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Il re dell'est
18 set 2015
18 set 2015
Ricordo di Andriy Shevchenko.
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Ultima giornata del campionato 2005/06, clima surreale a San Siro. Si gioca Milan-Roma, ma non interessa a nessuno. Sono da poco uscite sui giornali le intercettazioni che costituiranno lo scandalo Calciopoli e si sa già che il risultato del campo conterà poco o nulla. A rendere ancora più surreale l'atmosfera è la presenza in Curva Sud di Andriy Shevchenko, che assiste alla partita in polo blu e col tutore al ginocchio infortunato. L'interessamento del Chelsea è cosa nota e i tifosi rossoneri hanno paura di perderlo. Gli cantano «Resta con noi», alcuni si avvicinano per chiedergli se rimarrà, lui imbarazzato risponde che «è difficile». Viene anche creato un sito, "Sheva resta con noi" (che ovviamente non esiste più), ma non servirà a far cambiare idea al campione ucraino. L'addio si consumerà in una conferenza stampa altrettanto surreale, in cui Sheva sembra doversi autoconvincere che la sua volontà è davvero quella di lasciare il Milan. https://youtu.be/JD33-ig7ZsQ

«La vittoria della lingua inglese sulla lingua italiana», la motivazione geopolitica di Adriano Galliani.

