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Il ritratto distorto di Argentina '78
13 lug 2018
13 lug 2018
Sono passati 40 anni dal Mondiale argentino ma la sua eredità controversa continua a far discutere.
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(ON)

A Rosario, dove si gioca, il regista della TV pubblica argentina inizia a raccontare la sua storia. “Argentina VS Perù” si legge sullo schermo, una scritta giallina dai contorni neri, con il campo verde fluorescente a fare da sfondo. Poi gli scarni titoli di testa scompaiono per fare spazio ad uno zoom fluido verso la curva che sorregge il maxischermo. Al “Gigante de Arroyito”, come viene chiamato lo stadio di Rosario, ci sono quasi 40mila persone e migliaia di bandiere dell’Argentina che sventolano sopra di loro, sembrano onde di un mare agitato. Il maxischermo è sorretto da due inquietanti pilastri di cemento e proietta il logo dei Mondiali del 1978: due braccia stilizzate protese verso un pallone da calcio a scacchi bianchi e neri, cingendolo.

Con quel disegno, il caso si era divertito a giocare uno scherzo beffardo ai generali che adesso comandavano il paese. Le braccia erano infatti di Juan Domingo Peron, l’uomo che molto prima dei militari volle il Mondiale, nonostante non gli interessasse troppo il calcio. Peron guidò l’Argentina per circa 10 anni nel secondo dopoguerra, spaccando per sempre la vita politica del suo paese in due fazioni contrapposte ma comunque riferite alla sua persona.

Foto Stringer

Di ispirazione peronista erano i montoneros, i guerriglieri che terrorizzarono l’Argentina negli anni ’70, preparando il terreno al golpe. La giunta militare al potere dal 1976, composta da Jorge Videla, Eduardo Massera e Orlando Agosti, fece cadere la scure della repressione soprattutto su di loro. A capo dell’organizzazione del Mondiale mise uno degli esponenti dell’ala più antiperonista delle forze armate, l’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste detto “il francese” (che non c'entra niente con il giocatore di tennis che ha fondato il marchio di abbigliamento omonimo), che provò a disfarsi di quel logo in tutti i modi, proprio per quel riferimento così sfacciato ad un’eredità politica che si stava cercando di cancellare con la violenza. Quando fu informato sulla quantità di cause giudiziarie a cui sarebbe andato incontro il paese se l’avesse fatto, però, Lacoste desistette.

In ogni caso, adesso era diventata una metafora perfetta di quello che stava succedendo a Rosario: uno stadio, un Paese intero proteso verso la sua Nazionale, per spingerla verso la finale del primo e unico Mondiale giocato in Argentina. Alla vigilia, però, l’impresa sembra quasi impossibile.

Battere il Perù

Nel 1978 la fase ad eliminazione diretta ancora non esiste e l’Albiceleste, a sorpresa, ha concluso il suo girone al secondo posto per via di una sconfitta all’ultima giornata contro l’Italia di Bearzot, che la costringe a giocare tutte le partite del secondo turno a Rosario anziché a Buenos Aires. Si ritrova, inoltre, in un girone complesso, con Polonia, Perù e Brasile. La sfida per il primo posto, che dà l’accesso diretto alla finale, è ovviamente con i rivali verde-oro che in squadra, tra gli altri, hanno già Cerezo, Zico e Rivelino. Argentina e Brasile si incontrano al secondo turno, dopo aver battuto rispettivamente la Polonia e il Perù per 2-0 e 3-0, fermandosi sullo 0-0 dopo un incontro molto duro. La terza giornata è quella decisiva per capire chi andrà in finale.

Prima dell’inizio del girone, l’Argentina era riuscita ad ottenere dalla FIFA di giocare l’ultima giornata non in contemporanea, ma alle 19.15, due ore e mezzo dopo il Brasile. Nonostante questo dettaglio venga spesso ricordato come uno dei principali vantaggi concessi dalla dittatura alla propria Nazionale, che poteva così scendere in campo conoscendo già il risultato degli avversari, allora nessuno presentò ricorso. Fatto sta, che dopo il 3-1 rifilato dal Brasile alla Polonia, l’Argentina ora è costretta a vincere contro il Perù con più di tre gol di scarto, cioè almeno 4-0.

Eccolo, il Perù. Quiroga, Duarte, Manzo, Chumpitaz, Velasquez, Muñante, Cueto, Cubillas, Oblitas, Quesada, Rojas, uno accanto all’altro come un plotone d’esecuzione, con la mano sul cuore mentre l’inno fuoriesce dagli strumenti della banda militare in maniera meno solenne di quanto non dovrebbe, davanti a uno stadio intero che gli chiede di togliersi dal corso della storia.

Teofilo Cubillas contro la Polonia (foto Getty Images).

Oggi, con il senno di poi regalato da 40 anni di storia, quella squadra viene considerata quasi unanimente come il migliore Perù della storia, e forse a ragione, ma la realtà è che arrivò a quella partita in pessime condizioni. Come racconta Pablo Llonto in I Mondiali della vergogna, lo spogliatoio peruviano era diviso da profonde tensioni razziali che ricalcavano la militanza dei giocatori nei due principali club del paese: l’Alianza e lo Sporting Cristal. «Secondo molti giocatori del Cristal», dice Llonto nel suo libro «loro erano più belli e quelli di Alianza “i brutti negri”». Le due fazioni arrivarono alle mani pochi giorni prima di sbarcare in Argentina.

