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Il rapporto speciale tra Romeo Langford e l’Indiana
08 mar 2019
08 mar 2019
Una storia che va oltre il semplice concetto di identificazione tra un giocatore e la propria università.
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Gli spalti in legno. Gli stendardi sopra le panchine. E l’inconfondibile colpo d’occhio a picco sul campo. Quello che a metà tribuna ti fa sentire sospeso, e nel settore più un alto — la mitica balconycausa direttamente le vertigini.

All’esordio stagionale, l’Assembly Hall di Bloomington si presenta con il solito look. Vetusto, un po’ claustrofobico. Con quel tocco di decadenza che può permettersi solo chi ha la storia dalla sua parte. Eppure, a questo giro, si respirano vibrazioni nuove. Non sono le 17.222 persone — affluenza normale, da queste parti — assiepate sui seggiolini, in religiosa attesa della partita. E nemmeno la fama dell’avversario, la derelitta Chicago State University, pagata qualche decina di migliaia di dollari per farsi prendere a ceffoni dai padroni di casa.

A calamitare l’attenzione è invece Romeo Langford. Una guardia filiforme di quasi due metri, chioma ossigenata e movenze felpate. Capace di veleggiare verso il canestro come se non gli costasse sforzo. A 19 anni, si appresta a fare il riscaldamento per la prima volta con i leggendari pantaloni a strisce di Indiana University. Aveva accettato la borsa di studio pochi mesi prima, dopo un lungo corteggiamento. Otto anni dopo Cody Zeller, un vincitore del titolo di Indiana Mr. Basketball— il prestigioso riconoscimento dato al miglior giocatore di liceo dello stato — torna a vestire la maglia degli Hoosiers. Non si fermerà a lungo: è materiale da NBA, finirà probabilmente in lotteria già il prossimo giugno. Ma basta e avanza per regalare a un intero stato il sogno di tornare a una gloria lontana nel tempo, ma viva più che mai nell’immaginario.

Il lieto fine, probabilmente, non ci sarà. Rimasti impantanati in un inverno da incubo — 11 sconfitte in 12 partite tra gennaio e febbraio, molte delle quali di strettissima misura — gli Hoosiers hanno forse perso il treno per il torneo NCAA. Per andare al Grande Ballo resta solo una strada: vincere tutte le partite del torneo della propria conference, guadagnandosi la qualificazione automatica. Possibile, sulla carta; sostanzialmente impossibile, nella realtà. Eppure, per una volta, il finale della storia conta meno del suo svolgimento. Al di là dei risultati, la cavalcata di Romeo Langford ci consegna infatti una testimonianza vivissima della fusione mistica tra basket, identità e appartenenza che rende l’Indiana un posto speciale. A cui nessun appassionato di pallacanestro, nemmeno il detrattore più incallito del college basketball, può rimanere indifferente.

Alti, poi bassi

La serata dell’esordio, ben presto diventata un’amichevole, non va male: 17 punti nel primo tempo, 19 finali, con intriganti giocate ad animare l’euforia dei presenti. È però la settimana successiva che arriva la prima notte di gloria. Contro Marquette University — avversario di ben altra caratura — Langford mostra tutto il suo repertorio: penetrazioni sinuose, morbidi tiri in corsa, partenze a destra e a sinistra. E un uso molto sapiente del corpo per creare il contatto a proprio vantaggio, mandando fuori tempo il difensore e guadagnandosi frequenti viaggi in lunetta. Roba da giocatore navigato, e che piace molto agli scout NBA. Indiana stravince, in quella che rimane attualmente la migliore prestazione stagionale degli Hoosiers. E il popolo, giustamente, si infiamma.

La grande prestazione di Langford in una delle tante rivalità statali.

Tra novembre e dicembre, gli Hoosiers continuano a racimolare vittorie, tra cui anche un sempre gradito successo contro i rivali statali di Butler, battuti a fil di sirena, e i vicini di casa di Louisville, appena oltre il confine del Kentucky. Sull’euforia grava però un enorme dubbio: l’incantesimo riuscirà a sopravvivere nella seconda parte di stagione? È una tipica domanda sollevata dalla particolare struttura della stagione NCAA, tipicamente morbida fino a fine dicembre, con blocchi di facili partite interne inframezzate da isolati accoppiamenti di cartello, peraltro spesso in campo neutro. Brutale, invece, da gennaio in poi, quando ogni squadra gioca contro le altre appartenenti alla propria conference e il livello medio sale improvvisamente, in un’alternanza serrata di partite in casa e in trasferta.