Fa un effetto strano, a distanza di quasi dieci anni, confrontare la cessione di Sheva con le altre cessioni illustri del Milan, quella di Kaká nel 2009 e di Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva nel 2012. La vendita di Ibra e Thiago Silva per molti è stata così importante da segnare un momento di svolta nella storia recente rossonera. Kaká andò via tra la disperazione e la rabbia dei tifosi nei confronti della società, dopo che a gennaio era stata anche organizzata una manifestazione contro la sua cessione al Manchester City. Con Sheva invece le cose andarono diversamente. Tra gli articoli dell'epoca si possono leggere frasi come questa: «(...) l'addio però non ha particolarmente toccato i tifosi: nonostante il forte dispiacere, insomma, il lutto è stato elaborato in fretta». Sheva nel 2006 è stato dimenticato in fretta, al contrario di quanto successo con Kaká, Ibra e Thiago Silva, e anche adesso che ha smesso di giocare sembra che il suo valore non sia del tutto riconosciuto. Non so in quanti lo metterebbero in una lista dei migliori attaccanti degli ultimi 20-25 anni. Per farmi un'idea sono andato a rileggermi le top 11 di tutti i tempi che diversi collaboratori hanno scritto nella seconda puntata de "La posta de l'Ultimo Uomo". Oltre che nella mia formazione, Sheva appare solo un'altra volta, in top 11 dominate da Messi, i due Ronaldo (Cristiano e il Fenomeno) e da van Basten. Shevchenko, insomma, non sembra appartenere a quella categoria. Eppure negli ultimi 20-25 anni in pochissimi possono dire di essere stati determinanti e completi come lui. Esercito e disciplina Andriy Shevchenko non doveva fare il calciatore. Suo padre Mykola, meccanico dell'esercito sovietico, avrebbe desiderato anche per il figlio una carriera militare. Alexander Shpakov, l'osservatore della Dinamo Kiev che scoprì Sheva all'età di 10 anni, ricorda la fatica fatta per convincere il padre: «Gli dissi che il calcio l'avrebbe irrobustito e aiutato per la carriera militare». Pur non entrando nell'esercito, la retorica militare e della disciplina sarà una costante della carriera di Shevchenko. Non bisogna però pensare che sia cresciuto in una caserma. «Non ottieni nulla picchiando i bambini, ma devi essere rigido. Solo combinando amore e severità ottieni un buon risultato». Sono le parole di papà Mykola, ma non ci sarebbe stato nulla di strano se a pronunciarle fosse stato Valeriy Lobanovskyi, "il Colonnello", la persona cui Shevchenko deve la propria carriera. «Era affettuoso, ma duro e la sua severità era un modo per spingermi a dare il meglio», ricorda l'allievo. Il loro rapporto trascendeva quello tra allenatore e giocatore. Shevchenko parla di Lobanovskyi in questi termini: «È il dio del calcio ucraino, la persona più importante, il padre del calcio ucraino. (...) Mi ha influenzato in tanti modi. Per prima cosa ha completamente cambiato la mia visione del calcio. Poi ha cambiato il mio modo di pensare come persona. Era un grande anche come filosofo». Lobanovskyi, invece, non lo avrebbe scambiato con Ronaldo «perché anche quando non segna Shevchenko è un giocatore utile alla squadra». È una dichiarazione del 1998 e la versione di Ronaldo di cui parla Lobanovskyi è la migliore di sempre. Esordi e successi con la Dinamo Shevchenko non aveva un talento fuori dalla norma come Ronaldo, ma sin da ragazzino si distingue per la facilità con cui trova la porta. Con la squadra Under-14 della Dinamo Kiev è il capocannoniere di un torneo per squadre giovanili dedicato a Ian Rush organizzato in Galles. Come premio riceve un paio di scarpe dallo stesso ex attaccante del Liverpool. «Ci giocavo anche se erano piccole, finché non mi sono spuntati fuori gli alluci», rievoca l'ucraino. A 16 anni il suo percorso da calciatore rischia di interrompersi prima ancora di iniziare. Viene respinto dall'Università nazionale di educazione fisica e dello sport di Kiev per non aver superato una serie di test. È davanti a un bivio: continuare col calcio o dare retta al padre. Riesce a convincere la famiglia e nel giro di due anni esordisce in prima squadra con la Dinamo Kiev. Segna un solo gol in campionato, ma in Coppa d'Ucraina è il capocannoniere con 6 reti. È la stagione 1994/95 e ha 18 anni. La stagione successiva è quella della consacrazione in patria. Con 16 gol in campionato è secondo nella classifica marcatori dietro Timerlan Huseinov (20 gol). Nel frattempo ha già esordito in Nazionale e alla quarta presenza trova la prima rete, contro la Turchia. Un infortunio al menisco rallenta la sua ascesa: nella stagione 1996/97 gioca meno e segna meno (solo 6 gol in campionato), ma la sua strada incrocia quella di Lobanovskyi ed è la svolta della carriera. Shevchenko gli sarà riconoscente per sempre: «Quando l'ho conosciuto pensavo tanto a me stesso nel gioco. Lui ha spiegato bene a tutti cosa vuol dire lavorare per un collettivo. Veramente, ha cambiato tantissimo la mia visione del calcio. Ci ha aiutato a capire che con la concentrazione, con la voglia, con il senso del gruppo, si può battere qualsiasi avversario, anche se è tanto più forte di te». Nel gennaio del 1997, quando Lobanovskyi torna a sedersi sulla panchina della Dinamo, la squadra di Kiev domina in patria, ma fatica in Europa. Nelle tre edizioni di Champions League giocate fino a quel momento da Shevchenko (due in realtà, perché la Dinamo venne squalificata nel 1995 dopo aver superato il preliminare per un fallito tentativo di corruzione dell'arbitro della partita contro il Panathinaikos), la Dinamo non è mai andata oltre la fase a gironi. Lobanovskyi, leggenda del club e unico allenatore capace di vincere in Europa con la Dinamo (due Coppe delle Coppe e una Supercoppa europea), è ben più del grande saggio chiamato in un momento di difficoltà, a quasi 24 anni di distanza dalla sua prima esperienza sulla panchina della Dinamo. Shevchenko spiega così l'eccezionalità del suo maestro. «Era un uomo inflessibile e molto intelligente. Non intendo solo a livello tattico. Per avere successo non basta la tattica. Lobanovskyi guardava sempre avanti, cercando di capire come si sarebbe evoluto il calcio. È stato il primo allenatore ucraino a utilizzare un approccio scientifico per ottenere il meglio dai propri giocatori». Lobanovskyi trasforma Shevchenko in un giocatore universale: «Mi diceva sempre che un attaccante doveva saper creare e difendere, non solo segnare gol». C'è una serata in particolare in cui l'Europa si accorge del risultato di questa trasformazione. Champions League 1997/98, la Dinamo è nel girone con PSV, Newcastle e Barcellona, quello con Louis van Gaal in panchina, Figo e Rivaldo in campo. L'andata in Ucraina contro i blaugrana finisce clamorosamente 3-0. L'impresa ovviamente non passa inosservata, anche se Shevchenko non segna. «Un mio amico mi disse: "Vediamo che fate al ritorno", e scommise con me che non avrei segnato 3 gol. Finì col pagare quella cena». Al Camp Nou, il 5 novembre 1997, Shevchenko segna tre gol in 45 minuti, due molto simili, anticipando di testa Vítor Baía, e uno su rigore dopo una grande azione personale. Riceve palla sulla destra, punta Fernando Couto sul vertice dell'area di rigore e lo evita spostandosi il pallone con il destro verso il centro del campo. Ha il corpo rivolto verso la linea del fallo laterale, la palla sul sinistro e Sergi che si avvicina per raddoppiare il compagno: Shevchenko lo anticipa con una sterzata improvvisa e Sergi a quel punto non può far altro che stenderlo. Ancora prima di rialzarsi Shevchenko reclama il pallone per battere il rigore: palla a destra e portiere a sinistra, una scena che si ripeterà anni dopo nel momento più alto della sua carriera. https://youtu.be/HBfffN62kmA

