«Reagire contro la subordinazione dell’individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia»
Simone Weil
Non si ricorre ad un’iperbole nel dire che è impossibile diventare calciatori professionisti a Cuba. Fidel Castro, che pure con le sue riforme ha dato lustro alla rivoluzione da un punto di vista sportivo (Cuba è di gran lunga il paese latinoamericano che ha vinto più medaglie olimpiche ed è seconda per medaglie d’oro nel continente americano solo agli Stati Uniti), ha infatti proibito fin da subito il professionismo, promuovendo una diffusione capillare, popolare delle pratiche sportive senza che nessuno ci si potesse arricchire.
Se questo approccio ha funzionato con quegli sport con una propria tradizione nazionale (come il judo), quelli amati dal Lider Maximo (come il baseball) e quelli in cui l’amatorialismo ha ancora un suo senso (come la boxe), lo stesso non si può certo dire per il calcio, che ha quasi da subito tracciato una linea di demarcazione estremamente netta tra professionismo e competizioni amatoriali.
Sull’isola caraibica non esistono club di alto livello, le partite si giocano principalmente negli stadi di baseball e la nazionale non gioca un Mondiale dal 1938. Fino a poco tempo fa, per la verità, non esisteva nemmeno la possibilità di vedere il calcio europeo, sudamericano o statunitense, con la televisione monopolizzata dal béisbol e internet di fatto inesistente per la stragrande maggioranza della popolazione.
In un contesto come questo, è un miracolo anche solo che nasca, ben prima che si realizzi, l’aspirazione a diventare un calciatore professionista. E questa è solo la prima tara della straordinarietà della storia di Osvaldo Alonso.
Arrivare lontani
Osvaldo Alonso è nato e cresciuto a San Cristobal, circa 95 chilometri a ovest dell’Avana. «Una vita semplice: andavo a scuola, giocavo a calcio, stavo con la mia famiglia, i miei amici», come la racconta Alonso «Non avevamo molte opportunità per giocare a calcio, ma per strada, con i miei amici, provavamo sempre a giocare con una palla e due pietre. Siamo cresciuti così, a poco a poco, fino a dove sono adesso».
Se in una situazione simile è voluto diventare un calciatore è perché suo padre a sua volta era un calciatore. Quasi tutti abbiamo una storia che in qualche modo lega la passione per il calcio a nostro padre, ma quella di Alonso è probabilmente la più viscerale che abbia mai sentito: «Quando sono cresciuto, mi portava sempre a giocare al parco con lui. E questo è il motivo per cui sono diventato un calciatore». Forse è in una di queste partitelle che gli dice una frase che cambierà letteralmente il corso della sua vita: «Qualunque cosa tu voglia fare falla, non importa ciò che succede».
E allora Alonso fa quello che gli dice suo padre e diventa un calciatore. Cresce nel Pinar del Rio, il club dell’omonima città, fino ad arrivare in nazionale maggiore, dopo essere stato capitano dell’Under21. Con la maglietta di Cuba gioca la Carribean Cup e una manciata di amichevoli, segnando anche due gol.
A ventun anni ha già raggiunto tutto ciò che il suo paese ha da offrirgli: «Sapevo di essere arrivato in Nazionale, di aver raggiunto il massimo che avrei potuto ottenere a Cuba. Non avevo più obiettivi. Semplicemente, volevo cercare qualcosa di professionale per svilupparmi come calciatore e ho preso la decisione di venire a giocare negli Stati Uniti». Ma nel 2007 le relazioni tra Cuba e Stati Uniti sono ancora rigide, molto rigide, e gli atleti cubani non hanno ancora la possibilità di trasferirsi all’estero come oggi.
In quell’anno la nazionale cubana va negli Stati Uniti per partecipare alla Gold Cup, il torneo della CONCACAF per le nazionali di Nord America, Centro America e Caraibi. Quando mette piede su suolo americano, Alonso ha già deciso che quello sarà un viaggio di sola andata.
