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Il serpente piumato
15 apr 2016
15 apr 2016
André-Pierre Gignac ha trovato la gloria in Messico.
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Nella complessa mitografia azteca, quella di Quetzalcoatl è una figura molto ambigua. Siede su uno degli scranni più autorevoli del gotha mesoamericano, ma ha personificazioni e un corredo mitico non sempre univoco, né coerente con se stesso. È il serpente piumato, il dio dell’alba, del vento, dei mestieri e della conoscenza. Conserva in sé i crismi della purezza e della virtù, ma non è necessariamente un dio

. Neppure

: al contrario, spesso è raffigurato vittima delle proprie incertezze, titubanze, di una fallibilità assai

.

 

Solo Montezuma ne era intimorito, forse in quella maniera in cui anche la semplicità, l’ingenuità, o il potenziale nascosto ci spaventano: quando il conquistador spagnolo

sbarcò in Messico, Montezuma lo scambiò per Quetzalcoatl che tornava al mondo per esprimere il suo giudizio finale. Cortés, in comune con il Serpente Piumato, o con le raffigurazioni che i sacerdoti hanno inscritto nelle pietre, aveva l’incarnato chiaro, i capelli e la barba biondi.

 

Se volessimo paragonare André-Pierre Gignac a qualcuno, potremmo avvicinarlo a Cortés, al suo ruolo di

moderno e senza scrupoli, ma finiremmo per raccontare solo in parte la storia del calciatore. «Cosa significa per noi? Per noi Gignac è un dio», racconta un tifoso dei Tigres in un reportage uscito di recente su France Football.

 

Una delle personificazioni di Quetzalcoatl è Ehēcatl, il dio del vento che secondo la leggenda si innamorò a tal punto di un’umana, un’entità così più in basso di lui, che decise di donare al genere umano la capacità di amare. Solo per essere ricambiato.

 

https://youtu.be/Dm8AM3T9kuk?t=31

 



È il tredici novembre del duemilaquindici. Stade de France, a Saint-Denis. A quattro minuti dal novantesimo, con i Bleus già in vantaggio per una rete a zero, Coman addomestica con difficoltà un passaggio sulla trequarti, e con una torsione riesce a verticalizzare per Blaise Matuidi. La mezzala affonda sulla fascia sinistra, scappando via a Mustafi, e dipinge un cross che termina la sua parabola proprio al centro dell’area, dove nel cono d’ombra alle spalle di Hummels, pronto, puntuale come ci si aspetta sia puntuale un centravanti, si materializza, più che glorioso come il Serpente Piumato imperioso come una piramide Teotihuacan avvolta dalla bruma alle prime luci dell’alba, André-Pierre Gignac.

 

L’incornata si insacca alla destra di Manuel Neuer, che rimane piantato sui suoi piedi. Quel gol, di fatto, chiude una partita il cui risultato, a distanza di mesi, nessuno ricorderà, o avrà voglia o motivo di ricordare. L’amichevole tra Francia e Germania del 13 novembre 2015 rimarrà indelebile nelle nostre memorie come la partita degli attacchi terroristici allo Stade de France, non come il match in cui Gignac è tornato a segnare in Nazionale, a un anno di distanza dal gol contro l’Armenia a Yerevan.

 

Vincent Deluc, giornalista francese che era presente allo stadio e che ha stilato un resoconto di quella partita per l’Independent, ha scritto che l’immagine di Gignac che esulta, per un attimo, gli ha ricordato quella di Platini all’Heysel. Anche se Gignac non poteva sapere ciò che stava succedendo, perché nessuno in campo - e pochi anche sugli spalti - sapevano cosa stesse

accadendo fuori dal prato di gioco, poche centinaia di metri lontano dagli spalti, nel quartiere di Saint-Denis, nell’intera città di Parigi. André-Pierre Gignac, in quel momento, come scrive Duluc, «aveva il diritto di essere felice».

 

Il fotogramma che meglio immortala la sublimazione del suo entusiasmo, del suo sentimento di rivalsa, della sua

, in una parola, è quello che lo ritrae con le mani giunte in una posa innaturale, difficile da interpretare in una maniera che nell’immediato non confondesse.