È la prima tripletta di un calciatore ucraino in Champions League. Il grande pubblico impara a pronunciarne il cognome.

«Fu la serata in cui fui scoperto. Dopo non potevo più nascondermi» ricorda Shevchenko. L'attaccante che Lobanovskyi ha modellato non è solo un finalizzatore implacabile, ma è in grado di segnare da solo e di rendersi utile in fase difensiva. Nell'azione del 4-0 della Dinamo al Camp Nou, per esempio, contribuisce con il suo pressing su Vítor Baía a provocare il successivo errore di Ferrer. È veloce, potente, tecnicamente completo. Segna di destro, di sinistro e di testa, batte punizioni e rigori. Per i difensori è un tormento, perché è intelligente nello smarcarsi, li prende alle spalle, li brucia in velocità, ha un tempismo eccezionale ed è a suo agio dentro e fuori l'area di rigore. Può giocare da centravanti o da seconda punta, ma soprattutto tende a esaltarsi più la squadra avversaria è forte. «Probabilmente dipende dalla mia concentrazione. Ho sempre giocato le partite più importanti con grande voglia di vincere e con il massimo sforzo possibile» dirà quando è già al Milan. Dopo il 4-0 al Barcellona, comunque, la Dinamo non riesce più a vincere una partita. Supera il girone da prima in classifica, ma viene battuta ai quarti di finale dalla Juventus di Marcello Lippi, che arriverà in finale ma verrà sconfitta dal Real Madrid. Nella Champions League successiva Shevchenko e la Dinamo non solo si confermano, ma si superano. L'ucraino è il capocannoniere (8 gol come Dwight Yorke, 10 considerando i preliminari), la sua squadra arriva fino in semifinale, ma viene eliminata dal Bayern Monaco dopo essere stata anche in vantaggio 3-1 all'Olimpiyskiy nella gara d'andata. Neanche a dirlo, due dei tre gol li segna Shevchenko, a conferma della regola secondo cui più la partita è importante più si esalta. Ancora meglio aveva fatto nei quarti contro i campioni in carica del Real Madrid, eliminati con tre gol in due partite. https://youtu.be/3WVaK5HSayc?t=309

Dinamo Kiev-Real Madrid 2-0, ritorno dei quarti della Champions League 1998/99. Quando si dice giocatore universale. Nell'azione del secondo gol parte da centrocampo, defilato sulla sinistra. Dopo un doppio scambio ad alto tasso tecnico con Rebrov, scatta all’improvviso puntando la porta, sembra quasi non sentire un calcio sul petto di Jarni e cadendo batte Illgner.

Viene votato miglior attaccante della Champions League e poi a fine anno arriva terzo nella graduatoria del Pallone d'oro. Quando viene acquistato dal Milan, insomma, è già un giocatore affermato, in cerca della consacrazione fuori dai confini nazionali, ma già determinante in Champions. In cinque stagioni alla Dinamo Kiev ha sempre vinto il campionato (una volta da capocannoniere) e per tre volte la Coppa d'Ucraina. Primi anni al Milan Shevchenko, che diventa subito Sheva, è il colpo di mercato del Milan campione d'Italia nel 1999, una squadra di grande qualità (tra gli altri Maldini, Albertini, Costacurta, Leonardo, Boban, Weah), ma che ha bisogno di un ricambio generazionale (oltre a Sheva, del ciclo vincente dei primi anni Duemila, quell'estate vengono comprati Serginho e Gattuso). L'ambientamento è rapidissimo: segna all'esordio in campionato a Lecce e al primo anno in Serie A è il capocannoniere con 24 gol (l'ultimo straniero capocannoniere all'esordio in Serie A era stato Michel Platini). Tutti questi gol, comunque, non portano nessun titolo. Il Milan finisce terzo in campionato, viene eliminato nella prima fase a gironi della Champions League e ai quarti di finale di Coppa Italia. Sheva però ci mette poco a farsi conoscere: alla quinta giornata i rossoneri giocano in trasferta contro la Lazio futura campione d'Italia. Finisce 4-4 e Sheva fa tre gol, ribaltando il provvisorio 1-3 in un 4-3 che dura fino al definitivo pareggio di Salas. https://youtu.be/SiCDxMExYeQ