Dopo la seconda partita del girone, a Houston, in cui l’Honduras umilia Cuba per 5-0 permettendosi anche di chiudere le marcature con un giocatore di nome Guevara, alla nazionale caraibica viene lasciato un giorno di svago, che i giocatori utilizzano per fare shopping. Siamo in un Walmart, uno dei simboli del capitalismo statunitense, e Alonso, con appena 700 dollari nello zaino, sta per dare il via alla più americana delle ricerche, quella della felicità.
«Avevo un piccolo piano ma il rischio era alto», ricorda Alonso «Devi essere consapevole di tutto ciò che ti succede intorno. Così, mentre facevano shopping, ho colto l’opportunità e sono uscito: ero molto scosso, spaventato». Il centrocampista cubano non sa una parola di inglese e non ha un cellulare. Si allontana dal Walmart per qualche block con quel misto di eccitazione e paura di chi ha appena fatto un salto nel vuoto, finché non incontra un uomo che gli sembra ispanico. Gli chiede se parla spagnolo, se può usare il suo cellulare per fare una chiamata. Poche ore dopo è su un bus per Miami.
In casi come questi si usa di solito un termine militare: diserzione. Ma non c’è rivendicazione politica, o sociale, nella decisione di girare le spalle alla nazionale cubana, solo la voglia di inseguire i propri desideri, The American Dream. «Il giorno in cui sono diventato cittadino statunitense [il 19 giugno del 2012, nda] saltavo dalla felicità», ha detto Alonso «Mi sembrava che tutte le porte fossero finalmente aperte, che tutto fosse possibile. Amerò sempre Cuba, e sono stato orgoglioso di rappresentare il mio paese, ma questa è casa mia adesso e se riuscirò mai a indossare la maglietta degli Stati Uniti, quello sarà un giorno emozionante».
Alonso non si lascia dietro solo la Nazionale cubana ma anche la sua famiglia, e lo fa in maniera molto dolorosa. Per diminuire al minimo i rischi di essere scoperto non ha avvertito nessuno della sua scelta, tanto meno suo padre.
Quando racconta di quei momenti, Alonso guarda in basso e singhiozza, come un bambino che sta per ammettere qualcosa che non avrebbe dovuto fare: «L’ho comunicato ai miei familiari solo quando sono rimasto in questo paese. Fu difficile chiamare mio padre e dirgli ciò che avevo fatto. Fu un momento molto duro per tutti e due, non voleva crederci». In quel momento la possibilità che non riveda mai più suo padre è molto concreta: «È stato molto difficile venire qua sapendo che lui rimaneva lì».
Da zero
Negli Stati Uniti la carriera di Alonso riparte da zero. La MLS non è il campionato cubano, ovviamente, ma è ancora una lega pionieristica, senza la visibilità internazionale di oggi. È proprio nel 2007 che viene introdotta la designated players rule, la norma che permette ai Galaxy di portare Beckham negli Stati Uniti. E quattro mesi dopo l’arrivo di Alonso, a Seattle, calcisticamente la più europea delle città americane, rinascono dalle proprie ceneri i Sounders.
Alonso fa prima un provino con il Chivas, che gli offre anche un contratto, ma alla fine sorprendentemente opta per i Charleston Battery, un piccolo club in Sud Carolina che milita nell’USL First Division, fino al 2010 la Serie B americana, se così si può dire. Lo fa probabilmente per giocare subito da titolare, senza dover pagare troppo il prezzo di aver ricominciato da capo. E infatti si impone fin da subito: a fine stagione viene eletto MVP della squadra e rookie dell’intera lega.
I Sounders, che stanno mettendo su la squadra per la loro prima stagione in MLS, lo notano e lo mettono sotto contratto. A Seattle nessuno si aspetta che la storia che stanno cercando di importare dall’Europa con l’acquisto Freddie Ljungberg possa venire proprio da lui.