Uno dei pochissimi a non far parte a nessuna delle due era la stella della squadra, Muñante, l’unico che giocava fuori dal Perù (in Messico) e che veniva pagato in dollari. Muñante non parlava con nessuno (persino il CT Marcos Calderon cercava di disturbarlo il meno possibile) e una volta minacciò Velasquez, che lo aveva ripreso in partita ricordandogli quanti soldi guadagnasse.

Un’altra cosa che viene spesso omessa nella narrazione di quella partita è che il Perù era già ampiamente eliminato: aveva perso le prime due giornate contro Brasile e Polonia subendo quattro gol e non riuscendo a segnarne nemmeno uno, e non aveva quindi nemmeno la possibilità di arrivare secondo, posizione che gli avrebbe permesso almeno di accedere alla finalina per il terzo e il quarto posto. I giorni alla vigilia della partita con l’Argentina, che per l’Albiceleste furono carichi di paura e tensione, anche perché girava la voce che i brasiliani stessero provando a corrompere la Nazionale peruviana per cercare di arrivare in finale, per il Perù furono di puro relax. Alla vigilia i giocatori vennero mandati a fare shopping e l’ultimo allenamento, secondo Llonto, fu “meno di una ricreazione scolastica”.

Il Perù era fuori dalla Coppa del Mondo e appagato da quello che aveva già fatto, dopo essere arrivato al primo turno in testa ad un girone che, oltre a Scozia e Iran, aveva anche l’Olanda reduce dal memorabile Mondiale del ’74. «Io al solo sapere che ho il mio tesserino di atleta dei Mondiali già sono contento, ho qualcosa da raccontare ai miei figli», disse La Rosa, uno dei membri della rosa peruviana.

L’unico che aveva davvero qualcosa da giocarsi era il portiere, Ramon Quiroga, che era nato in Argentina ed era stato naturalizzato in peruviano solo pochi anni prima del Mondiale. Una delle principali incognite del CT del Perù prima della partita era proprio se far giocare o meno Quiroga, che per uno strano scherzo del destino era nato a Rosario ed era tifoso del Rosario Central, che giocava proprio al Gigante de Arroyito. Se al suo posto avesse giocato la sua riserva, Ottorino Sartor nato a Chancay, avremmo guardato la partita del Perù in maniera diversa?

Quiroga, comunque, ci teneva molto a dimostrare l’appartenenza alla sua Nazionale e con la polizia argentina che presidiava il ritiro peruviano scherzava spesso dicendo: «Perché vi prendete tanta cura di noi? Se qualche terrorista sequestra un peruviano ce lo riporta subito e per di più con dei soldi». Il problema è che fu preso sul serio e la sera prima della partita gli uomini della sicurezza dell’hotel dove risiedeva la Nazionale di Calderon sparirono, lasciandolo preda dei tifosi argentini, che passarono la notte a suonare il clacson, gridare e battere i piedi per non far dormire i giocatori.

Quello non fu l’unico trucchetto utilizzato dai militari per fiaccare ulteriormente la resistenza del Perù, che già non aveva grande voglia di vendere cara la pelle. Il giorno della partita, l’autista dell’autobus che doveva trasportare la Nazionale peruviana allo stadio fu istruito di allungare esponenzialmente il tragitto, mettendoci due ore per percorrere una strada che di solito si fa in quindici minuti. Ad ogni strada sbagliata, l’autobus veniva insultato dai tifosi argentini che lo vedevano passare. Non pago, l’autista fece anche finta di non sapere da quale porta dello stadio dovesse entrare, posizionandosi a pochi metri dall’ingresso di una delle tribune popolari. L’autobus fu nuovamente bersagliato da centinaia di pugni, sputi e insulti.

Anche il tragitto dell’autobus che trasportava la Nazionale argentina fu particolarmente lento, ma più che altro per la grande mole di tifosi che gli si accalcava intorno per cercare di incoraggiare la squadra prima della partita. L’umore all’interno, però, era probabilmente molto peggiore di quello peruviano. Mentre “Let it be”, per una strana scaramanzia dell’Albiceleste, faceva da sottofondo musicale alla tensione dei giocatori arrivò la notizia del secondo gol dei verde-oro. I Beatles si dissolsero in un momento.

Menotti e comunismo

La tensione è evidente anche quando l’inno argentino risuona nello stadio, sui volti dei giocatori che fissano chissà che cosa di fronte a loro, in silenzio. Alberto Tarantini, che chiude la fila, si copre gli occhi con una mano e sembra sull’orlo del pianto quando la banda militare finisce la sua esecuzione, e il silenzio nello stadio viene finalmente riempito da una cascata di applausi.

Mentre sugli spalti iniziano a roteare le bandiere e si lanciano gli ultimi festoni, appare in campo il CT, Luis Menotti, che sembra sforzarsi di non attirare l’attenzione, cammina senza far rumore, calpestando l’erba con gambe lunghe e secche da gru.

Dopo di lui, il regista stacca per l’ultima volta sul pubblico, prima di inquadrare la tribuna d’onore, dove Videla applaude in un rigidissimo cappotto verde militare, accanto ad altre autorità. Vicino a lui, a grande sorpresa, Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Stati Uniti. Poco prima dell’inizio della partita i due erano andati a visitare insieme lo spogliatoio del Perù, per parlare alla squadra allenata da Calderon.

