Il Process andato male
Come e perché è fallita la ricostruzione dei Phoenix Suns.
Una questione di chimica
Secondo i dettami di Bill Simmons in The Book of Basketball, il segreto del basket è che non ha nulla a che fare col basket. Nonostante i record delle ultime stagioni siano ampiamente negativi, la figura peggiore per i Suns l’hanno fatta per tutte le vicissitudini lontane dal campo. Prendete tutte le 29 squadre NBA che non risiedono in Arizona e mettiamo insieme i giocatori che si sono lamentati della loro ex squadra e del modo in cui sono stati trattati quando le cose non andavano: a quanti giocatori si arriva?
Negli ultimi anni Marcin Gortat, Goran Dragic, Marcus e Markieff Morris, P.J. Tucker, Gerald Green, Eric Bledsoe, Isaiah Thomas e altri journeyman non hanno esitato a lamentarsi del trattamento ricevuto in arancio-viola. La diaspora diffusa non fa altro che rappresentare un allarme rosso per il livello di chimica all’interno della squadra – non tanto tra i giocatori, o almeno non più tra i giocatori, ma tra i giocatori e la società.
Sotto Jeff Hornacek il livello di amalgama in spogliatoio era arrivato ai minimi storici, aggravato dal fatto che ci fossero due Morris di troppo. Con l’esonero di Hornacek la dirigenza ha affidato la squadra a Earl Watson, il players’ coach per eccellenza, ma con ogni probabilità il peggior ex-giocatore con una lavagnetta in mano ad allenare in NBA negli ultimi anni (un gruppo che annovera anche i nomi di Kurt Rambis e Lindsey Hunter). Uno dei suoi pregi, però, è che in poco tempo ha migliorato il clima in spogliatoio: i Suns sono tuttora una delle poche squadre a uscire stabilmente assieme a cena in trasferta sebbene abbiano un record perdente, una vera rarità in NBA. Anche dopo la debacle con Bledsoe, lo stesso Booker ha espresso simpatia e vicinanza all’ex compagno di squadra, definendolo “uno dei miei migliori amici” mentre indossava una maglietta raffigurante il rookie Josh Jackson. La chimica di squadra era ed è ad ottimi livelli, considerato l’insieme dei fattori; ma mentre quella situazione sembrava normalizzarsi, la presenza di Watson – addirittura confermato nonostante un record insulso perché i giocatori lo volevano – faceva deflagrare tutto il resto.
Nella passata stagione e nelle prime tre partite della stagione attuale i Suns sono stati orribili in difesa, prevedibili in attacco (totalizzando il minor numero di canestri assistiti nella lega), e in generale non hanno mai dato la sensazione di migliorare in una qualunque parte del gioco. Le loro rotazioni difensive erano commedie itineranti; le loro triple erano poche e fortemente contestate; la difesa in aiuto si limitava a centrare l’attaccante con quanta più spossatezza fosse consentito, inanellando una quantità di falli impressionante.
Non che Hornacek si fosse dimostrato un allenatore all’altezza – il suo attacco consisteva in una sequenza infinita di isolamenti e la squadra si affollava a rimbalzo offensivo senza prenderne nemmeno uno, concedendo quindi una parata di contropiedi -, ma a confronto di quanto mostrato da Watson è sembrato un incrocio tra Red Auerbach e Greg Popovich. Nelle prime tre partite stagionali i Suns hanno perso di 48 punti contro Portland, fatto registrare il career high a Lonzo Ball (29 punti per un giocatore che sta registrando una delle peggiori stagioni al tiro della storia) e perso di 42 contro i Clippers in back-to-back. Da quando l’assistente allenatore Jay Triano ha preso possesso della panchina dei Suns hanno un record di 7-8, che fa intuire come gran parte delle colpe fossero di Watson.
Durante la sua reggenza il quintetto è cambiato più volte, quasi sempre in modo incomprensibile: Alex Len e Tyson Chandler hanno giocato fin troppo insieme e nessuno sano di mente avrebbe mai pensato che i due potessero funzionare in qualunque modo, tanto che il rapporto tra giocatori e allenatore si è incrinato fino a rompersi. Quando Marquese Chriss si è risentito per essere finito fuori quintetto, Watson lo ha portato a cena fuori invece di riceverlo nell’ufficio come qualunque altro allenatore. Dopo ogni sconfitta imbarazzante Watson si presentava davanti ai microfoni a ripetere come la squadra fosse giovane e dovesse sbagliare per crescere, infarcendo il tutto con una retorica hippie di amore fraterno e condivisione che suonava fuori luogo. Quando i risultati stagionali sono diventati imbarazzanti – la proiezione di vittorie stagionali per i Suns dopo le prime tre partite era di 1.8, MENO DI DUE VITTORIE IN UN ANNO – ha provato a piegare il dialogo con i giocatori su di un “noi contro quelli la fuori” a là Mourinho, senza ovviamente averne il carisma o le capacità tattiche. I giocatori non l’hanno bevuta e la squadra adesso si comporta molto meglio.