Tre gol e mezzo, perché nell'azione dell'1-1 la giocata decisiva è il suo passaggio filtrante di sinistro sulla corsa di Serginho.

Segna due gol alla Juventus, uno alla Roma, ma è con l'Inter che dà il meglio di sé. Va in gol in ognuno dei quattro derby giocati quell'anno (i due di campionato, più due in Coppa Italia), nel primo dei quali incrocia per la prima volta Ronaldo, pur partendo dalla panchina. Quando entra, il Milan è sotto 1-0 proprio per un rigore realizzato dal Fenomeno (che poi verrà espulso). Al terzo pallone toccato guadagna un fallo sulla sinistra saltando con un tunnel Javier Zanetti. Al quarto colpisce la traversa anticipando Domoraud con una grande elevazione su un cross di Serginho successivo a quella stessa punizione. Al quinto segna di stinco con un rimpallo causato dalla traversa colpita appena prima. È probabilmente il gol più assurdo della sua carriera, ma è fondamentale per la rimonta del Milan, che vincerà il derby con un gol al 90' di Weah. Contro il Bari a San Siro è sulla propria trequarti quando gli arriva un pallone rinviato dalla difesa del Milan. Lo controlla girandosi per puntare la porta. È da solo contro Garzya e Andersson. Si lascia dietro Garzya, che prova a trattenerlo e a buttarlo giù in scivolata, ma si ritrova per terra senza riuscire a disturbare la corsa di Sheva verso la porta. Andersson indietreggia provando a temporeggiare, Sheva lo disorienta con una finta di corpo, poi si sposta il pallone sul sinistro e lo incrocia sul palo lontano battendo Mancini. https://youtu.be/YlJ4MUXdeEw

Velocità, forza fisica, resistenza, classe e la lucidità di calciare in diagonale con il sinistro dopo sessanta metri palla al piede.

Nei primi anni al Milan Sheva fa cose eccezionali, ma non è supportato da una squadra all'altezza: in tre stagioni segna 80 gol, ma il Milan arriva terzo, sesto e quarto. Alcuni di questi gol sono molto belli (tipo questo all’Udinese, con una sterzata che ricorda molto quella al Camp Nou del 1997 o questo al Venezia, che lui stesso definisce «un gol da 9»), ma uno in particolare è forse il più bello di tutta la sua carriera. 9 dicembre 2001, Milan-Juventus a San Siro. Riceve una sponda di Javi Moreno poco dopo il centrocampo e stoppa la palla con la coscia sinistra, lasciandosi dietro Davids. Salta secco Iuliano allargandosi a destra e mandando per terra Pessotto, che viene preso in controtempo. A quel punto è sul vertice destro dell’area di rigore, alza lo sguardo per controllare se qualche compagno ha seguito la sua azione, poi conclude con il collo interno, imprimendo al pallone un effetto particolare, in pallonetto a incrociare, superando Buffon sul secondo palo. https://www.youtube.com/watch?v=5Gprcg0jUdU

Il gol più bello della sua carriera.