Ed è proprio qui che le cose hanno iniziato a complicarsi. Sfuggendo infine di mano. Dopo tre vittorie iniziali, arriva un periodo di crisi nera. 11 sconfitte in 12 partite, con una sola, curiosa interruzione: la vittoria sul campo di Michigan State, di gran lunga l’avversario più forte di quel ciclo. Poi battuta anche in casa a inizio marzo, giusto per rincarare la beffa. Ma è il modo in cui sono state perse le partite, ancora più del risultato finale, che ha mandato l’ambiente nel panico. Prima uno scivolone interno contro la mediocre Nebraska, in cui la Assembly Hall si è svuotata con sdegno a cinque minuti abbondanti dalla fine. Poi, l’infausta esibizione in casa di Purdue, rivale statale situata giusto un’oretta di autostrada più a nord. Storicamente i cugini minori —solidi, ma lontani anni luce dalla nobiltà degli Hoosiers — e ora nettamente superiori, come mostrato anche dall’imbarazzante bilancio di 8-1 nelle ultime nove partite. Strangolato dalla difesa asfissiante di Nojel Eastern, Langford chiude con cifre pessime: 4 punti, 2/10 dal campo, 0/4 ai liberi, 3 palle perse. Che pure passano in secondo piano davanti alla totale impotenza mostrata sul campo, salutata dal classico canto overrated lanciato dal pubblico locale. È stata la notte da incubo che prima o poi doveva arrivare. Uno scivolone perdonabile, soprattutto contro un avversario esperto e tradizionalmente ruvido.

Per i tifosi degli Hoosier, quella è anche stata la notte che ha riportato tutti con i piedi per terra. Un severo ammonimento che il destino di un’università non si ribalta con una stagione. E che i limiti tecnici della squadra rimangono evidenti, anche con un giocatore da Lottery nel roster. E così, sconfitta dopo sconfitta, l’effervescenza attorno al giocatore è progressivamente scemata, rendendo possibile esplorare pregi e difetti di Langford con maggiore lucidità. Il controllo del corpo, l’agilità, la visione di gioco, il tocco morbido tra i primi. Il tiro da fuori inaffidabile e l’aggressività altalenante tra i secondi. Con l’attenuante che, in un attacco spesso gambe all’aria nei primi secondi dell’azione, aggredire il canestro avrebbe voluto dire forzare malamente, e tradire così la pulizia tattica e tecnica che è parte integrante del DNA del giocatore. Difficile capire quanto le sconfitte arriveranno a influenzare le sue prospettive del draft; ma la sua proiezione continua a essere tra le prime dieci scelte, quasi a volerci ricordare che i risultati sul campo incidono tendenzialmente molto meno di quanto ci viene naturale credere. Resta un giocatore di potenziale, lontano dall’essere un prodotto finito. Ma i lampi mostrati in questa stagione dovrebbero bastare a permettergli un ingresso in NBA dalla porta principale, rendendo improbabile la sua permanenza a Bloomington per l’anno prossimo. Proprio come ci si aspettava, almeno su questo punto.

Prenderemo mai un altro pesce?

Se lo chiedeva ossessivamente Bob Knight — 30 anni alla guida degli Hoosiers, 3 titoli NCAA, una stagione senza sconfitte, e un posto intoccabile nella storia della pallacanestro. La domanda dominava le sue riflessioni solitarie nella Spelonca, il suo ufficio negli intestini profondi della Assembly Hall, abbondantemente sotto il livello del suolo. Ma irrompeva pure nelle riunioni tecniche, appesantendo la mefitica aria che seguiva le sconfitte (per ulteriori dettagli, su Knight e sulle sue ossessioni, consigliamo questo fantastico libro). Quello di Knight era l’assurdo panico che attanaglia i pescatori dopo un’uscita infruttuosa, l’irrazionale sensazione che, solo perché sono andate male nel pomeriggio, le cose debbano andare male per sempre.

Ed era proprio in momenti come questi che, dietro a una facciata militaresca, si intravedeva l’inquietudine che faceva girare gli ingranaggi psicologici del coach. Vent’anni dopo la sua uscita di scena, quel tormento rimane più che mai vivo. Anzi, si è radicato così profondamente in tutto il popolo degli Hoosier da essere diventato parte integrante della sua identità. C’è però una differenza non da poco. Ai tempi di Knight, la sofferenza era un metodo di mostruosa efficacia per arrivare al successo, come poi lo stesso coach ha spiegato nel suo libro The Power of Negative Thinking, che celebra la forza del pessimismo come viatico per la gloria — in realtà un pedestre monologo infarcito di autocelebrazione, un genere letterario nel quale, a quanto pare, ogni uomo di sport americano deve cimentarsi. Ai tempi di Romeo Langford, invece, la sofferenza è una condizione cronica. Una palude nella quale gli Hoosier sono impantanati da vent’anni, senza che si veda una via d’uscita.