Watson è stato un malcapitato errore di percorso, la riconferma di un allenatore temporaneo perché piaceva ai giocatori, ma è importante che non accada di nuovo la stessa cosa, perché Triano ha già una comprovata esperienza di non essere un allenatore in grado di cambiare le sorti di una franchigia. Tuttavia occorre riconoscere i suoi meriti fino ad oggi: la squadra si è comportata notevolmente meglio dopo pochi aggiustamenti al quintetto, come ad esempio capire che il rookie Josh Jackson non è un’ala forte o che un centro alla volta è più che sufficiente; in difesa si è limitato a difendere tutti allo stesso modo semplificando gli schemi e iniziando finalmente a tagliare fuori l’avversario a rimbalzo; e in attacco le cose sono cambiate passandosi molto di più il pallone e provando il più possibile a far giocare Booker off-the-ball, sebbene allo stato attuale sia il miglior portatore di palla del roster.
L’altro cambiamento epocale, e sembra pazzesco farlo notare in una squadra di professionisti NBA, è che i giocatori devono aspettarsi di uscire se non si impegnano a sufficienza in difesa o dopo un rientro pigro. Sono cose talmente elementari che anche nei campionati amatoriali vengono vissute come la norma, ma che non erano evidentemente scontate in Arizona. Triano sta organizzando un lungo training camp stagionale, utilizzando tutti gli shootaround come giorni di preparazione extra e i Suns sembrano eseguire sempre di più e sempre meglio: nelle ultime tre partite hanno sempre realizzato almeno 28 canestri assistiti, una cosa che non accadeva dal 2012.
Incompetenza e sfortuna sono una brutta combinazione
I giocatori che negli ultimi anni si sono lamentati della franchigia però ce l’avevano, più che con l’allenatore, con tutta la dirigenza, secondo il sempre valido motto che il pesce puzza dalla testa. Robert Sarver potrebbe essere il peggior proprietario di tutta l’NBA, ma anche il GM McDonough ha questa fastidiosa tendenza a parlare sempre troppo, o comunque parlare sempre, quando un giocatore è sulla soglia del portone pronto ad andarsene. Prendiamo il caso Bledsoe: non c’era alcun bisogno di sapere quale fosse la sua sciocca scusa e non c’era nessuna necessità di sapere cosa ne pensasse lui dei suoi comportamenti, ma il GM ha comunque colto la palla al balzo per apparire davanti ai microfoni e spettegolare il tutto. La credibilità della franchigia è precipitata in pochi anni, e sembra incredibile ripensare che pochi anni fa Phoenix fosse una città anche piuttosto ambita dai free agent. Se la squadra di basket vuole diventare di successo, la società che la supporta e le persone che la gestiscono devono dimostrarsi prima di tutto dei professionisti seri.
Per quanto un front office possa essere competente – e dopo tutte le prove accumulate sappiamo che quello dei Suns non lo è – occorre specificare che non si può costruire una squadra da titolo senza una sconsiderata dose di fortuna. Ogni squadra ad aver mai vinto qualcosa ne è piena di esempi, da Cleveland che ha ricevuto la grazia di veder nascere LeBron James a una cinquantina di chilometri di distanza, ai Golden State Warriors che hanno vergato l’estensione del secolo speculando sulle caviglie di Steph Curry, passaggio chiave insieme a un’esplosione del cap senza precedenti per avere poi la chance di firmare Kevin Durant. E, senza girarci troppo attorno, i Suns sono stati i campioni mondiali di sfiga negli ultimi anni.
Da quando sono entrati in fase di ricostruzione i Suns non solo non hanno mai vinto una Lottery, ma non hanno neanche mai semplicemente migliorato la loro posizione al Draft. Durante lo stesso periodo i Sixers hanno vinto la lotteria tre volte, i Lakers tre volte, i Cavs due volte, i Timberwolves e i Magic una volta. Se togliamo quelle vittorie in lotteria alle squadre possiamo facilmente immaginare quanto peggiori possano essere. A coronamento del tutto c’è anche il fatto che l’unica volta in cui i Suns avevano più di una scelta in lotteria, il Draft non si è dimostrato affatto profondo, come nel caso di Bender e Chriss, presi rispettivamente alla 4 e alla 8, quando l’anno prima le rispettive posizioni erano di Kristaps Porzingis e Stanley Johnson.