Su questo gol resterà la contrapposizione tra il partito di chi dice che ha tirato e di chi dice invece che ha crossato. Dal racconto di Sheva emerge una terza via: «Stavo calciando in porta e poi quando ho visto che la palla è entrata così mi sono sorpreso anch’io. (…) Non ho avuto altra scelta, se no andavo fuori dallo specchio della porta. Ho calciato e poi questo tiro mi ha sorpreso, ho detto: “È impossibile”». Quindi, sì, ha tirato in porta, ma nemmeno lui si aspettava di segnare in quel modo. C’è da dire, comunque, che se è vero che è la traiettoria del pallone a rendere il gol spettacolare, la giocata in mezzo a quattro juventini prima del tiro è tutt’altro che banale. E la capacità di controllare il proprio corpo e di coordinarsi pur andando in direzione contraria rispetto allo specchio di porta merita come premio una traiettoria così bella, anche se non del tutto voluta. Cambio di rotta L’estate del 2002 è fondamentale per la storia del Milan. Alla squadra che l’anno prima si era rinforzata con Pirlo, Rui Costa e Inzaghi vengono aggiunti Nesta, Seedorf, Tomasson (utilissima prima riserva in attacco) e Rivaldo (fresco campione del mondo, ma deluderà le attese). Carlo Ancelotti riesce a dare equilibrio a una formazione tecnicamente eccezionale, ma non molto dinamica, facendo convivere Pirlo, Seedorf, Rui Costa e due tra Sheva, Inzaghi e Rivaldo. La squadra, stavolta, è competitiva, ma sarà Sheva a deludere le aspettative. È la lunga coda della crisi della seconda metà della stagione precedente, quando raramente è al top della condizione fisica, ha degli acciacchi, ma gioca sul dolore andando a peggiorare la situazione. Nel preliminare d’agosto contro lo Slovan Liberec si rompe il menisco esterno del ginocchio sinistro e la stagione 2002/03 per lui inizia così a fine ottobre. Il Milan nel frattempo è partito alla grande in campionato, sarà campione d’inverno, ma nel girone di ritorno subirà la rimonta della Juventus, che vincerà lo scudetto. Gli sforzi della squadra di Ancelotti sono concentrati sulla Champions League. Nella prima parte della competizione i rossoneri vengono trascinati da Inzaghi, Sheva segna il gol decisivo contro il Real Madrid (quello dei Galacticos, con Roberto Carlos, Figo, Zidane, Raúl e Morientes) nella prima partita della seconda fase a gironi e poi più nulla, almeno fino ad aprile. In campionato, per il primo anno, chiude senza andare in doppia cifra (5 gol), segnando comunque contro la Juve nella partita che avrebbe potuto riaprire il discorso scudetto. Ma è in Champions che concentra le sue reti più pesanti. Segna all’Ajax nei quarti di finale, ma soprattutto è sua la giocata decisiva nella semifinale di ritorno contro l’Inter. https://youtu.be/g6BSyXzdWsI?t=433

Difficile ricordare due partite più tirate di quei due derby in semifinale di Champions League. È proprio in queste occasioni che i campioni fanno la differenza.

Quel gol manda il Milan in finale di Champions League contro la Juventus a Manchester. Il Milan ci arriva dopo aver giocato la finale di andata di Coppa Italia contro la Roma, vinta 4-1 con il sigillo finale di Sheva. Dopo tre anni senza vincere nulla l’ucraino ha la possibilità di fare una prestigiosa doppietta. La finale di Manchester non passa alla storia per la sua spettacolarità. Domina la tensione ed è equilibrata fino all’ultimo. Sarebbe stata di certo tutta un’altra partita se a Sheva non venisse annullato un gol nei primi minuti. Si va invece ai rigori e a Sheva tocca la responsabilità più grande: tirare l’ultimo, quello decisivo. Gli attimi precedenti la rincorsa di quel rigore sono il momento più iconico della sua carriera. Guarda Buffon e poi l’arbitro Merk una, due, tre, quattro volte, quasi fosse un tic nervoso. Mesi dopo racconterà che durante i 50-60 metri per andare a prendere il pallone gli è passata davanti tutta la sua vita. Impossibile allora nascondere la tensione, ma in quello sguardo così concentrato c’è anche la sicurezza di chi ha già deciso l’angolo verso cui calciare, percepibile dal morso al labbro prima di cominciare la rincorsa. Come a dire: o la va o la spacca. L’esito è cosa nota. https://www.youtube.com/watch?v=W5J37QWiQ4M

Palla a destra, portiere a sinistra.