«Signori», aveva iniziato Videla in maniera solenne, mentre gran parte dei giocatori peruviani doveva ancora rendersi conto di chi fosse quell’uomo con gli occhiali accanto a lui «Volevo solo dirvi che quella di stasera è una partita tra due paesi fratelli, e in nome della fratellanza latinoamericana, vengo a manifestarvi il mio desiderio che tutto vada bene». Nessuno capì esattamente cosa intendesse dire, al di là di ribadire la vicinanza politica tra l’Argentina e il Perù, a sua volta sotto dittatura militare. Probabilmente, come dice Llonto: «Videla era un uomo che minacciava senza fare minacce».

Sul rapporto tra Videla e Menotti si è molto scritto e detto, date le simpatie comuniste del CT dell’Argentina. Abbastanza noto, in questo senso, il discorso che Menotti avrebbe tenuto alla squadra prima dell’inizio della finale: «Siamo il popolo, veniamo dalle classi oppresse e rappresentiamo la sola cosa che ha legittimità in questo paese: il calcio. Non stiamo giocando per le tribune di lusso, pieni di ufficiali dell’esercito. Rappresentiamo la libertà, non la dittatura».

César Luis Menotti (Foto Stringer)

L’immagine di un Menotti oppositore occulto del regime è stata molto coltivata dallo stesso allenatore argentino dopo la fine della dittatura, quando, tra le altre cose, rivelò di aver incontrato di nascosto alcuni dirigenti del Partito Comunista Argentino per parlare di lotta armata durante il Mondiale e di aver nascosto in casa sua alcuni oppositori. Menotti, però, ebbe anche un ruolo consistente nel promuovere l’immagine dell’Argentina dei generali, con cui spesso flirtò in maniera ambigua.

Innanzitutto, la junta era perfettamente a conoscenza delle sue idee politiche e, semplicemente, non se ne interessò più di tanto. L’argomento, in realtà, uscì una sola volta, nella primavera del 1976, durante una riunione tra l’ammiraglio Lacoste e Atlantida, allora la casa editrice più importante d’Argentina, che di fatto collaborava con il governo per curare l’immagine del Mondiale sui media nazionali.

«Che facciamo con Menotti? Dicono che è comunista…», chiese Lacoste a Hector Vega Onesime, direttore di El Grafico, un influente settimanale sportivo edito da Atlantida, facendo scendere il silenzio. Dopo una lunga, stressante pausa, Onesime trovò il coraggio di rispondere: «E questo che c’entra?», con la fortuna di non dover più tornare sull’argomento. La verità è che ai generali interessava solo vincere la Coppa del Mondo e, non essendoci nessuno all’interno del regime che ci capisse molto di calcio, furono costretti a fidarsi della stampa nazionale, che stimava molto Menotti, e a ragione.

Menotti si guadagnò la sua fama in Argentina nella prima metà degli anni ’70 sulla panchina dell’Huracan, una squadra che, secondo l’attaccante Carlos Babbington: «Era perfettamente in sintonia con il gusto generale degli argentini». Il CT dell’Argentina era un allenatore molto moderno, che cercava di conciliare l’intensità con la tecnica (o l’efficacia con la bellezza, come diceva lui) attraverso le innovazioni nei metodi di allenamento e nell’alimentazione dei giocatori. «Nel 1978 rinchiuse i giocatori per mesi in un laboratorio, senza donne, a cibarsi di vitamine e a giocare», disse di lui il filosofo Tomas Abraham, come riportato da Jonathan Wilson ne La Piramide Rovesciata «con un ritmo che quando poi gli stessi giocatori andavano sul campo del River, persino gli ungheresi dicevano che sembravano disperati [il riferimento è all’esordio dell’Argentina a quel Mondiale, vinto 2-1 contro l’Ungheria, nda]».

L’Argentina all’esordio con l’Ungheria (foto Getty Images)

Menotti nella sua autobiografia dice che il calcio della sua Albiceleste richiamava alla mente quell’Argentina libera e creativa che era esistita prima della dittatura, ma in realtà la fisicità del gioco di quella Nazionale e la rigidità degli allenamenti di Menotti piaceva al regime, che le metteva in diretta contrapposizione con l’idea stereotipata di alcune Nazionali europee, come l’Olanda e alla Scozia, che erano associate al lassismo della droga e dell’alcol.

Pur non condividendola ideologicamente, Menotti, con la sua idea di calcio, si sposava perfettamente con la retorica iper-nazionalista del regime. Uno dei punti di partenza da cui partì il CT dell’Argentina, ad esempio, fu il rifiuto esplicito dell’idea che l’Albiceleste dovesse adottare uno “stile europeo” per tornare ai vertici del calcio mondiale, allora prevalente nel paese sudamericano dopo le umiliazioni subite da Cecoslovacchia e Olanda nei Mondiali del ’58 e del ’74. «Dobbiamo liberarci dell’idea che per vincere dobbiamo giocare come gli europei», disse una volta «Il concetto errato è stato pensare che non saremmo stati in grado di competere con loro fisicamente». Menotti sembrava guardare con diffidenza alla tattica collettiva, rappresentata ai Mondiali dall’Olanda del calcio totale, e metteva al centro del suo calcio in primo luogo il rapporto con il pallone, perfettamente in linea con la tradizione della scuola calcistica argentina. Menotti chiamava il suo lavoro per la Nazionale “el proceso”, in un’inquietante assonanza con il modo con cui la dittatura chiamava se stessa (cioè “Proceso de Reorganización Nacional”), e il calcio offensivo della sua squadra “defensa del estilo argentino”, difesa dello stile argentino.

