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Calcio Fabrizio Gabrielli 27 aprile 2017 12'

Il Sasha Grey del calcio

David Babunski è un calciatore ma ama i libri di filosofia e parlare di politica.

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  1. Prologo

 

Il giorno di Pasqua gli Yokohama F•Marinos hanno sconfitto i Sanfrecce Hiroshima e consolidato il quarto posto nella J.League. L’autore del gol della vittoria è stato il capitano Yuji Nakazawa, uno degli uomini più rappresentativi di tutto il campionato: non si segnano molte reti quando sei un difensore centrale, figuriamoci a trentanove anni. Il primo compagno corso ad abbracciarlo è stato il numero 33: si chiama David Babunski, è macedone, si è trasferito in Giappone da due mesi appena e quando è nato, nel ‘94, Nakazawa giocava già da due anni tra i professionisti, in Brasile, con l’América MG.

 

Ho aspettato che non fosse più domenica: intorno all’una del mattino successivo, le otto a Yokohama, ho avviato Skype e ho aggiunto ai miei contatti Babunski. Sembra una boutade funzionale a crearmi l’alibi di un buon incipit per questo pezzo: invece l’ho fatto davvero. Sul suo sito avevo letto, in una pagina dedicata che si intitola “Conversazioni che ti cambiano”, del progetto di dedicare parte del suo tempo a chiacchierare con sconosciuti col solo scopo di “aprire la mente”. Babunski promette di rispondere a chi lo aggiunge ai contatti e mi sarebbe piaciuto passare mezz’ora con lui a parlare del presente e del futuro dell’umanità, delle mie paure e dei suoi sogni. Di tutto, ovviamente, tranne che di calcio.

 

Anche se era il Lunedì dell’Angelo, aveva giocato il giorno prima, magari voleva riposarsi soltanto.

 

 

  1. Farsi un’idea su Babunski

 

Un paio di settimane fa il giovane macedone ha segnato questo gol contro il Consadale Sapporo, che è stato votato come il migliore del mese in Giappone, e in effetti è davvero bello.

Il momento in cui cambia senso di marcia, puntando la porta anche se la palla deve ancora tornare in possesso dei suoi, ci dice molto di più di Babunski di quanto non faccia la volée di prima, di sinistro su un cross che proviene da sinistra. Meglio: sono entrambe eloquenti, ma di due aspetti diversi. Prima della tecnica notevole c’è un approccio mentale estremamente ottimista, pieno di fiducia.

 

Ho scoperto che Babunski è il giocatore feticcio di almeno due altri autori in redazione: se ho cominciato a seguirlo è essenzialmente dopo averne sentito parlare là, e dopo aver visto questo gol circolare in uno dei nostri gruppi di discussione privati.

 

Babunski ha una storia interessante nella misura in cui lo diventano le parabole di giovani cresciuti in contesti assurdi, ipercompetitivi, prestigiosi nell’istante in cui, senza motivazioni apparenti che non siano l’incompatibilità con il prestigio e la competitività dei contesti che li hanno cresciuti, se ne separano, diventando barchette di carta alla deriva nell’Oceano Pacifico del calcio.

 

Babunski è un prodotto calcistico de La Masia, dove ha fatto il suo ingresso quando aveva dodici anni. Nel 2014 è arrivato a guadagnarsi un posto nel Barça B: Martino lo ha invitato spesso ad allenarsi con la prima squadra, e nel 2015 è stato anche inserito nella lista per la Champions League come uno dei quattro canterani obbligatori.

 

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Con Iniesta in allenamento. Ogni calciatore avrebbe scritto: Training, con l’emoji del muscoletto. Lui, invece: un lapidario e ascetico Learning.

 

Henry Thoreau (e come si capirà non è una citazione a caso) in “Walden ovvero vita nei boschi” scrive: «Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca»: Babunski non ha mai davvero spiccato il volo (anche se alcuni club tedeschi e la Sampdoria l’avevano cercato), e per rifuggire il rischio di autosegregazione, per non rassegnarsi a una carriera senza sbocchi o forse inseguendo un certo sogno di decrescita volontaria, dopo quasi dieci anni da culé, nel dicembre del 2015 ha deciso di recidere il legame con il Barça e cercare la sua strada altrove: era sempre Thoreau quello che scriveva «Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione forzata»? Ha scritto una lettera di addio che – è vero – era piena di retorica, ma in cui comparivano anche alcuni spunti interessanti, lontani dai cliché melensi di ogni lettera d’addio.

 

Ha firmato un contratto di sei mesi con la Stella Rossa di Belgrado, con la quale ha vinto il campionato, prima di svincolarsi ancora e trasferirsi, nel gennaio di quest’anno, in Giappone (dove aveva già giocato suo padre Boban, calciatore con una carriera di discreto successo per gli standard macedoni negli anni ‘90).