È un gol che fa da spartiacque della carriera di Sheva e lo proietta in una nuova dimensione. Da grande giocatore diventa una stella di valore assoluto. Ai gol e alle giocate si aggiunge il trofeo più prestigioso di tutti, il tassello che mancava per la consacrazione definitiva. La Champions League, poi, verrà seguita pochi giorni dopo dalla vittoria della Coppa Italia. Per Sheva sarà solo l’inizio. Al top Il giocatore che comincia la stagione 2003/04 ha ancora maggiore sicurezza nei propri mezzi ed è ancora più consapevole della propria importanza in una squadra pur fortissima, ricca di campioni, alla quale è appena stato inserito anche Kaká. Con le responsabilità che crescono, il rendimento di Sheva aumenta. Parte segnando il gol decisivo nella Supercoppa europea (1-0 al Porto di Mourinho), poi in campionato mette in fila 12 gol nelle prime 11 giornate. Alla quindicesima è in programma lo scontro diretto con la Roma, prima in classifica con tre punti di vantaggio sul Milan, il cui obiettivo dichiarato è proprio lo scudetto. È una sfida decisiva, che Sheva risolve con una doppietta. Al primo dei due gol sono affezionato in maniera particolare. È un gol strano, ma capace di descrivere bene, secondo me, chi era Shevchenko. Innanzitutto per lo scatto bruciante in profondità, un suo classico. Poi per l’intelligenza e la velocità della giocata: quando stoppa il pallone col petto capisce immediatamente che non ha il tempo e lo spazio per controllarlo. Lo tocca allora in maniera sporca, con l’esterno del piede sinistro, ma alzandolo in uno strano pallonetto che sorprende Pelizzoli. La reazione del portiere romanista è la cosa più bella di questo gol: Pelizzoli non riesce a leggere la situazione, fa un saltello all’indietro poi cade a terra seguendo per tutto il tempo la traiettoria della palla con lo sguardo senza mai abbozzare un intervento. https://youtu.be/0J3zzrdEr3A?t=23s

Una velocità di pensiero e d’esecuzione fuori dalla norma.

A fine anno il Milan vince lo scudetto, Sheva è capocannoniere con 24 gol ed è decisivo anche nella sfida di ritorno contro la Roma, vinta 1-0, che assegna aritmeticamente il tricolore. Dopo la Champions League è il secondo grande titolo che Sheva vince col Milan e come a Manchester è lui a segnare il gol decisivo. Ad agosto è determinante pure nella Supercoppa italiana, vinta 3-0 sulla Lazio con una sua tripletta. Più passa il tempo più aumenta la sua incidenza nel gioco del Milan e la sua capacità di orientare le partite. I primi mesi del campionato 2004/05 sono probabilmente quelli in cui è più forte la dipendenza del Milan dai gol di Sheva, che in più di un’occasione (ad esempio contro la Lazio o contro la Reggina) nasconde le difficoltà rossonere vincendo le partite da solo o quasi. In campionato, nelle prime 15 giornate, segna 11 gol, mentre nel girone di Champions League, che il Milan chiude al primo posto, segna al Celtic e poi al Barcellona di Eto’o, Deco e Ronaldinho, sia all’andata (vittoria per 1-0), che al ritorno (sconfitta per 2-1). A dicembre vince il Pallone d’oro ed è l’apice della carriera di Sheva. Nel momento in cui è riconosciuto come il miglior calciatore in Europa non dimentica chi è stato determinante nel farlo arrivare fino a lì e, come aveva fatto con la Champions League del 2003, porta il Pallone d’oro alla statua del maestro Lobanovskyi a Kiev. Sembra tutto perfetto: è al top, ma è sempre il ragazzo rispettoso e determinato modellato dal “Colonnello”. Eppure proprio da lì inizia il lungo declino. Istanbul Nell’anno in cui deve difendere il Pallone d’oro, Sheva è risucchiato nel più grande buco nero della sua carriera. 25 maggio 2005, Istanbul. Per una volta è determinante, ma in negativo, per la sua squadra. Nel percorso per arrivare a quella finale, comunque, Sheva era stato ancora una volta decisivo. Nei quarti segna all’Inter sia all’andata (al rientro dopo essersi letteralmente rotto la faccia) che al ritorno, in una partita che viene sospesa sull’1-0 per il lancio di oggetti in campo dei tifosi dell’Inter (col famoso petardo che colpisce Dida). In semifinale, invece, segna il primo gol del 2-0 sul PSV Eindhoven a San Siro. A Istanbul, come tutto il Milan, gioca un gran primo tempo. Confeziona l’assist per il 2-0 di Crespo e gli viene annullato un gol, proprio come a Manchester. In quella partita, però, viene ricordato soprattutto per quello che succede al 118’, quando come al solito salta con tempismo perfetto in area, Dudek respinge il suo colpo di testa e poi, con la porta spalancata, non riesce a segnare, tirando addosso al portiere polacco. https://www.youtube.com/watch?v=yqZ1ee2NHOE

A distanza di 10 anni Sheva ancora non riesce a capire come abbia fatto quel pallone a non entrare in porta.