Ma il suo rapporto con la junta spesso andava oltre alla semplice complicità culturale. Nell’ottobre del ’76, Menotti, con l’aiuto del governo, costrinse i club argentini a non vendere i giocatori della Nazionale all’estero fino all’inizio della Coppa del Mondo, con Mario Kempes al Valencia come unica eccezione. Come diretta conseguenza di questa misura, il portiere dell’Albiceleste, Ubaldo Fillol, ha raccontato di quando, dopo aver avuto dei contrasti con il presidente del River Plate sul rinnovo del suo contratto, fu preso di forza da casa sua e portato in un ufficio, dove fu costretto da un uomo in uniforme militare a firmare il contratto con il club di Buenos Aires.

Anche sulle sue convocazioni si sono allungate diverse ombre. Jonathan Wilson nel suo libro sul calcio argentino Angels with dirty faces, ad esempio, cita la tesi secondo cui Ricardo Bochini, uno tra i più influenti centrocampisti argentini del tempo, fu escluso per fare spazio a Beto Alonso, imposto dall’alto da Lacoste. Diversa invece la situazione di Jorge Carrascosa, detto “El Gran Capitan”, grande amico di Menotti, che si ritirò dalla Nazionale da capitano un anno prima del Mondiale, all’età di 29 anni, in aperta opposizione alla giunta militare. Di Carrascosa non si ricorda nessuno, ma è forse l’unico giocatore che provò davvero a lanciare un segnale politico attraverso la risonanza che il proprio lavoro gli aveva donato, sacrificando la sua carriera. «Del golpe dico solo questo: credo che ognuno di noi possa fare qualcosa per rendere questo mondo migliore. E io, il mio granello di sabbia l’ho messo», ha dichiarato a Repubblica un paio d’anni fa Carrascosa, una vita passata a fare l’assicuratore dopo aver smesso con il calcio a 31 anni.

La sua fascia da capitano passò sul braccio di Daniel Passarella, che adesso, sul prato del Gigante de Arroyito, concludeva le operazioni di preparazione alla partita con il Perù, scambiandosi il gagliardetto con Chumpitaz e scegliendo il pallone dopo aver vinto alla monetina.

Passarella con la Coppa del Mondo (foto Keystone).

Marmelada peruana

La partita, per l’Argentina, è difficile, almeno nel primo tempo. La squadra di Menotti, nelle ambizioni, era molto moderna, soprattutto in attacco, dove Kempes e Luque si scambiavano spesso i ruoli tra chi dovesse venire sulla trequarti a gestire il pallone spalle alla porta (più spesso il primo) e chi si dovesse buttare alle spalle della linea difensiva peruviana (più spesso il secondo). L’Argentina, che si difendeva molto in alto, cercava di recuperare il pallone appena perso, facendo scalare le marcature sempre in avanti, ma senza troppa organizzazione, facilitando il gioco del Perù che invece si difendeva basso e attaccava con pochi uomini.

Il gioco della Nazionale di Calderon aveva senso alla luce delle caratteristiche dei suoi giocatori offensivi, soprattutto Muñante e Oblitas, che avevano un’incredibile qualità nell’associarsi in spazi stretti e in verticale. Intorno al 15esimo del primo tempo, dopo un lungo monologo orizzontale dell’Argentina con il pallone, Velasquez intercetta un passaggio di Bertoni verso La Rosa e lascia il pallone a Quesada, che, dopo aver intravisto il taglio in profondità di Muñante, che si era infilato nello spazio tra terzino e centrale, lo serve con un lancio lungo precisissimo. Muñante, dopo averlo fatto rimbalzare un paio di volte, si porta avanti il pallone con il ginocchio destro, disorientando il ritorno di Passarella, e poi supera l’uscita bassa e disperata di Fillol scavando il pallone con la punta. Il tiro è pigro e sembra destinato ad entrare in porta prima di finire sul palo, che la risputa al centro dell’area.

Non è l’unica occasione clamorosa del Perù nel primo tempo. Intorno al 19' la Nazionale di Calderon sta gestendo il possesso in orizzontale nella trequarti avversaria in un modo che sembra non dover portare a nulla, quando Cueto, dopo un controllo difficile con il sinistro, si inventa una linea di passaggio geniale dalla trequarti, un filtrante a lob alle spalle della difesa argentina verso Oblitas, che era scappato alle spalle del terzino destro Olguin. Fillol per la seconda volta è costretto ad uscire dai pali per restringere lo specchio della porta, e per la seconda volta si vede superato da un tiro dolce in diagonale, che si spegne sul fondo dopo aver sfiorato il palo. Come scrive Jonathan Wilson ne La Piramide Rovesciata: «Se la partita fosse stata veramente truccata, sembra proprio che nessuno si sia preso la briga di mettere al corrente della cosa i giocatori del Perù».