«Hey, what’s up Knight?». "Oh, Knight, come butta?". Secondo la storiografia ufficiale, il declino iniziò così. Con il saluto informale che Kent Harvey, recluta di Indiana appena arrivata a Bloomington, rivolse al suo leggendario coach, incontrato per caso in giro per il campus. Risentito per il tono troppo informale, Knight prese Harvey per un braccio, esigendo maggior rispetto nelle successive interazioni. Un gesto che impallidisce rispetto alla brutalità fisica e verbale di cui il coach si era reso protagonista nei trent’anni precedenti — dalla clamorosa sedia lanciata in campo durante una partita, agli squallidi abusi verbali verso giocatori e assistenti venuti tristemente alla luce negli ultimi anni. Peccato che, proprio per contrastare quel tipo di atteggiamento, la presidenza dell’università avesse appena varato una politica di tolleranza zero per qualsiasi episodio di violenza perpetrata da chi lavorava per IU. Un provvedimento studiato ad hoc per colpire lo stesso Knight, da tempo nel mirino per i suoi comportamenti. Era il 10 settembre 2010: pochi giorni dopo l’episodio, Knight venne licenziato in un clima surreale. Un po’ per la protesta dell’intera popolazione studentesca, la cui stragrande maggioranza non aveva evidentemente mai avuto occasione di saggiare di persona l’approccio dell’allenatore. Un po’ perché, fatte le debite proporzioni, silurare Knight per l’episodio con Harvey era paragonabile ad arrestare Al Capone per frode fiscale. Un peccato minore usato come pretesto per punire dei crimini. Da lì in poi, un lento declino si trasformò presto in una caduta libera.

Tutto il self control di Coach Knight in una delle immagini più famose di sempre del College Basketball.

Dopo alcune stagioni discrete, nel 2006 venne nominato head coach Kelvin Sampson. La sua epoca durò ben due anni: il tempo di venire beccato per varie, gravi e recidive infrazioni sul reclutamento, che costarono a lui il posto e all’università pesanti sanzioni sulle borse di studio a disposizione. Poi venne Tom Crean. Giovane, rampante, estroverso. L’uomo che, dopo aver portato Dwyane Wade a Marquette, avrebbe dovuto, altrettanto miracolosamente, risollevare le sorti degli Hoosiers. Ma il progetto non decollò: una lenta partenza, dovuta alle sanzioni punitive ereditate dall’amministrazione precedente; un’ottima stagione nel 2012-13; e poi il nuovo declino, fino al licenziamento nel 2016. Infine, ecco Archie Miller, il fratello dell’attuale coach di Arizona: un conoscitore capillare del sommerso del Midwest, dopo anni passati alla guida di Dayton, nella vicina Ohio. Alla presentazione ufficiale sedusse la folla parlando di identità locale, promettendo un approccio aggressivo verso i talenti cresciuti nei licei statali. Poco dopo, ecco Langford. E Indiana è tornata finalmente a pescare un pesce.

Religione di stato

La logica suggerirebbe un approccio paziente. Ma in un luogo in cui ogni vicenda di basket viene accompagnata da un trasporto melodrammatico, la logica è una nota a piè di pagina. Succede quando territorio, sport e università si fondono in una cosa sola; e quella cosa è il ritmo che scandisce la quotidianità degli abitanti di intere regioni degli Stati Uniti. A maggior ragione in Indiana, il feudo di pallacanestro più puro della nazione, e non solo per l’impressione — sempre inebriante, per noi europei naïf — che ogni casa abbia un canestro appeso al garage.

In questo gigantesco lembo di pianura — grande cinque volte la Lombardia, ma con metà della popolazione — il culto per il basket agisce dal basso. Parte con le prime partite ufficiali alle elementari, in qualsiasi cittadina che abbia una scuola e una palestra. E poi esplode al liceo. Dove la selezione tecnica si fa feroce — ogni scuola ha tre formazioni, e solo i migliori arrivano a giocare in prima squadra — e le partite locali mobilitano, letteralmente, migliaia di persone in giro per tutto lo stato. Come i 6.300 spettatori che si ritrovavano a Bedford per vedere le partite di Damon Bailey, il miglior marcatore di sempre nella storia del basket liceale dell’Indiana — un cannoniere che fu ribattezzato "La cosa più calda in Indiana dopo Marble Hill" (Spoiler: Marble Hill è una centrale nucleare, ai tempi attiva e ora abbandonata). O i 9.325 spettatori che riempiono la New Castle Fieldhouse, la più grande arena liceale al mondo. Per non parlare delle finali statali: partite secche giocate in campo neutro, che arrivano a smuovere volumi di popolazione locali paragonabili -- in proporzione -- a quelli che si spostano per un Super Bowl o una Final Four NCAA.