Ai rigori, come a Manchester, tocca a Sheva tirare l’ultimo. Stavolta, però, non vale la vittoria, ma la sopravvivenza. Se sbaglia, la partita è finita. Ripete quel movimento nervoso a guardare prima il portiere e poi l’arbitro, ma lo sguardo non è determinato come a Manchester. Se all’Old Trafford, nell’andare a prendere il pallone, gli era passata davanti tutta la vita, a Istanbul deve essergli passato davanti il film di quella partita e in particolare l’errore davanti a Dudek. Quando viene inquadrato non sembra nemmeno pensare al rigore e nel movimento con la testa a incrociare lo sguardo del portiere e poi dell’arbitro non c’è tensione, ma smarrimento. Sheva ha l’occhio spento, prova a richiamarsi a quel gesto che l’aveva reso celebre a Manchester, ma è solo un’imitazione mal riuscita. È tutto diverso, la rincorsa è molle, fiacca. Se a Manchester sapeva già da tempo dove tirare, a Istanbul tira giusto perché deve farlo e quel che viene fuori è un regalo a Dudek. https://youtu.be/vWunO5w3sKg?t=16m36s

Il mondo capovolto nel giro di due anni.

Non c’è lieto fine in questa storia, perché nell’estate del 2006 Sheva va al Chelsea e non può quindi prendersi la rivincita sul Liverpool e sul Boca Juniors (contro cui aveva perso la Coppa Intercontinentale nel 2003) che molti suoi compagni si prenderanno nel 2007. Anzi, deve pure fare i conti con il rancore di tifosi ed ex compagni. Il bacio alla maglia Sheva esordisce con il Chelsea nella Community Shield contro il Liverpool. Segna un gol dei suoi: scatto in profondità, controllo con il petto e destro aperto per mandare il pallone all’angolino. Nell’esultanza tira su la maglia, non del tutto per coprirsi la faccia (spesso nel Milan esultava così), ma quanto basta per portarla vicino al viso e baciarla. I tifosi del Milan la prendono malissimo e anche un suo ex compagno come Gattuso è molto duro: «Non chiedetemi nulla, non posso dire quello che penso». Sheva è costretto a difendersi: «Le persone danno troppa importanza a questi gesti, non guardano la persona. Al Milan non ho conquistato i tifosi baciando la maglia, ma per quello che ho fatto in campo. Lo stesso voglio fare al Chelsea». Non succederà. Sheva non riesce ad ambientarsi in Inghilterra e ai ritmi della Premier League. Non è più il calciatore veloce e potente di un tempo (Mourinho lo prova addirittura a centrocampo), è spesso infortunato, forse nemmeno le motivazioni sono così forti dopo che in estate ha raggiunto l’ultimo obiettivo della carriera, giocare un grande torneo con la propria Nazionale, nel caso specifico i Mondiali in Germania (durante i quali segna 2 gol, con l’Ucraina che viene eliminata ai quarti di finale dall’Italia, che vincerà il titolo). È anche probabile che, essendo una squadra di calcio un gruppo formato da una ventina di ragazzi, ognuno col proprio carattere, il suo rapporto stretto con il proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, non fosse poi ben visto da tutti. Non è un mistero e ai tempi fu rivelato pubblicamente da un Eto’o nell’inedito ruolo di insider dello spogliatoio del Chelsea: «(…) ho molti amici al Chelsea, ci parliamo. Viene vissuto dallo spogliatoio come il cocco di Abramovich, e i passaggi puliti per fare gol non gli arrivano». Memorabile in tal senso un episodio di cui si rende protagonista Mourinho, quando a fine stagione un tifoso dagli spalti gli chiede dove fosse finito Sheva, e lui risponde mimando uno swing, facendo intendere che all’ucraino interessasse di più giocare a golf. Anche in due stagioni deludenti (sul Mirror il suo acquisto da parte del Chelsea viene giudicato come il peggiore affare della storia della Premier League), comunque, riesce a illuminare la scena con lampi di classe. Il più abbagliante in una partita di FA Cup contro il Tottenham. https://www.youtube.com/watch?v=br5cWAja58o

Non sarà veloce come una volta, ma non ha dimenticato come si calcia in porta.

I ritorni e l’addio

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