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Bernard Chambaz
Il Ragno Nero
26 mag 2016
26 mag 2016
Lev Ivanovič Jašin, simbolo dell'URSS che ha perso in finale contro la Spagna di Franco.
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Bernard Chambaz
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Di una storia non puoi sapere prima come andrà a finire, però puoi sapere più o meno com’è cominciata.

 

Questa storia comincia il Primo maggio del 1960, con l’aereo-spia americano U2 abbattuto e schiantato in mezzo alla steppa russa.

, è il caso di dire, almeno per i sovietici. L’aereo era in ricognizione: sorvolava e fotografava alcune istallazioni missilistiche. Ma la vera trappola per gli Stati Uniti scatta subito dopo, quando gli americani si perdono in un vortice di spiegazioni maldestre, sotto gli occhi imperterriti del Cremlino, per rivelare alla fine che la spia alla guida dell’aereo non aveva preso la sua pillola di cianuro, era vivo e aveva anche rivelato l’obiettivo della sua missione.

 

Solo un mese prima Krusciov aveva trasformato il suo viaggio in Francia in un trionfo personale. Eppure, come si sa ormai da tre secoli, una verità da un lato dei Pirenei è un errore dall’altra parte. In questo contesto di crisi internazionale, infatti, la Spagna è decisa ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di guardiana dell’Occidente che si è auto-attribuita. Contro il comunismo, chiaramente, perché è proprio il comunismo ad affollare i peggiori incubi del generale Franco.

 

Ironia della sorte, nel sorteggio dei quarti di finale del primo Campionato Europeo di calcio i bussolotti assegnano la Spagna proprio all’URSS, andata e ritorno, il che implica necessariamente un viaggio della squadra spagnola a Mosca e, cosa ancora più preoccupante, l’arrivo dei sovietici a Madrid.

 

Venerdì 20 maggio il governo spagnolo si riunisce per pronunciarsi sulla questione. Sarà l’atmosfera insolita di Barcellona, oppure il carattere inconsueto del problema a giustificare tanta passione dei ministri per la questione? A ogni modo, nel congresso si scontrano due punti di vista diametralmente opposti. Le argomentazioni contrarie sono semplici. Innanzitutto ci sono ancora prigionieri spagnoli nei campi sovietici, soldati della

che ha combattuto a fianco della

sul fronte russo. In secondo luogo, accettare significherebbe offrire un’opportunità agli agenti provocatori del comunismo internazionale per provocare disordini di cui non si possono prevedere né dimensioni né conseguenze. In terzo luogo, e qui si tratta di pura malafede, giacché le leggi dello sport internazionale lo prevedono, Krusciov avrebbe inevitabilmente imposto di cantare l’inno sovietico e di innalzare la bandiera rossa con la falce e il martello allo stadio. In quarto e ultimo luogo (ma l’argomento restò implicito) tra i pali della squadra avversaria c’era il diavolo in persona: chiamatelo Ragno Nero, o Pantera Nera, oppure più semplicemente Lev Ivanovič Jašin.

 



 

Sull’altro fronte, a favore dell’incontro si dimostrano José Solís, soprannominato “il sorriso del regime”, Ministro Segretario Generale del Movimento Nazionale e Fernando Maria Castiella, Ministro degli Esteri, che pure aveva a cuore la

. I due ministri ritengono che il due volte pallone d’oro Di Stefano rappresenti il migliore ambasciatore della Spagna all’estero e che a disertare la competizione ci sarebbe molto più da perdere che da guadagnare. Franco tronca la discussione e chiede ai ministri di votare, per alzata di mano ovviamente. Vincono i Falchi. La decisione non verrà divulgata prima di cinque giorni, ma la stampa straniera,

e

in particolare, comincia a riportare insistenti voci di corridoio. Solís e Castiella non si danno per vinti, comunque. Insistono sul precedente del 1956, il boicottaggio dei Giochi Olimpici in omaggio alle vittime dei carrarmati russi a Budapest: la decisione non aveva aggiunto nulla alla gloria della Nazione e invece era costata una scontata medaglia d’oro al giovane ginnasta Joaquín Blume, che non l’avrebbe del resto mai più ottenuta, morendo nell’aprile del ‘59 nello schianto di un aero DC-3 sulla cordigliera di Cuenca. E lo ripetono fino alla nausea, i ministri, rapporti della Brigata Politico-Sociale alla mano: cosa aveva da temere Franco a un anno dalla bruciante sconfitta dello sciopero generale indetto dal Partito Comunista Spagnolo?

