Il Sasha Grey del calcio
David Babunski è un calciatore ma ama i libri di filosofia e parlare di politica.
- Socrates Unchained
In un’intervista che è in realtà più un’autocelebrazione, in onore della piattaforma che ha fondato, che si chiama Skyself e il cui logo campeggia su tutte le felpe, canottiere da allenamento e t-shirt che indossa in ogni foto, Babunski parla di come i suoi compagni abbiano accolto la presenza, nello spogliatoio, di un fenotipo intellettuale bizzarro come lui: «Anche se molti non condividono questa mia passione per la filosofia, tutti finiscono per riconoscere la bellezza di appassionarsi in maniera così profonda ai grandi temi della vita».
Come John Cage.
Un calciatore professionista col dolcevita e la giacca in tweed, che si fa intervistare con una galleria d’arte moderna sullo sfondo: un’immagine già potente, che eppure non restituisce appieno l’essenza di David Babunski: dovreste concentrarvi sulla strana scintilla che porta negli occhi, al limite tra il crederci tantissimo e il MEGALOL. Primo fan e primo troll di se stesso.
È fuori di dubbio che sia un ragazzo intelligente: per discutere col padre di tattica stendono sul pavimento di casa dei libri, anche pubblicamente non teme gli argomenti più scomodi come la paura o la morte; ha quel tipo di intelligenza che tracima anche dalle giocate brillanti. E poi è curioso: mi sembra un titolo di merito questa sua capacità di guardare altrove mentre sta facendo qualcos’altro.
Non è un caso che il no-look sia il suo tipo di passaggio preferito.
Sempre in quell’intervista ombelicale dice: «Non ho autori o filosofi di riferimento, non ho mai guardato all’esterno: fuggire dalle influenze dal di fuori mi ha permesso di concentrare lo sguardo al mio interno, di fare affidamento sulle mie risorse, di basarmi sulla mia esperienza, capacità di osservazione, autocoscienza, immaginazione, di sviluppare il mio pensiero critico».
Babunski ha molte velleità, e nessuna ha a che fare davvero col calcio: mi sembra un punto di partenza, o per certi versi di arrivo, dirimente nel tentativo di comprenderlo. Scrive tantissimo, con quell’afflato che appartiene ai calzolai, ai pescivendoli, ai bidelli e ai dirigenti d’azienda con un libro importantissimo in preparazione: a volte scivola nella melma appiccicosa di melassa di una retorica ridondante o di metafore così ambiziose da apparire naif: come quando contrappone la rigida disciplina del gioco del calcio all’arbitrarietà lievemente anarchica dello scrivere, come fosse un concorrente di Masterpiece. E il tono generale delle sue riflessioni somiglia da vicino a quello dei libri di crescita personale, di self-help.
Chi siamo noi per criticare un calciatore che si sente più filosofo che calciatore? Però un interrogativo sorge, imponente: non è che Babunski, scappando dallo stereotipo, si sta trasformando egli stesso nello stereotipo di chi combatte strenuamente gli stereotipi?
- Tre reazioni di David Babunski dopo aver compiuto un fallo.
Dentro e fuori dal campo, David Babunski dà l’impressione di starsene quotidianamente ammollo nel brodo cosmico di una benevolenza illuminata, consapevole. Per capire se questo costante sforzarsi di essere una persona migliore corrispondesse in qualche modo al tentativo di essere un calciatore migliore mi sono andato a vedere, durante le sue partite, che livello di aggressività fosse capace di raggiungere, chiaramente al di fuori dell’agonismo del momento.
Mi sono fatto l’idea che fedele alla massima di William James, un filosofo che cita spesso, Babunski sia davvero convinto che «la percezione e il pensiero esistono solo in vista della condotta».
Qua siamo ai tempi del Barcellona B: falcia il 10 del Recreativo Huelva ma si affretta a farselo amico, ci scherzano anche su. Poi guarda la panchina, come a volersi scusare in primis con il suo allenatore per il fallo e allo stesso tempo chiedendo l’assoluzione per il successivo comportamento, comunque signorile.
Poi si fa dieci metri solo per stringere la mano all’arbitro.
Questo fallo su Tolisso, in un Francia – Macedonia under 21, è in effetti bruttino. Al contorcersi indemoniato del francese, però, David contrappone una calma distesa, un sorriso comprensivo più che compassionevole, un umile cenno di intesa con l’arbitro.
Ah-ah, qua ha una prima reazione di stizza. Ma dura pochissimo, e anche quello sguardo prolungato sull’avversario a terra, che potrebbe sembrare di sfida, è in realtà manifestazione di curiosità intellettuale: vorrebbe davvero sapere cosa sta pensando l’avversario in quel secondo, se secondo lui il fallo c’era o meno, conoscerlo, invitarlo a conoscersi.
7. La visione del calciatore, da vicino.
«Dedichiamo tutta la nostra vita a compiacere un’immagine di noi. A realizzarla. A proteggerla. Se la realtà corrisponde a quell’immagine ci sentiamo soddisfatti, orgogliosi; ma se qualcosa nella realtà non corrisponde più all’immagine che mi sono fatto di me, allora comincio a sentirmi minacciato, ferito, a soffrire».