La Nazionale di Calderon riuscirà a costruire almeno altre due occasioni potenzialmente pericolose, prima di doversi arrendere alla classe di Mario Kempes. Il gol con cui intorno alla mezz’ora piega, finalmente, la resistenza peruviana è un manifesto della sua stupefacente modernità: raccoglie un pallone sulla trequarti, chiama il triangolo a Ardiles e poi scappa alle spalle del centrocampo avversario. Il pallone di ritorno è alto, all’altezza del petto, ma Kempes lo fa cadere d’improvviso appena fuori l’area di rigore, come se gli avesse dato un peso diverso col suo stop d’esterno. Poi finta il tiro dalla distanza per eludere l’uscita del centrale avversario, entra in area palla al piede e anticipa l’uscita di Quiroga con quella parte del piede che è a metà tra la punta e l’interno. La sua andatura selvaggia ed elegante, come quella di un cavallo berbero, e la sua esultanza iconica, con la corsa a braccia aperte verso gli spalti mentre i capelli lunghi lo rincorrono come una criniera, ispireranno Yoichi Takahashi a scrivere Capitan Tsubasa, cioè Holly e Benji.

Non a caso, Kempes sarà l’uomo copertina di quella Coppa del Mondo - terminerà il torneo da capocannoniere, con 6 gol, senza essere una vera punta - ed è ingiusto che il ricordo delle sue prestazioni sia stato sotterrato nel tempo dagli studi sulla junta. Kempes era un trequartista freak, alto e molto fisico, che abbinava un uso magistrale del corpo nel gioco spalle alla porta e in progressione con un’innata tendenza verticale, sia con il pallone che senza. Il giocatore del Valencia aveva una sensibilità tecnica straordinaria su tutto il sinistro, compreso l’esterno, che usava spesso come una stecca da biliardo per dare sfogo alla sua grande visione di gioco. Kempes sapeva difendere il pallone, andare in profondità, creare gioco, segnare, tutto con la stessa incredibile qualità: forse avrebbe fatto terra bruciata allo stesso modo anche nel calcio contemporaneo, che sempre di più tende a premiare centrocampisti con fisici eccezionali.

È il suo dominio fisico sulla trequarti, insieme all’instancabile movimento senza palla di Luque, a distruggere definitivamente il Perù, che nel secondo tempo, dopo il 2-0 segnato da Tarantini allo scadere del primo, lascia infine la presa. Pochi minuti dopo il ritorno in campo, Kempes si inventa un altro gol incredibile, un tiro potentissimo alla destra del portiere da dentro l’area piccola, dopo aver chiamato un triangolo a Bertoni con un passaggio di petto su uno spiovente di Olguin da calcio di punizione.

Ma è il 4-0 di Luque due minuti più tardi, forse in fuorigioco, a mandare finalmente l’Argentina in finale. Nell’esatto momento in cui l’attaccante schiaccia di testa il pallone nella porta vuota, dopo la sponda volante ancora di Bertoni, esplode una bomba a casa di Juan Almann, ministro delle finanze della giunta che si era lamentato pubblicamente per lo sperpero di finanziamenti pubblici per l’organizzazione del Mondiale. La goleada è completata dai gol di Houseman e nuovamente Luque, dando il via alla festa albiceleste e alla leggenda della marmelada peruana.

40 anni di illazioni e ricostruzioni giornalistiche hanno sedimentato un’immagine distorta di quella partita, che nel tempo è diventata il simbolo di tutte le partite truccate, e di un Mondiale pilotato. Nella realtà dei fatti, però, non esistono prove solide che dimostrino l’imbroglio dietro quella partita, ed è sorprendente alla luce di una fama così consolidata.

Molti si appigliano alla designazione dell’arbitro italiano Sergio Gonella come guardalinee, accusato di avere un occhio di riguardo nei confronti dell’Albiceleste. Ma, ricordandoci che stiamo parlando di una partita che finì 6-0 e in cui l’Argentina colpì anche diversi pali e traverse, come prenderemmo oggi un’ipotesi di complotto basato su alcune sviste arbitrali?

Altri fanno invece riferimento invece ad alcuni accordi successivi alla partita tra il governo argentino e quello peruviano. Il giornalista inglese David Yallop, nel suo libro Como se robaron la Copa (2000), scoprì ad esempio che dopo la partita l’Argentina donò 35mila tonnellate di grano al Perù, sbloccando una linea di credito da 50 milioni di dollari. Nel 2012, invece, il senatore peruviano Genaro Ledesma disse che l’Argentina ricompensò il Perù accettando il trasferimento di 13 prigionieri che dovevano essere torturati. Queste ricostruzioni a posteriori, difficili da verificare, furono rifiutate da tutti i giocatori argentini, secondo cui invece la partita fu assolutamente regolare. Persino il più tormentato dai dubbi negli anni successivi, Leopoldo Luque, dichiarò in maniera piuttosto sprezzante: «Dico sempre: giocammo, fummo in ritiro quattro mesi, facemmo una partita brillante e a me diedero duecento calci. Se stanno ancora mandando soia e fagioli al Perù perché ci fu un accordo, noi non ci abbiamo nulla a che vedere».

In realtà, le uniche prove concrete a nostra disposizione sono le dichiarazioni dei giocatori del Perù, su cui l’ombra di quella partita si allungò per tutte le loro vite, come una maledizione.

Oblitas nel 1980 se ne andò in Belgio, al Sérésien, dove però i compagni lo provocavano in allenamento: «Juanito che bell’affare quello con l’Argentina, molti dollari, no?». Rodolfo Manzo, invece, se la prese con Quiroga, che non riuscì mai a lavarsi via la macchia delle sue radici argentine: «Quiroga fu il responsabile della goleada perché è argentino e pretende di danneggiare l’immagine degli altri. Da lui ci si può aspettare qualsiasi cosa. Giocò per fare una bella figura col suo paese e si prestò alla goleada. Se lo vedo, lo rovino».