La parabola di Langford non ha fatto eccezione. L’infatuazione statale per il giocatore affonda le sue radici in un’epoca precedente alla sua decisione di accettare l’offerta degli Hoosiers. Nella cittadina di New Albany — così vicina al confine col Kentucky che molti suoi abitanti simpatizzano per i Cardinals di Louisville, appena oltre la frontiera — esaurire i 4.100 posti della palestra era pratica comune. A partire da tre ore prima della partita. Ma la vera misura della popolarità del giocatore erano le code per gli autografi che iniziarono a formarsi durante il suo secondo anno di liceo. Finita la partita, si fermava fuori dalla palestra per accontentare tutti i tifosi che volevano la sua firma. Si abituò così tanto alla pratica che, dopo una delle prime uscite pubbliche con gli Hoosiers, commentò «Strano non stare seduti a un tavolo per due ore», dopo essersela cavata in meno di quarto d’ora.

Chi veniva a vederlo al liceo non erano solo locali. La sua fama, alimentata dalle gesta sul campo, si era ampiamente sparsa verso nord, attraendo visitatori e appassionati da tutto lo stato. Un flusso che si intensificò ulteriormente quando Langford, dopo un periodo iniziale di indifferenza, fece capire che avrebbe seriamente preso in considerazione l’interesse di Indiana University. Miller, appena insediatosi sulla panchina degli Hoosiers, iniziò un corteggiamento serrato. Duke e North Carolina, inizialmente in prima fila, persero terreno, mentre la scelta si restringeva a tre candidate: Indiana, Kansas, e Vanderbilt. Ed è stato in quel momento che, provato dalla lunga carestia, tutto lo stato si ritrovò unito e compatto nella missione di tenere Langford dentro i confini statali.

In un contesto in cui le identità locali sono così potenti, Indiana University è l’istituzione che sublima tutte le divisioni. La religione di stato in cui quasi tutti gli abitanti, pur rimanendo orgogliosamente attaccati alla loro parrocchia, possono trovare unità. Inutile stupirsi, allora, che gli eroi più adorati dalla popolazione locale non siano Reggie Miller o Mark Jackson, che pure hanno fatto la storia dei Pacers nella NBA. E nemmeno Larry Bird, che in Indiana è nato e cresciuto, ma che con la sua fuga in autostop da Bloomington si è giocato la possibilità di arrivare ai livelli di adorazione pan-statale riservati a personaggi come Steve Alford, Damon Bailey, Calbert Chaney. E così, mentre mostrava sempre più interesse a un futuro con la maglia degli Hoosiers, Langford diventò in fretta il mito a cui aggrapparsi. C’era il pellegrinaggio per le partite interne di New Albany, con gli spettatori che durante le partite indossavano senza pudore i vessilli di Indiana. E c’erano i bagni di folla per le trasferte. Come quando, dopo una partita da 42 punti al FORUM Tipoff Classic — storico torneo liceale dello stato — il pubblico salutò la sua uscita gridando "IU! IU!. Annunciò la sua scelta in una serata di aprile, davanti a oltre 2.000 persone: una sorta di piccola The Decision su scala locale, che portò i livelli di entusiasmo attorno agli Hoosiers a livelli che non si vedevano da tempo.

Il Coming Home di Romeo Langford.

A pochi mesi di distanza, quel delirio sembra ormai lontano. Con una manciata di partite rimaste nell’attuale stagione di college, mancare la qualificazione al torneo NCAA è una prospettiva sempre più concreta. Altrettanto concreta è la possibilità che queste partite saranno le ultime di Langford nello stato dell’Indiana. Ma non può essere un finale di stagione amaro a cancellare la memoria di una grande cavalcata. Dalle imprese liceali al reclutamento a furor di popolo, dal premio di Mr. Basketball alle scorribande sul parquet dell’Assembly Hall, la storia di Langford è stata intensa, più che mai reale. Vissuta con passione, intensità. E quel velo di malinconia che lascia amarezza, ma crea già l’attesa per il prossimo idolo. Come sempre in Indiana.

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