 



 

Le dita di entrambe le mani disegnano una figura che ricorda le pistole puntate verso l’alto, l’indice e il medio della mano destra poggiati sul pollice della sinistra, come chi sta caricando il grilletto. O almeno così

Ma non c’è nessun sentore di violenza in Gignac, che in realtà stava mimando con le mani le due “L” di

, il nome della frangia più affezionata della tifoseria dei Tigres, la squadra messicana per la quale a sorpresa Gignac ha deciso di firmare lo scorso giugno. Sono la testimonianza di un amore che, per osmosi, parte dal vertice della divinità e si proffonde fino alla base dei fedeli, di chi lo adora.

 

Credo sia la prima volta in assoluto che un nazionale europeo omaggi una tifoseria distante diecimila chilometri, al di là dell’Oceano. Forse perché per la prima volta quella tifoseria è

per un nazionale europeo.

 



A novembre, quando si gioca quell’amichevole, Gignac ha già disputato 14 gare con i Tigres de Monterrey, mettendo a segno 11 reti. Ingaggiato come punta di diamante di un mercato faraonico, ha già trascinato

alla finale di Libertadores – persa però contro il River Plate – segnando al suo esordio internazionale, in Brasile, nella semifinale contro l’Internacional de Porto Alegre.

 

https://www.youtube.com/watch?v=vjMGnJXRYos

Play-by-play dell'esordio di Gignac in Libertadores.


 

La convocazione di Gignac per i “Galletti” è stata una mezza sorpresa per tutti. Eccezion fatta, forse, per il solo Gignac. Ci si può affidare, per puntare alla vittoria del torneo continentale, che per di più si giocherà tra le mura amiche, a un calciatore che ha scelto di abbandonare la Francia, addirittura l’Europa? Gli si possono consegnare le chiavi dell’attacco? È ancora credibile?

 

La risposta risiede nelle alternative, perlopiù in quelle mancate. Con Benzema

per ragioni etiche (legate alla storia del sextape di Vlabuena) e un Giroud reduce da un’astinenza durata per 12 giornate, non mi sembra che a Deschamps restino molti altri centravanti puri a disposizione.

 

È così che Gignac finisce per essere, anche se la sua quotidianità è dall’altra parte dell’Oceano, l’uomo giusto al momento giusto.

 

«Il campionato messicano è sottovalutato. Però dopo aver giocato la Libertadores, dopo essere arrivato in finale, ci sono tutti i presupposti per trovarmi qua, no?». Gignac, al momento di modellare in maniera così

il suo futuro, non si era fatto troppe illusioni. «Nella mia testa mi ero detto: c’è un 95% di possibilità che debba scordarti dei Bleus». Sapeva che scegliere il Messico a 30 anni avrebbe significato, per molti versi, autoesiliarsi: era esattamente ciò che cercava. Ma un esilio

, non

.

 

http://www.dailymotion.com/video/x41o6g0_mexique-ouverture-du-score-signee-gignac_sport

L'ultimissima rete segnata da Gignac in LigaMX, Campionato Chiusura 2016, contro l'Atlas: arpiona con il mancino un cross perfetto del mio pupillo Jurgen Damm. In ogni giocata, in ogni gol, sembra esserci una doppia sfida: cosa posso fare per la mia squadra? Cosa posso fare per me?


 

«In molti hanno pensato che il mio fosse un

tutto d’oro. Ma non sono andato in Messico in vacanza. Volevo provare che gli europei possono anche andare in Messico per lavorare, non solo per divertirsi e sfruttarli. Volevo dimostrare che abbiamo una buona immagine del Messico, e fare di tutto affinché anche i messicani avessero una buona concezione dei francesi». Quando effettua queste dichiarazioni, Gignac è a Clairefontaine, nella sede del ritiro dei Bleus. Per un attimo torna a indossare la maschera guascona del ribelle scontroso, del gigante intrattabile, dell’

che gli hanno spesso cucito sul volto, in Francia: «Oggi posso dirlo: ho avuto l’audacia di fare il grande salto». Per un attimo riesce quasi a ricordare il primissimo Cantona.

 


Attitude.