Manzo fu il bersaglio principale del pubblico peruviano, che non gli perdonò mai il suo passaggio qualche anno più tardi al Velez, club di proprietà di Julio Petracca, principale costruttore delle opere del Mondiale. «Mi hanno rovinato, nessuno più si ricordò di me. Perché incolparono solo me?», disse una volta «So che parlò Oblitas, poi Quiroga. Se lo incontro la pagherà. Per quella falsa versione dei fatti mi si chiusero le porte. Nessuno mi diede l’opportunità di crescere nel mondo che amo, il calcio. Tutti i giocatori di quella squadra hanno scuole calcio ed io invece allevo maiali e faccio lavori di edilizia».

Quiroga fu uno di quelli che se la prese con Manzo per il suo passaggio al Velez, dando una versione biblica di quella che negli anni successivi assomigliò davvero a una maledizione. «Io penso che un Dio castiga quando qualcuno fa delle cose cattive. Credo che di tutti quelli che presero soldi, perché sono sicuro che qualcuno li ha presi, alcuni morirono, ed altri morirono per il calcio. Ti rendi conto? In quella partita giocò Roberto Rojas, uno che non aveva mai giocato. Morì in un incidente. E a me che esplose una bomba nello stadio [un attentato del gruppo terroristico Sendero Luminoso] non sono morto. Marcos Calderon, il tecnico, morì in un incidente aereo [un disastro aereo nel 1987, in cui morì tutta la squadra dell’Alianza Lima, nda]».

José Velasquez è tornato sull’argomento solo poche settimane fa, puntando il dito contro Manzo, Quiroga, Gorriti e Muñante. Di certo non è stato rispettato l’augurio del capitano Chumpitaz, l’unico giocatore peruviano che ebbe il coraggio di apparire di fronte ai microfoni subito dopo la partita contro l’Argentina: «Quello che è successo oggi è meglio dimenticarlo».

La finale

Mentre i peruviani sono costretti a scappare dallo stadio, perché c’è già qualcuno che li cerca per dargli dei traditori, l’autobus della Nazionale argentina si immerge nella folla che lo attende fuori, per toccarlo come si fa con le statue dei santi. La confusione è tale che il veicolo investe un’anziana a bordo strada, fratturandole una gamba. I giocatori, preoccupati, chiedono di scendere per aiutarla, ma lei da terra rassicura: «Non importa, non importa, l’Argentina ha vinto».

L’Albiceleste torna finalmente a Buenos Aires dopo l’esilio rosarino. La finale, contro l’Olanda, si gioca al Monumental, uno stadio che Carlos Alberto Lacoste amava particolarmente, perché fu lì che divenne un tifoso del River, quando suo padre decise di portarlo a vedere la partita d’inaugurazione contro il Peñarol.

La junta utilizzò nuovamente il suo usuale repertorio di bassezze. L’autobus olandese ci mise una vita ad arrivare allo stadio, incrociando per la strada diversi gruppi di tifosi argentini inferociti, e la Nazionale argentina inizialmente non si presentò per l’ingresso in campo, lasciando che gli “Oranje” rimanessero per diversi minuti al centro del campo, oggetto dell’ira del pubblico. Lo spettacolo sugli spalti è letteralmente infernale: una quantità incalcolabile di coriandoli e festoni vengono lanciati in campo, lasciando il prato imbiancato come tracce di neve sciolta ai bordi di una strada di montagna. Il Monumental sembra un vulcano sul punto di esplodere, con l’Olanda al centro del cratere.

Il Monumental, poco prima della finale (foto Getty Images).

La partita è bloccata e dura, come quasi tutte le finali. L’Argentina passa in vantaggio verso la fine del primo tempo seguendo la solita direttrice Luque-Kempes, confermando quanto contro i due non ci fossero rimedi al tempo. Il primo riesce a ricevere al limite dell’area, servendo in orizzontale il compagno che, con la solita forza devastante, prima trascina il pallone in area col sinistro, mettendo il corpo a difesa dell’intervento alle spalle di Haan, e poi colpisce in scivolata, con l’ultimo lembo di corpo a disposizione, per anticipare l’uscita di Jongbloed.

La Nazionale di Menotti lascia in vita l’illusione della Coppa del Mondo fino all’82', soprattutto grazie ad alcune grandi parate di Fillol, quando Rene Van de Kerkhof si inventa un cross tesissimo che viene messo in porta di testa, in maniera impeccabile, da Nanninga. Nemmeno dieci minuti dopo, a una manciata di secondi dal fischio finale di Sergio Gonella, un calcio di punizione battuto in area a casaccio da dietro il cerchio di centrocampo finisce inspiegabilmente sul piatto sinistro di Rensenbrink, lasciato libero di colpire dal solito, svagatissimo, Olguin. Solo “il patriottismo del palo”, come scrisse Eduardo Galeano, salva la porta di Fillol e permette all’Argentina di vincere, finalmente, la Coppa del Mondo.

Ci pensa, ovviamente, Mario Kempes, alla fine del primo tempo supplementare, con un gol senza senso. Riceve da Luque una palla che sembra troppo lunga al limite dell’area, ma con due tocchi in controtempo, entrambi con il sinistro, è già da solo davanti a Jongbloed: il primo d’esterno, con cui evita l’intervento in scivolata di Krol, il secondo d’interno, con cui trasforma Jansen in una statua di sale. Dopo una piccola carambola, la palla finisce in rete: Kempes corre con le braccia alzate come al solito, passa dietro la porta, ma poi si ferma ai limiti dell’area olandese, sembra volersi godere lo spettacolo.