Il 20 marzo del 2009, poco meno di due anni dopo essere uscito da quel Walmart e poco più di due mesi dopo dal primo insediamento di Obama alla Casa Bianca, Alonso fa il suo debutto in MLS, da titolare alla prima partita disponibile con la maglietta smeraldo della squadra di Seattle, che a sua volta fa il suo debutto nel campionato americano. «Camminare nel tunnel, vedere la folla che grida ‘Seattle Sounders!’ è stato incredibile: quello è stato il momento più bello negli Stati Uniti per me», dice Alonso.
I suoi tifosi, nel trovargli un soprannome, rimangono abbagliati dalla sua maestria nel recuperare il pallone, dalla voglia di far suo ciò che non è ancora suo. L’hanno rinominato The Honey Badger, cioè tasso del miele, un animale molto aggressivo che a detta di Wikipedia «ha una corporatura estremamente robusta e muscolosa, che gli consente di confrontarsi con animali di taglie molto più grandi». L’eleganza nel muoversi tra gli avversari come in un valzer, la fine intelligenza nel tempismo degli interventi, l’educazione del piede nel trattare la palla, sono tutte qualità meno vistose ma che allo stesso modo lo affermano come uno dei migliori centrocampisti della lega.
Nel 2012 viene inserito nell’All Star Team della MLS (è il migliore in campo nell’All Star Game perso per 3-2 contro il Chelsea) e viene nominato MVP della squadra per il terzo anno di fila. In questo periodo Klinsmann prova a convocarlo negli Stati Uniti, ma le autorità cubane non concederanno mai l’autorizzazione necessaria per un giocatore che ha già rappresentato un’altra nazionale in competizioni ufficiali.
Ma la sua forza di volontà sembra poter vincere qualunque cosa: il pallone dai piedi dell’avversario, la titolarità in una delle squadre più importanti di MLS, la cittadinanza americana, la famiglia, le relazioni diplomatiche tra Cuba e Stati Uniti.
Cambiare il corso della storia
Il 16 gennaio del 2015 succede qualcosa di imponderabile fino a solo pochi anni fa: l’amministrazione Obama rilassa le restrizioni sui viaggi dei cittadini americani a Cuba, e le nubi tra l’Avana e Washington iniziano a diradarsi. In estate le ambasciate dei due paesi vengono riaperte e questo, che sui giornali si trasforma in titoli altisonanti da fine di un’epoca, per Alonso significa sostanzialmente una cosa: poter rivedere suo padre.
A settembre Alonso annuncia che suo padre ha finalmente ottenuto il visto per viaggiare legalmente negli Stati Uniti. Il 4 ottobre scende in campo per una partita contro i Galaxy e se lo ritrova sugli spalti del Centurylink Field a guidare il tifo organizzato dei Seattle Sounders. Ha la maglietta smeraldo e la sciarpa tesa verso la curva, sulle spalle il numero 8 con il nome Alonso. Sta tifando per suo figlio: «Ho sempre voluto che lui giocasse a calcio. Ma adesso non lo vedo solo giocare a calcio, adesso è un calciatore». Accanto ad Alonso, nello stesso campo di calcio, ci sono Clint Dempsey, Robbie Keane, Steven Gerrard, Obafemi Martins e Giovani dos Santos.
Rientrerebbe a pieno titolo tra i titolari di una delle due nazionali nella storica amichevole tra Cuba e Stati Uniti che pochi giorni dopo si gioca all’Avana, la prima su suolo cubano dopo quasi settant’anni. In campo, con la maglia della nazionale cubana, c’è invece Maykel Reyes, il primo giocatore cubano ad aver avuto il permesso dal partito per giocare all’estero, in Messico.
«Volevo continuare a giocare per la nazionale cubana», dice Alonso con un’ombra di rimorso «Ma il modo in cui me ne sono andato fa sì che non sia possibile. Avevo la speranza di essere convocato, ma non è mai successo. Rimango con la voglia di giocare questa partita».