 

Certo, è vero che la lezione del 7 a 1 suonato dall’URSS alla Polonia nell’amichevole (sempre che la si possa ancora chiamare così) cui aveva assistito l’allenatore Helenio Herrera non incita più di tanto all’avventura. Al suo ritorno, però, il “Mago” riferisce a chi vuole ascoltarlo che né il risultato né la passeggiata sulla Piazza Rossa sono bastati a scalfire la sua fiducia.

 

Mercoledì 25 in mattinata i giocatori arrivano alla sede della Federazione in calle de Alberto Bosch, a due passi dal museo del Prado. Jesús Maria Pereda propone di uscire a sgranchirsi un po’, tre compagni di squadra lo seguono. Passano davanti alla chiesa di San Jerónimo, salgono le scale tranquillamente ed entrano a confessarsi, visto che credono ancora che andranno a Mosca, pur sempre la capitale dell’Impero del Male. A mezzogiorno e dieci viene comunicata la decisione ai giocatori. Gli propinano la solita solfa sulle “calunnie e le insinuazioni pagate con l’oro di Mosca”, poi ricordano che sui loro passaporti c’è scritto “VALIDO PER TUTTI I PAESI DEL MONDO SALVO RUSSIA E PAESI SATELLITI”. Nessuna protesta, tanta tristezza.

 

Un mese dopo l’URSS è consacrata campione d’Europa. Sono tre gli assi nella manica che le hanno permesso di imporsi contro la Jugoslavia e i suoi tecnici senza pari: la serietà, la prestanza fisica e Jašin. Il titolo conferma la medaglia d’oro conquistata a Melbourne. Durante la semifinale a Marsiglia, Jašin viene addirittura portato in trionfo dai tifosi francesi.

 



 

Jašin è cresciuto a Mosca, in periferia, per la precisione a Tušino, dove i genitori lavoravano nella grande industria aeronautica. Da adolescente, nel 1937, era stato a un meeting aereo insieme a un altro milione di persone venute ad ammirare quelle scie di fumo bianco che tracciavano il nome di Stalin nel cielo, proprio nello stesso periodo in cui il tiranno faceva eliminare i suoi vecchi compagni bolscevichi. Dopo la guerra, Jašin entra in fabbrica come apprendista meccanico. Entra anche nella Dinamo Mosca, il club sportivo dell’esercito, e si cimenta in varie discipline: d’estate il calcio, d’inverno l’hockey, poi la boxe e i tuffi (che gli saranno utili tra i pali) senza dimenticare la scherma e la pallanuoto. Pur essendo portato, gli inizi sono difficili anche per lui. Alla prima partita di calcio con la Dinamo rischia di tornare per sempre relegato sul ghiaccio della pista da hockey, dopo aver commesso un grossolano fallo di mano che permette agli avversari di pareggiare. Negli spogliatoi solo lo spirito lo salva dalla tristezza: “Almeno ho strappato il pareggio”. Ma arriva la sanzione: è espulso dalla prima squadra; humor ed esercito non vanno molto d’accordo. Qualche tempo dopo le sue doti fisiche gli favoriscono il rientro in prima squadra, e quelle mentali risultano all’altezza del compito. Prima delle partite va a pesca, ed è contento se prende un pesce grosso, ma anche se ne prende uno piccolo. All’apice della sua gloria guadagna 200 rubli al mese, circa 150 euro, che corrispondono allo stipendio di un agente del KGB; il che dà adito a relativizzare le fantasie sull’oro di Mosca.