Le belle speranze del roster
L’unico vero colpo di fortuna è stato ovviamente quello di Devin Booker, che si sta esibendo nella miglior stagione della carriera con cifre migliorate un po’ ovunque, affiancate da efficienza al tiro in crescita e dai primi istinti tangibili in difesa. Booker si sta esprimendo a dei livelli impensabili per un giocatore di 21 anni, e se la NBA non fosse stata messa a ferro e fuoco da una nidiata di giovani Unicorni e la franchigia non si trovasse a Ovest la sua candidatura all’All-Star Game sembrerebbe plausibile – ma se persino Damian Lillard e Mike Conley devono restare a casa nella Western Conference, l’ipotesi è da scartare a prescindere. Tuttavia la crescita di Booker è incoraggiante non solo per i record di gioventù che continua ad infrangere – è il quarto miglior marcatore di sempre a 21 anni di età, dietro solo a LeBron, Durant e Kobe -, ma perché ormai la questione per il “può essere una delle migliori guardie della lega” si è spostata dal “se” al “quando”.
Potesse limitarsi a giocate del genere la sua percentuale dal campo sarebbe ancora migliore. Basta solo un blocco neanche troppo solido di Monroe per forzare il cambio e dargli il tempo (veramente istantaneo) di posizionare correttamente i piedi e tirare.
Il problema è che tutto il resto non sembra lontanamente all’altezza delle aspettative. Alex Len sta mettendo su buoni numeri, ma ogni volta che prende un rimbalzo in mezzo al traffico viene da chiedersi quanto sia dovuto all’incombenza di doversi trovare un contratto cospicuo a fine anno e non a un reale miglioramento. T.J. Warren è diventato un realizzatore notevole e sembra la versione economica di DeMar DeRozan, ma di DeRozan ricorda anche la fase difensiva assente e non è in grado di fare una giocata per gli altri nemmeno se ne andasse della propria vita. Marquese Chriss ha confermato tutti i pregi e difetti della sua annata da rookie, ma non ha migliorato di una virgola la sua comprensione del gioco e sembra vagare per il campo affidandosi al suo tiro e al suo atletismo per combinare qualcosa di tangibile.
Dragan Bender ha invece mostrato ampi margini di miglioramento, specie in difesa e nei movimenti in post, ma anche adesso sembra al massimo uno che può diventare un titolare in futuro.
Movimenti così fluidi, sebbene ancora troppo rari, fanno intravedere che potrebbe esserci un giocatore NBA dentro quel corpo che è sembrato sgraziato per tutto l’anno scorso, quando era comunque uno dei giocatori più giovani della lega.
Josh Jackson ha avuto un inizio difficile, sebbene il tiro sia entrato a sufficienza con gli avversari che lo hanno sempre sfidato a tirare, ma non sembra essere ancora a suo agio con i ritmi forsennati della lega e le sue spalle sono semplicemente troppo esili per spostare un difensore, finendo spesso spazzato via nei contrasti. Lo sciame di rookie maturi ben oltre la loro età sta facendo dimenticare al mondo che è normale essere spaesati e non ancora in controllo quando si è così giovani.
La facilità di palleggio di Jackson gli permette di attaccare i recuperi con creatività, la gabbia toracica ancora troppo esile lo tiene però lontano dal ferro. Quando fisicamente riuscirà a reggere i contrasti tutte queste azioni potrebbero diventare una sequenza di poster notevoli; l’atletismo e l’esplosività sono tra i migliori al mondo.
Mike James e Tyler Ulis, dopo gli inizi notevoli, si stanno assestando verso la bassa mediocrità, e la gestione palla viene richiesta più del previsto a Booker, che è costretto a prendersi più brutti tiri del dovuto (e questo dovrebbe ancora più sottolineare i suoi miglioramenti alle percentuali al tiro). I Suns hanno alcuni buoni passatori a roster, e Bender e Jackson potrebbero diventare dei veri e propri playmaker aggiunti, ma il loro sviluppo è ancora limitato e i giochi della squadra troppo semplicistici per ipotizzare una rete di passaggi più articolata.
Il vero problema è che questa ritrovata confidenza e questi automatismi migliorati continuano a non fare il bene della franchigia. Dallas, Chicago, Atlanta e Sacramento sembrano agguerrite e attrezzate per arrivare agli ultimi posti in classifica; Los Angeles e Brooklyn sembrano invischiate nelle parti basse contro la loro voglia e i recenti infortuni ad altre squadre potrebbero portare altre avversarie nella lotta al tanking. Uscire dalle prime cinque posizioni del prossimo Draft sarebbe l’ennesimo colpo di sfortuna per la squadra, che è ancora alla ricerca di quel talento generazionale in grado di ribaltare la situazione.
Non tutti possono avere un Unicorno, ma la differenza tra i Sixers di Hinkie e tutte le altre storie di ricostruzioni fallite si possono davvero riassumere in un concetto così semplice: loro hanno Embiid e Simmons, gli altri no.