato in fuga per 17 ore, 19 minuti e 20 secondi in tutto il Tour. Non ha mai vinto una tappa, ma il tempo che ha guadagnato gli è valso un dignitosissimo 13° posto in classifica generale che difficilmente riuscirà a eguagliare nei prossimi anni.

Il suo compagno di squadra Steven Cummings, invece, ha vinto la propria tappa nel modo migliore, cioè

. In fuga da inizio giornata assieme alle due promesse Pinot e Bardet (3° e 6° l’anno scorso), sulla salita finale si è fatto staccare dai due, scalatori molto più forti e a quel punto favoritissimi per il successo. Quando, però, Pinot e Bardet si sono convinti che la vittoria era una questione a due, e si sono messi a studiarsi per tentare di risparmiare le energie, Cummings è rientrato a tutta («

di non essere il più forte scalatore, sono stato calmo e ho fatto la mia cronometro») e li ha superati prima del traguardo. Alla Moreno Argentin,

.

 


Nella salita finale hanno staccato tutti i compagni di fuga, ma giocare al gatto col topo li ha messi nei casini: i capitani della Ag2r e della FDJ l’hanno persa entrambi. Steve Cummings è rientrato da dietro e gli ha dato una lezione tattica», dice, con spiccato accento francese, la voce del canale ufficiale del Tour.




 





Il 2015 è stato un anno di lacrime. Il momento più bello del Giro d’Italia erano state le lacrime di Mikel Landa. Al Tour de France sono state le lacrime di Simon Geschke. Poche cose uniscono i tifosi di ciclismo, spesso divisi da rivalità, come il pianto infantile di un essere umano che ha appena fatto 200km a 50 allora o giù di lì. Landa era il gregario di Fabio Aru, il corridore per cui tutti gli italiani tifavano al Giro d’Italia. In certe salite si è dimostrato anche più in forma del suo capitano, ma la squadra gli chiedeva di non forzare e cercare di dare una mano ad Aru. L’obiettivo era quello di insidiare Contador, ma la strategia non ha molto funzionato. Così Landa ha cominciato ad avere più libertà e questo gli ha permesso di vincere due tappe.

 

Alla penultima Landa si è nuovamente trovato in fuga, davanti agli altri. Poteva sicuramente vincere la tappa, e probabilmente scalzare Aru al secondo posto finale. Ma, di nuovo, la squadra gli ha chiesto di gettare il suo successo per aiutare Aru. Lui ha obbedito e si è fermato, poi ha dato tutto per far vincere Aru (che poi ha vinto) e si è staccato. Quand’è così è difficile non essere solidali con il gregario, che

di vincere: talvolta, in questi casi, le gerarchie saltano, perché il corridore cui viene chiesto di rinunciare non dà retta e fa di testa propria. Più spesso dà retta a malincuore, poi arrivato al traguardo fa capire in tutti i modi la sua stizza, la sua rabbia. Landa, invece, ha fatto il suo lavoro, ha rinunciato alla sua vittoria e al secondo posto finale senza lamentarsi. Poi, quando è stato intervistato,

con molto candore «a me piace vincere, quando ti fermano per lavorare non è la migliore cosa», senza un tono di polemica, solo con la voce rotta dal dispiacere. Dispiacere che si è trasformato in lacrime quando l’intervista si è conclusa con un abbraccio di sostegno dell’intervistatore.

 

Geschke, come Pauwels, è uno di quelli che provavano sempre a entrare nella fuga giusta. Alla 16° tappa era arrivato quarto. Alla tappa successiva era di nuovo in fuga: quella buona, con una ventina di corridori e il margine giusto per battere gli uomini di classifica. A quasi 50 km dall’arrivo decide, mossa spericolata, di andare da solo e lasciare tutti dietro, sperando di anticipare i più forti scalatori della fuga. Questi provano a recuperarlo, ma finiscono per arrendersi. Arriva al traguardo

, dimenticandosi di tirare su la cerniera della maglia, cioè la prima cosa che insegnano a un ciclista quando mette il sedere sopra a una sella (ci si tira su la cerniera per mostrare gli sponsor nella foto sul traguardo). Poi va alle interviste e si presenta con

, senza essere in grado di collegare due frasi: «non era nei piani… di mettersi a piangere in diretta tv, ma… non riesco a non farlo… non vinco… – qui è chiaro che dentro di sé sta continuando la frase con “mai un cazzo”, poi scarta di lato e ricomincia la frase – …ho vinto solo tre corse in carriera… e vincere al Tour è… era ciò che sognavo da 15 anni… e…», poi giù altri lacrimoni, che impediscono all’intervista di continuare.

 

C’è il tifo e c’è la simpatia. Ci sono i corridori per i quali tifiamo, e ciascuno ha i proprî. Poi c’è un albo particolare, quello dei corridori che – per una ragione o per l’altra –

. Possono aver fatto un’impresa speciale, più spesso non essere riusciti a farla. Possono anche essere dei corridori forti, come Landa, che rischiano di poter competere per un grande giro. Più spesso sono attaccanti di giornata, come Geschke, e ci si affeziona al loro nome e si finisce per avere qualcuno da tifare anche nelle fasi meno concitate della corsa. La simpatia trasversale per i corridori che fanno parte di questo gruppo è una delle cose più caratteristiche dei tifosi di ciclismo. E, con le loro lacrime, Landa e Geschke sono entrati chiaramente in questa bacheca mentale condivisa. È chiaro: continueremo a tifare per i nostri ciclisti preferiti, ma un po’ di tifo cercheremo di conservarlo anche per loro.

 


Con questa barba da hipster, questa faccia molto puccy rigata dal pianto, non si capisce perché questa intervista non abbia ancora sbancato l’internet.


 

Una nota finale: ci sono state delle altre lacrime al Tour de France,

di commozione di Contador nella conferenza stampa nella quale Ivan Basso annunciava il proprio ritiro dalla corsa per la scoperta di un cancro ai testicoli. Basso ha lasciato il Tour, è stato operato e l’operazione è

bene.

 

 

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