Il secondo tempo supplementare è solo attesa del gol di Bertoni, che chiude la partita e consegna i Mondiali all’Argentina. L’emozione è tale che a Fillol cedono le gambe: si ritrova in lacrime, con le ginocchia a terra, le braccia incrociate sulle spalle e la testa rivolta verso il ventre: «In quel momento, ho l’immagine di Dio davanti a me». Verso di lui corre Tarantini, che si piega a terra e lo abbraccia, formando una statua umana a M al centro del campo.

Poco dopo, il primo e unico imprevisto del Mondiale: entra, correndo all’impazzata, un invasore di campo, un ragazzo senza braccia che si avvicina a Tarantini e Fillol nell’utopia irrealizzabile di volersi unire a quell’abbraccio. Per immortalare la scena uno dei fotografi presenti spende l’ultimo dei soli tre negativi disponibili al tempo per ogni partita. Giorni dopo El Grafico mette quella foto in copertina con il titolo “L’abbraccio dell’anima”, in un richiamo perfetto al logo del Mondiale, sublimandola a icona.

Nel frattempo, la festa esce fuori dallo stadio e contagia il resto della città. Alla Escuela Mecanica de la Armada (ESMA), un campo di concentramento del regime a circa 700 metri di distanza sulla stessa strada che porta al Monumental, i prigionieri sentono la partita alla radio, attraverso gli altoparlanti disseminati nel carcere, mentre possono udire nell’aria le grida dello stadio. Al gol di Bertoni tutti saltano e esultano. Uno dei principali dirigenti della ESMA, Jorge Acosta detto “El Tigre”, entra nelle celle gridando: «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!». I torturatori sono talmente euforici che prendono alcuni prigionieri, li mettono in macchina e li portano in giro a festeggiare con loro, per strada.

Alcuni, come il filosofo ed ex portiere dell’Almagro Claudio Tamburrini, approfittano del momento per scappare, mischiandosi alla gente. Altri rimangono ipnotizzati da quello che vedono. Graciela Daleo, una delle sopravvissute, nel documentarioLa Historia Paralela racconta il momento in cui, arrivati a Plaza de Mayo, rimangono imbottigliati nel traffico festante che ha invaso il centro di Buenos Aires: «Non potendo più muoverci, ho chiesto di poter aprire il tettuccio apribile e di sporgermi per guardare da sopra. Ho visto questa massa di gente… è stato un momento di solitudine terribile. Mi sono messa a piangere, ho avuto la certezza che anche se mi fossi messa a gridare nessuno se ne sarebbe accorto».

Poco dopo viene portata in un ristorante pieno di gente in festa per la vittoria del Mondiale: «Ho chiesto il permesso di poter di andare in bagno: ho tirato fuori il rossetto per scrivere sullo specchio “Massera assassino, viva i Montoneros”. Ho continuato a scrivere fino a finire il rossetto. Questo piccolo atto di resistenza, scrivendo le parole proibite, seppur solo dentro un bagno, sono state il segnale che mi hanno permesso di dirmi: sono ancora una persona».

Nessuno sapeva?

Storie come quelle di Graciela Daleo hanno cementato nel tempo la legacy negativa di quel Mondiale. Non esiste più un ricordo sportivo di Argentina ’78: gli argentini lo hanno messo sotto il tappeto del Mondiale messicano vinto da Maradona, il resto del mondo lo ha semplicemente cancellato. Il racconto di quel torneo è ormai legato indissolubilmente agli orrori della junta: quello del ’78 è il Mondiale della vergogna, della colpa, del pentimento per aver gioito per qualcosa di futile mentre, a pochi metri di distanza, migliaia di persone soffrivano, scomparendo nel nulla. Il racconto abituale, espresso in centinaia di forme diverse in articoli, libri, documentari, è quello di un regime militare che tira i fili dietro a giocatori, allenatori e arbitri per intrattenere i propri cittadini e l’opinione pubblica internazionale, distraendoli dai crimini che venivano commessi, nascosti in piena vista.

È una raffigurazione caricaturale, che ha il vantaggio di essere posta in un passato comodamente lontano, senza responsabili. La più grande finzione storica che aleggia su Argentina ’78 è la teoria per cui nessuno sapeva, e che i generali abbiano raggiunto lo scopo di distrarre l’opinione pubblica dagli orrori del regime.

In realtà, soprattutto nei mesi precedenti all’inizio del torneo e soprattutto in Europa, il dibattito sull’eventuale boicottaggio del Mondiale prima, e se e come raccontarlo poi, fu molto violento, proprio per le testimonianze di quello che accadeva nel paese sudamericano. Il 16 maggio del 1978 Eduardo Galeano, tanto per fare l’esempio più celebre, scriveva su Lotta continua: «L’Argentina si è trasformata in un mattatoio. Tecnica delle sparizioni: non ci sono prigionieri di cui qualcuno possa chiedere il rilascio, né martiri di cui doversi preoccupare […] tutti i giorni qualcuno viene ucciso senza processo o condanna». Molti proposero il boicottaggio, soprattutto in Francia, dove a questo scopo si raccolsero 150mila firme, tra cui quelle di Sartre, Lévy e Tourain.