Alla fine di quella stagione, a dicembre, Osvaldo Alonso torna a Cuba da cittadino americano con la sua famiglia e vede tanti bambini cubani giocare a calcio per strada: «Le cose sono cambiate molto. E questo un bene per il calcio sull’isola». Mi piace pensare che il merito sia il suo.
Non è ancora finita
Quando Alonso torna negli Stati Uniti, a Seattle c’è clima di smobilitazione. Il 2015 per la squadra, con l’eliminazione ai quarti dei playoff della MLS Cup contro Dallas, è stato un mezzo fallimento. Lo stesso Alonso, d’altra parte, superata la soglia dei trent’anni, sembra essere sulla via del tramonto, ora che ha raggiunto tutto ciò che da bambino poteva solo sognare. A inizio anno ha anche avuto un brutto infortunio muscolare e per problemi fisici ha saltato una buona fetta della stagione. Qualcuno lo vede addirittura lontano da Seattle.
Il 2016 inizia male, oltre ogni più pessimistica previsione. I Sounders raccolgono tre sconfitte e un pareggio nelle prime cinque partite di MLS. Il problema è che continua persino peggio. Il 24 luglio, dopo aver perso 3-0 con Kansas City sfiorando l’apocalittico record di essere la prima squadra a non tirare nemmeno una volta in una partita di MLS, lo storico allenatore Sigi Schmid, fino a quel momento il primo e unico tecnico dei Sounders, si dimette in accordo col club. Seattle ha vinto solo sei volte in 20 giornate, è penultimo in classifica a undici punti dalla zona playoff e mancano appena 14 giornate alla fine della stagione.
Sembra davvero la fine di un ciclo storico. Anche se con il nuovo allenatore Brian Schmetzer e l’acquisto di Lodeiro i risultati migliorano istantaneamente, infatti, a fine agosto viene diagnosticata una grave aritmia cardiaca al monumento nazionale su cui si era appoggiata fino a quel momento la mistica del club: Clint Dempsey. Il 27 settembre il club annuncia che non giocherà più per il resto della stagione e contemporaneamente anche il capitano della squadra, Brad Evans, si infortuna. Alonso, per attrazione carismatica, diventa capitano della squadra.
Ma la fascia di capitano non è un Oscar alla carriera. È il culmine di una delle sue stagioni migliori, impreziosita da tre gol e tre assist. Ai suoi iconici recuperi palla in scivolata, il centrocampista cubano abbina ormai una gestione del possesso semplice ma tranquilla, razionale anche sotto pressione. In MLS è primo per numero di passaggi completati, con un’accuratezza eccellente del 91%.
Con Alonso capitano, i Sounders risalgono velocemente la classifica. Vincono cinque delle ultime sette giornate e riescono a qualificarsi ai playoff all’ultima partita della Regular Season, con una tiratissima vittoria per 2-1 su Salt Lake. Un climax emotivo che lo vede crescere in importanza tecnica e carismatica all’interno della squadra come una mongolfiera che spicca il volo, al punto che si permette di interrompere il discorso finale di Schmetzer alla squadra per dire una frase semplice, ma non banale, che diventa immediatamente un motto: “We’re not finished yet”.
Ormai è il giocatore più importante della squadra, in tutti i sensi. Quando Evans torna in campo, la fascia di capitano rimane saldamente attaccata al braccio di Alonso.
I playoff sembrano scritti da Quentin Tarantino. I Sounders eliminano prima Kansas City, cioè la squadra che aveva segnato il momento più buio della stagione. Poi Dallas, che li aveva dolorosamente eliminati l’anno prima, sempre ai quarti. Infine Colorado, che in Regular Season li aveva staccati di 10 punti.
Il 27 novembre Osvaldo è uno dei calciatori più importanti della MLS, capitano di una delle più importanti e seguite squadre degli Stati Uniti. Sta alzando la coppa di Western Conference due giorni dopo che Fidel Castro ha smesso di esistere.
Domenica c’è la finale di MLS Cup e i Sounders possono vincerla per la prima volta. Non è ancora finita.