 

Ma ecco che il profilo di Jašin torna una seconda volta a stagliarsi all’orizzonte del Generale Franco. Nel 1964, infatti, la Spagna viene designata Paese organizzatore della fase finale dell’Europeo. Né l’Italia agli ottavi di finale, né la Svezia ai quarti riescono a impedire ai Rossi di qualificarsi. E come se non bastasse, Jašin riceve proprio in quel periodo il pallone d’oro, primo portiere a ottenere questo riconoscimento e allora ancora l’unico. La sua fama è più grande del colpo di scarpa assestato da Krusciov sullo scranno della tribuna dell’ONU (solo qualche mese prima del caso dell’aereo spia), ultima arma del classico arsenale di “cretino, tirapiedi e lacchè dell’imperialismo” mobilitato contro il delegato filippino che lo aveva irritato.

 

Franco deve farsene una ragione, insomma. I consiglieri gli suggeriscono di sfruttare a suo vantaggio le divisioni in seno comunisti tra chi ama il pallone e chi considera il calcio il peggiore oppio dei popoli. E da un certo punto di vista l’evento arriva al momento giusto, perché il regime celebra proprio quell’anno il XXV anniversario della “vittoria sulle orde rosse”: tanto vale approfittarne per un po’ di propaganda.

 



 

La semifinale tra URSS e Danimarca si svolge a Barcellona, dove l'

sovietica sbarca il 14 giugno, una domenica, e si avvia verso l’hotel sulla strada per Sitges senza scorta: né della Guardia Civíl né, apparentemente, del KGB. Lunedì i giocatori calpestano la sabbia della spiaggia. Martedì a mezzogiorno la radio diffonde con dovizia di particolari una notizia su un presunto allenamento che si sarebbe svolto al mattino; soltanto che l’allenamento era previsto per il pomeriggio. Qualunque cosa pur di scongiurare il rischio di ipotetiche manifestazioni di sostegno al comunismo internazionale.

 

Mercoledì sera, al Camp Nou, davanti a quattromila spettatori (più numerosi di quelli che contemporaneamente stavano assistendo a Madrid alla semifinale della Nazionale spagnola), l’URSS vince 3 a 0, ma chi era venuto per Jašin se ne va un po’ deluso: non è stato necessario nessun salvataggio

né uscite fuori area. Solo i veri esperti avranno apprezzato qualche rilancio rapido con le mani.

 

Comunque una vittoria così facile conferma a tutti che l’URSS è la favorita dell’Europeo, mentre a Madrid la Spagna riesce a malapena a battere l’Ungheria ai supplementari.

 

Il giorno dopo, ossia giovedì, il viaggio fino a Madrid è solo una formalità. La squadra sovietica trova alloggio nell’albergo lasciato libero dagli ungheresi. Il venerdì è il giorno del turismo culturale: i russi si lasciano incantare da uno spettacolo di Flamenco e rievocano alla memoria i ricordi del Museo Puškin mentre visitano il Prado. Il loro interprete si sofferma sulle

di Velasquez e spiega a Jašin che il quadro mette in scena la sfida lanciata da una ragazza chiamata Aracne alla dea Atena, e che vi si può scorgere anche un’allegoria delle Parche. Gli allenamenti sono ospitati nel recinto dello stadio Bernabeu, ma avvengono a porte chiuse.

 

Ma il problema del momento è capire se Franco assisterà o no alla finale. Certo, l’esito della partita è incerto, perché la nazionale non è più la brillante selezione del 1960, e poi c’è sempre il rischio che sulle tribune lo spettacolo si trasformi in una manifestazione filocomunista. Non è nemmeno completamente fugato il timore di un attentato anarchico, ma il Generalissimo è convinto che la mano dorata di Santa Teresa lo proteggerà. A convincerlo definitivamente è José Solís, solo il giorno prima nel tempo di una pausa alla stazione di servizio durante il viaggio di ritorno da una visita ufficiale di tre giorni in Biscaglia. Il gioco vale la candela.

 

A metà pomeriggio di domenica 21 giugno comincia a cadere una pioggia inattesa e benefattrice, letta da tutti come un buon auspicio. Franco sa che i ragni rossi non amano l’umidità. Arriva allo stadio un po’ in anticipo, alle 18.30, senza uniforme: è teso, ansioso, contento che sua moglie Carmen Polo lo accompagni; sa che seicento giornalisti venuti da tutto il mondo faranno di questa finale un’eccezionale cassa di risonanza. Un’ovazione erompe dalla maggior parte degli 80.000 spettatori presenti, di tutte le età ed estrazioni sociali, che lo rassicura e lo consola dal vedere l’odiata bandiera rossa e dal sentire l’odiato inno che aveva sostituito l’

dopo la Guerra. Il prato è verde, i Rossi sono rossi, gli spagnoli hanno la casacca a

, colore “serio e mascolino”. Jašin ha la divisa nera.