Persino in Italia, dove l’effetto del rapimento di Aldo Moro finì per smorzare le polemiche legate al Mondiale, si discusse molto. Se è vero che il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport decisero di minimizzare quello che accadeva in Argentina, molto probabilmente per i legami tra il gruppo di comando di Rizzoli e la loggia massonica P2 di cui facevano parte anche molti generali argentini, è vero anche che quel Mondiale ebbe almeno il merito di risollevare alcuni interrogativi essenziali, legati ai limiti del lavoro del giornalista sportivo: ha senso parlare di sport mentre è in corso una tragedia di dimensioni colossali? Un buon giornalista sportivo deve parlare di politica?

Ne uscirono tante risposte diverse. La più complessa fu quella di Gian Paolo Ormezzano che, come riportato da Alberto Molinari e Gioacchino Toni nel loro Storie di sport e politica, decise di tenere aggiornati i lettori di Tuttosport sulle contestazioni al regime giornalmente, contro chi considerava il calcio come «una caramella da succhiare come ebeti, per sentire gusti completamente diversi da quelli del mondo». Gran parte del giornalismo sportivo italiano, però, si appiattì sulla posizione di Gianni Brera, già un’istituzione al tempo, che, interrogato sulla faccenda, dichiarò a Repubblica che non era interessato a ciò che accadeva fuori dagli stadi.

Non è vero che nessuno sapeva, semplicemente una parte del giornalismo sportivo e quasi tutto il mondo del calcio se ne fregò. A proposito di questo, è interessante notare come la rappresentazione che si fa oggi di quel Mondiale, sempre pregna di ipotesi di cospirazioni dall’alto, dimentica spesso di citare le responsabilità tangibili che ebbe il calcio nella sua totalità.

Foto Getty Images

Quelle della FIFA, innanzitutto, che ebbe la possibilità di spostare il Mondiale o almeno di utilizzarlo come forma di pressione nei confronti del governo argentino, e che invece se ne lavò le mani. Il 28 marzo del 1976, pochi giorni dopo il golpe che instaurò la junta, il vicepresidente della FIFA, Hermann Neuberger, al termine di una visita lampo a Buenos Aires, affermò che il cambio del governo non poteva incidere sul Mondiale, ripetendo la solita cantilena che lo sport non ha nulla a che fare con la politica. Nel 1980, a due anni dal Mondiale argentino, la carica di vicepresidente della FIFA fu data a Carlos Alberto Lacoste.

I calciatori e gli allenatori, dal canto loro, si sedettero nella loro comoda bolla, incapaci o disinteressati ad intervenire rispetto a quello che succedeva fuori dai loro ritiri. Poche settimane prima dell’inizio dei Mondiali la sezione italiana di Amnesty International chiese ai calciatori di aderire a un appello con la finalità di dimostrare «che la partecipazione ai Mondiali sarà pienamente consapevole e che non significherà un appoggio implicito a un regime che tortura». Non lo firmò praticamente nessuno, a parte pochissime eccezioni come Agostino Di Bartolomei, Aldo Maldera e l’allenatore Nereo Rocco (nessuno di questi, comunque, partecipò al Mondiale). Artemio Franchi, che accompagnò la Nazionale italiana in Argentina, all’arrivo a Buenos Aires dichiarò: «Certamente la situazione politica, molto complessa tra l’altro, non facile da catalogare con etichette superficiali, come farà qualcuno per farsi prendere in considerazione, imporrebbe posizioni fortemente critiche, ma perché sollevarle proprio noi, ora, quando tutto procede in nostro vantaggio?».

Anche nelle altre Nazionali la musica non era molto diversa. Il capitano della Germania, Berti Vogts, durante il Mondiale disse: «L’Argentina è un paese nel quale regna l’ordine. Io non ho visto nessun prigioniero politico».

Eppure nella narrazione che si fa oggi di quel Mondiale sopravvivono un grande numero di miti e leggende. Non è vero, ad esempio, che Cruyff disertò quel Mondiale per mandare un segnale contro la dittatura argentina: come lui stesso ha dichiarato circa dieci anni fa, rimase a casa per preoccupazioni legate alla salute della sua famiglia, che nel 1977 era stata tenuta in ostaggio da una banda di malviventi. Non è vero, allo stesso modo, che l’Olanda si rifiutò di andare al ricevimento dopo la finale per non incontrare Videla (Neeskens raccontò che era impossibile uscire dall’albergo per la ressa), e non è vero che Mario Kempes si rifiutò di stringergli la mano per protesta, come ha ammesso recentemente con grande onestà intellettuale. Forse abbiamo inconsciamente bisogno di eroi positivi.

Foto Getty Images.

Nel frattempo il racconto di Argentina ’78 continua ad invecchiare come il ritratto di Dorian Gray, sempre più terribile e grottesco, mentre il mondo del calcio commette gli stessi peccati, rimanendo invece giovane e innocente. Pensateci: non vi viene in mente un paese con un governo autoritario, che reprime il dissenso, incarcera gli oppositori, schiavizza i lavoratori e utilizza il calcio per ripulire la sua immagine in cui si sta giocando un Mondiale proprio in questi giorni?

Come ricorderemo questo Mondiale tra 40 anni? Anche i gol di Mbappé e le prodezze di Hazard saranno dimenticate così che il calcio possa continuare ad assolvere se stesso?

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