 

Una traiettoria che parte dal Nou Camp e finisce (per ora) al Nissam Stadium di Yokohama ha tutti i crismi di una carriera che sfiorisce: Babunski, invece, sul suo account Instagram mette foto di fiori di ciliegio che sbocciano e di se stesso rilassato, sotto un albero, ispirato.

 

Schermata 2017-04-27 alle 15.22.01

 

Avrei voluto chiedergli, su Skype, se Babunski avesse mai risposto alla mia richiesta di contatto, come si fa ad essere così felici e positivi sempre, se conosce un segreto per incanalare la rabbia. Avrei voluto capire, di persona, se è davvero una mosca bianca come dà l’impressione d’essere se hai passato più di una settimana a spulciarti i suoi social, come è capitato a me.

 

 

  1. Un nuovo prototipo di calciatore politicizzato?

 

Nelle giovanili del Barça Babunski ha messo in mostra una summa di qualità calcistiche che ne giustificavano la presenza in quel contesto (leadership, tecnica, rispetto per compagni e avversari, talento e sacrificio, e un’abilità nei passaggi nella quale gli scout hanno rivisto le doti di Iniesta, o di Thiago – qua per esempio spalanca il campo per Keita Baldé in quello che – credo – è l’ultimo gol dell’attaccante in blaugrana prima di trasferirsi alla Lazio).

 

Questo tipo di talento.

 

Ma Babunski intraprende anche una serie di comportamenti extracalcistici quantomeno fuori dal coro: la sicurezza del centro d’allenamento lo fermava quando lo vedeva arrivare con la sua C3 scalcagnata, una volta ha dovuto mostrare il completino nella borsa per convincerli che faceva parte della squadra (un aneddoto simile a quello occorso a Socrates agli albori della sua carriera).

 

Il giorno dell’anniversario della morte di Socrates – a questo punto David è già bello calato nel personaggio – si è portato in panchina una fascetta per i capelli con su scritto “We need justice”, ripromettendosi di indossarla casomai avesse segnato. Non è neppure entrato in campo. In compenso, una volta di ritorno negli spogliatoi si è scattato un selfie con una t-shirt in cui c’era scritto “46664 – lo sport ha il potere di cambiare il mondo”, un tributo a Nelson Mandela, e l’ha postata su Twitter.

 

I compagni lo hanno soprannominato “Change the world” o “Il filosofo”, non è complicato capire quanto ironicamente, in un mondo in cui questa parola è piena di connotazioni negative e viene usata come insulto, come ha fatto Ibra con Pep proprio a Barcellona.

 

Il suo approccio politico va oltre il sostegno indipendentista, che è di norma la massima velleità politica che ci si può aspettare da un giocatore di calcio culé: si schiera apertamente con il movimento indignado che si accampa a Puerta del Sol nel 2011, solidarizza con gli studenti dell’Università di Skopje osteggiati dal governo macedone, esulta per la vittoria, nelle elezioni greche, di Syriza.

 

David sa di essere un catalizzatore: è uno dei prospetti più interessanti d’Europa, gioca con il Barcellona, viene guardato con ammirazione dal pubblico macedone perché dall’esterno sembra in grado di aprire una finestra su panorami più ampi. Nelle parole con cui critica apertamente la Federazione macedone ci sono molti tratti di quel populismo latente al cui immaginario David attinge spesso: indossando la maschera di Guy Fawkes di V per Vendetta, richiamando all’appello la stessa volontà di cambiamento e autodeterminazione di Podemos, criticando l’iniquità della redistribuzione di potere e risorse, schierandosi contro le case – come le definisce – farmafiaucetiche.

 

Schermata 2017-04-27 alle 15.22.57

 

Chi è allora David Babunski, il prototipo di un nuovo tipo di calciatore politicizzato? Babunski è – o meglio, sta provando a essere – qualcosa di più, o di diverso: quando parla di Donald Trump, per esempio, il demone che lo anima non è quello di Chomsky, ma quello di Paulo Coelho.

 

Non riesco a capire se la componente più disturbante risieda nel fatto che David esprima idee, che queste idee siano politicizzate, o il tipo di messaggio veicolano: non comune per un ventenne e non comune per un calciatore.

 

  1. Lista non esaustiva di hashtag che troverete nell’Instagram di Babunski e, ho modo di credere, in quello di nessun altro calciatore professionista.

 

#spirituality

#quantumphysics

#sacredfeminine

#enlightenment

#philosophy

#mothernature

#createyourownreality

Schermata 2017-04-27 alle 15.24.07

#buscarlaverdad

 

Ma soprattutto questo, che combina due parole apparentemente inconciliabili, o almeno non con gli esiti che sortisce in Babunski:

 

#reflexionesdeunfutbolista

 

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Tags : Giapponej league

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

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