 



 

L’inizio è positivo: al sesto minuto arriva un cross di Luis Suárez che sembra costruito sulla perfezione delle parabole e delle sfere. Suárez è il grande architetto, o il direttore d’orchestra, il nuovo “fuoriclasse” come lo chiamavano i colleghi milanesi dell’Inter. Comunque sia, la parabola scavalca un difensore sovietico di cui la storia ha presto dimenticato il nome, ma che la cronaca ricorda come Eduard Mudrik, trova Pereda che spara la palla in rete dai sei metri. Franco applaude e ripete con uno strano sorriso l’esclamazione del suo vicino: “Jašin fucilato a bruciapelo!”. Tuttavia, all’ottavo minuto i satanici moscoviti hanno già pareggiato con un imprevedibile Tatar. Il match procede senza altri gol e senza occasioni, nonostante gli assist di Suárez, i numerosi corner concessi dai russi e i palloni respinti dai pugni di Jašin, e nonostante la miriade di fazzoletti bianchi agitati dalla folla come incoraggiamento agli spagnoli. All’81° minuto Franco sente d’improvviso il cuore in gola, ma il gol spagnolo è annullato dall’arbitro, con la motivazione che poco prima aveva fischiato un fallo. Tutti cominciano a realizzare che i russi hanno decisamente una dote per gli scacchi e sono esperti di strategia: l’allenatore Beskov ha fatto bene a scommettere sui supplementari e sulla fatica degli avversari, spostando l’asse della squadra sulla difesa, a costo di lasciare Voronin isolato e di privare Ponedelnik del pallone. Cominciano a realizzare che si sta mettendo male, quando all’improvviso avviene il miracolo. All’84° minuto il cross di Pereda, lo stesso del primo gol, lo stesso che si era confessato a San Jerónimo quattro anni prima. Il miracolo è questo cross che arriva dalla fascia destra e trova in aria la testa del magnifico Marcelino, dentro per un soffio. Un colpo di testa che lascia Jašin impalato.

 

La Spagna è campione d’Europa. Il sacrificio del 1960 passa nel dimenticatoio, anche se ha significato per una generazione di giocatori rinunciare a un titolo.

 

Più tardi, alla cena ufficiale, Pereda propone di andare a fare un salto al Corral della Moreria, un locale di flamenco a due passi dalla chiesa di San Andrés. Jašin e Voronin sono della partita. Sulla strada li portano a vedere quello che presto diventerà il “Caffè del Cosacco” e l’ingresso delle fogne dove l’anno prima hanno girato la scena di

, in cui James Bond è inseguito dai ratti. Voronin parla spagnolo grazie a un precedente soggiorno a Cuba. Jašin firma autografi e canticchia la canzone

per gli occhi luminosi delle sue ammiratrici:

 





 

E una punta di malinconia sale nella notte di Madrid che va morendo, leggera come la seta nonostante la sconfitta.

 

Il giorno dopo i titoli dei giornali sono esaltati. Però la foto delle prime pagine non riprende né il gol della vittoria né il capitano che alza la coppa, ma il

che applaude la folla che lo applaude. A fine mattinata i finalisti vengono ricevuti nel palazzo presidenziale, e in quel momento Franco si ritrova faccia a faccia con Jašin. 1 metro e 63 contro 1 metro e 89. Nessuno sospetta che quella di domenica è una specie di vittoria di Pirro e che, nonostante la vittoria, il regime si avvia verso il disfacimento.

 

Così come un anno dopo la morte di Jašin, sessantenne con una gamba amputata, il fiocco e la medaglia dell’ordine di Lenin chiusi nel cassetto, nessuno immaginerà che sia arrivato il turno dell’URSS di scomparire.

 



 

 

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