 



È una sensazione che dura poco: di Cantona, forse, Gignac ha solo la statura imponente, le spalle larghe, il carattere burbero, e non molto di più. Un rapporto burrascoso con la stampa, forse, che lo chiama BigMac per la stazza e non gli perdona le prestazioni meno lucide. Anche la sfacciataggine non sembra appartenergli del tutto.

 

Nella stagione 2012-13 nell’OM gioca anche Joey Barton. È l’anno in cui Gignac è reduce da una stagione molto deludente, in cui ha segnato un solo gol e ha perlopiù litigato con l’allenatore Didier Deschamps (che l’ha anche relegato a giocare con la squadra riserve dopo il capriccio da primadonna con cui aveva accolto la notizia che non avrebbe giocato da titolare, in Champions, contro l’Olympiakos). Si rialzerà e comincerà a sbocciare proprio quell’anno, inaugurando un percorso di crescita costante che finirà per vederlo, nell’ultima stagione al Vélodrome e agli ordini di Marcelo Bielsa, cannoniere principe della Ligue 1. Il punto non è la parabola di Gignac; è un altro.

 

Quell'anno Barton, sul suo canale YouTube, intervista alcuni compagni di squadra, e tra questi anche Gignac. Il profilo che quella chiacchierata surreale ci restituisce è quello di un ragazzo estremamente semplice, quasi di campagna, un vero

a guisa di personaggio minore (un oste, o un piccolo ristoratore) dei romanzi di Jean-Claude Izzo.

 

Quando Barton gli chiede «chi è il giocatore più lento con il quale abbia mai giocato», come rispondono i ragazzini quando si vergognano, con l’istinto di proteggersi mettendo in ridicolo l’interlocutore, risponde «te». Barton lo incalza «ma io sono veloce qui», indicandosi la testa, con uno sguardo spiritato che Gignac non sembra avere gli strumenti per interpretare, per dargli il giusto significato. Anche quando Barton gli chiede «cosa porteresti in un’isola deserta», e Gignac risponde «i miei tre figli», non sembra capire che la frase «puoi mangiarli?» di Barton è

.

 

https://www.youtube.com/watch?v=38gDdbMTEbg

Il mio pezzo preferito in cui fanno a gara a chi riesce a insistere di più sull’accusa giocosa «ah no sei più matto te» (a 9.15).


 



Secondo Bruno Valencia, giornalista di Univision - l’emittente televisiva messicana che detiene i diritti di trasmissione della LigaMX - l’arrivo di Gignac in Messico si può considerare importante su più livelli: anzitutto perché dimostra che un giocatore europeo di meno di trent’anni

un campionato in crescita, e già molto competitivo, come quello centroamericano; secondo poi, perché in un contesto del genere può addirittura stimolarlo a tenere elevati i suoi standard di gioco, fatto del quale la continuità delle sue convocazioni in Nazionale costituisce una riprova.

 

Per comprendere l’importanza dell’esperienza di APG in Messico non bisognerebbe però concentrarsi più di tanto su cosa significhi Gignac per il Paese (che è comunque molto), ma cosa abbia preso a significare il Paese per Gignac. In nove mesi, da quando cioè ha scelto di firmare per i Tigres durante una parentesi di vacanza a Cancùn, il mutuo rapporto si è così cementificato da generare

impossibili da trascurare. Da un punto di vista squisitamente

, Gignac può mettere in mostra numeri

: ad oggi in Messico ha giocato 32 partite, segnando 23 reti.

 

https://www.youtube.com/watch?v=xLGjJcWIBSg

Le prime quindici sono quelle con cui, in 19 partite, ha trascinato i Tigres alla vittoria del Clausura 2015.


 

I Tigres nella loro storia hanno vinto soltanto quattro titoli: nessuno, prima di Gignac, aveva saputo lasciare la sua firma in maniera così marcata, neppure

, forse insieme a Emil Kostadinov il calciatore più importante passato per Monterrey.

 

Con gli

ha messo in mostra tutto l’armamentario del nove perfetto, dal tiro da fuori (

quello da 25 metri in semifinale di Play-Offs contro gli Jaguares) al sombrero seguito dal

della finale contro i Pumas passando per l’immancabile sforbiciata esattamente

.