David Babunski ha una visione di se stesso molto ben delineata. Ma è anche meno egotica, più umile, rispetto a quella dei suoi colleghi? E se dietro tutto questo filosofeggiare non ci fosse che una versione diversa, più intellettualizzata, dell’egocentrismo? Nella sua dialettica le acconciature e le pochette di Gucci sono sostituite da citazioni, foto ispirate, saggezza. Ma lo scopo sembra lo stesso: autopromuoversi attraverso la cultura del sé.
Sulla pagina di Skyself, che conta una decina di collaboratori (c’è uno youtuber, un ex giocatore di pallacanestro oggi modello e attore, un capoeirista, una designer gastronomica, un surfista, un avvocato e il fratello, tutti con l’idea di cambiare il mondo) si definisce «infinito potenziale incapsulato in un corpo umano momentaneamente travestito da calciatore». Una definizione poetica, ma anche puntuale: travestito da calciatore.
«Il calcio è la mia passione», ha detto in un’intervista, «ma durerà 10, 15 anni ancora; è uno strumento per un proposito maggiore, per introdurre valori, connettere le anime, per ispirare il cambio di coscienza».
Questo è un tema ricorrente della sua narrativa calcistica: la caducità dell’esperienza umana. È un esistenzialismo collegato alla caducità dei proventi che lo stesso calcio genera: Babunski definisce il salario dei calciatori come una cosa “ridicola”.
8. Il ruolo sociale dell’Eroe Calciatore
Il calcio, tra le altre cose, secondo Babunski è il punto di incontro di valori e genii che al calcio, nell’immaginario collettivo, sono tangenti ma non perpendicolari. Per David la costanza, la pazienza, il coraggio, la comprensione della necessità di riposo, igiene, alimentazione sana, sono fattori che filtrati dal prisma di una sfera di cuoio assumono una luce diversa. Il calcio per lui fomenta e allena qualità sociali: generosità, integrazione delle diversità, spirito democratico.
Critica un mondo che, come spesso ripete, non è che l’evoluzione moderna del panem et circenses, e si pone molte domande: in primo luogo, che responsabilità abbia, oggi, il calciatore. Quale ruolo in una società che (ingiustamente, secondo lui) lo glorifica. Raphael Waldo Emerson, una volta, ha detto che «ogni eroe finisce per annoiare»: nel mondo perfetto di Babunski, il calciatore è l’eroe che prende coscienza di quanto è diventato noioso e semplicemente diversifica i suoi interessi, i suoi sforzi, aprendosi all’altro. «Dare calci a un pallone non è una ragione sufficiente per farci trattare in maniera speciale: essere persone di grandi valori, quella sì che lo è».
Ma oltre ai video di self-empowerement su YouTube e al di là degli atteggiamenti di condanna (tipo quando si intromette in una querelle tra Arbeloa e Piqué), cosa c’è?
9. Il Sasha Grey del calcio
In un articolo sul New York Times, il critico cinematografico A.O. Scott ha scritto, di Sasha Grey, che il tratto distintivo della sua carriera nel porno era la coincidenza tra il carattere estremo delle cose che faceva e un inedito grado di consapevolezza culturale rispetto a ciò che stava facendo. Per Babunski vale un po’ lo stesso discorso, sospeso com’è a mezz’aria tra talento e capacità di astrazione intellettuale del ruolo di calciatore.
Il filo conduttore tra corpo, mente, attività che si fanno usando il proprio corpo e intellettualizzazioni delle stesse: in fin dei conti, tanto per Sasha Grey quanto per David Babunski, non è tutto qui il cortocircuito?
Ho ascoltato e osservato ore intere di discorsi di Babunski.
Babunki che parla in cima a una collina, con l’audio disturbato dal vento. Babunski che parla in un’aula asettica, con le serrande abbassate, le braccia conserte degli studenti che ascoltano, qualche espressione annoiata. David fà molte domande. Ma non ci sono mai le risposte. I temi tornano, si ripetono, fino alla noia.
In un pezzo uscito qualche tempo fa su Rivista Studio, Davide Coppo ha scritto riguardo a Sasha Grey: «Si parla dei suoi progetti cinematografici “seri”, dei suoi libri, delle sue idee politicamente socialiste, letterariamente esistenzialiste e cinematograficamente novellevagueiste: qui, è questa la sua straordinarietà. Ma Sasha Grey non ha ancora fatto uno straccio di film di successo, né ha scritto un libro […]; le sue interviste sono normali interviste a una ragazza di vent’anni, non molto interessanti se non quando si parla di pornografia».
Anche Babunski, decontestualizzato, perde rilevanza e peso: le sue riflessioni suonano un po’ patetiche, a volte, e la verità è che se fosse uno scrittore – o un filosofo – lo troveremmo stucchevole, un po’ da arena televisiva, e non gli daremmo neanche il peso che gli stiamo dando per il semplice fatto di essere un calciatore, parte di una categoria chiusa e poco autoriflessiva.