 



E anche l’avvio dell’Apertura 2016 è stato fenomenale: 5 gol nelle prime 5 partite, un coro dedicato che è un tributo a

che non significa nulla ma ha un bel suono, l’esultanza e il look da Supersayan

per scacciare critiche e accuse. Sul finire d’Aprile, inoltre, avrà la possibilità di conquistare (nella sfida contro i rivali storici dell’America di Città del Messico) la Concachampions, la Champions League della CONCACAF.

 

Ma è dal punto di vista

che il successo di Gignac in Messico è più rotondo: APG è avvolto da una patina così spessa di mito che ogni giocata è una giocata magistrale, e ogni gol un golazo. Ha saputo innescare un meccanismo di

, stuzzicando una narrativa del gioco ricca di

e francesizzazioni, e ha inaugurato una moda: oggi più di una squadra di LigaMX ha il

, il suo calciatore dai trascorsi europei, da Ruben Botta del Pachuca a Gargano dei Rayados a Bergessio che gioca negli Atlas.

 

Infine, in un’ottica più intima e privata, Gignac ha trovato la sua dimensione: pur essendo innegabilmente una star non ne detiene alcun comportamento. È umile e curioso: come pochi altri europei trapiantati oltreoceano dimostra di volersi

integrare, di capire la società che lo ha accolto appieno. Gira per i quartieri meno agiati anche senza scorta - al

, per esempio, epicentro delle sottoculture underground di Monterrey, è andato accompagnato dai figli ai quali voleva comprare una plancia di skate; non ha paura, ma affronta il quotidiano con l’animo nobile e ingenuo che è poi il grimaldello con il quale ha scardinato i cuori dell’epicentro del Volcán, il settore più caliente dei suoi tifosi, tanto da arrivare al punto che

André Gignac.

 

E anche il suo rapporto con la stampa è cambiato: è diventato un punto di riferimento, una

, e non reagisce più piccato. Sembra quasi partecipare, con gioia, al rito collettivo dello scambio. Certo, non si è ancora trasformato in un feticcio di eloquenza, e probabilmente mai lo farà, ma ai messicani sta bene così: interpretano il suo mutismo come il giusto atteggiamento del leader, che va rispettato più nei silenzi che nelle dichiarazioni.

 



In questo ermetismo, nell’asciuttezza emotiva del nuovo Gignac, si annidano i segreti del suo essere nuovamente

. L’identikit dell’uomo non necessariamente

ma

per il centro dell’attacco della Francia agli Europei gli calza a pennello. Soprattutto perché Gignac non ha

: se verrà convocato potrà interpretare il suo mero esserci come qualcosa di guadagnato a morsetti. E nel caso in cui Deschamps decidesse di utilizzarlo con il contagocce, di certò non saranno mal di pancia o lamentele quelle che dovrà aspettarsi di raccogliere dal

APG.

 

Intanto, nella recente finestra di gare internazionali, il tecnico francese è tornato a convocarlo: in panchina contro l’Olanda, è sceso in campo da titolare contro la Russia partecipando anche alla festa del 4-2 finale.

 



Con un gol, peraltro, eminentemente à la Gignac: colpo di testa in torsione volante su cross dalla sinistra.


 

«Ho avuto ancora modo di mettermi in mostra», ha dichiarato dopo il match con la Russia, «ma non è quella la mia vera finalità». «Devo continuare a far bene, in primis, coi Tigres. Perché se non sarò decisivo per la mia squadra di club sarà complicato guadagnarmi un posto per l’Europeo».

 

Le intenzioni di APG, insomma, sono chiare: nella sua agenda, per quest’estate, non ci sono le spiagge di Acapulco. Ha già realizzato parte dei suoi sogni in realtà: è parte integrante di un progetto, la sua famiglia si è ambientata benissimo in Messico, è da poco nato il suo ultimo figlio (Eden, che ha presentato

come il

) e

: può esistere un

migliore?

 

«Ho tre mesi per continuare a far bene, e poi aspetterò con attenzione la lista delle convocazioni. Allora saprò se potrò vivermela con serenità. Anche a 10mila chilometri di distanza, al sole. Mi farò trovare pronto. Devo, per forza».

 

«Dopotutto ogni volta che torno a Clairefontaine, anche se so che devo farmi dieci ore di volo ogni volta, non è che ci torno per vedere se son cresciuti i fiori».

 

 

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