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Fabrizio Gabrielli
Il primo capolavoro di Lionel Messi
15 ott 2022
15 ott 2022
Un estratto dall'ultimo libro di Fabrizio Gabrielli, edito da 66thand2nd.
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Fabrizio Gabrielli
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Pubblichiamo un estratto dal libro "Messi" di Fabrizio Gabrielli, uscito il 14 ottobre per 66thand2nd. Juan Manuel Fangio, il mitico pilota automobilistico argentino, diceva che «quando il motore va bene è una musica incomparabile». Quando si ingrippa, però, la musica smette di essere celestiale. E non serve avere l’orecchio assoluto per accorgersi delle prime dissonanze, dei princìpi di cacofonia. La finale di Saint-Denis di maggio 2006, nel rollercoaster del Barcellona di Rijkaard, è il punto più alto, dopo il quale inizia la discesa vorticosa. Il vagone di testa, Ronaldinho, ne è la migliore personificazione. La finale di Champions League sembrava l’anno zero della sua egemonia: al contrario, finì per segnare il principio del suo personalissimo fade out. Dopo l’eliminazione del suo Brasile dal Mondiale, schiacciato dalle pressioni, dalle aspettative, Ronaldinho aveva perso la spensieratezza. Che non era per niente un accessorio del suo gioco, anzi: ne costituiva il principale propellente. Proprio Rijkaard ha affermato che per i giocatori che hanno un impatto travolgente su una squadra non si dovrebbe mai prendere in considerazione un contratto più lungo di tre anni. E una volta arrivati davvero sulla cresta dell’onda, si dovrebbe procedere con dei rinnovi annuali. Fin quando, inevitabilmente, arriverà il momento di separarsi. I tifosi si opporranno al trasferimento, ovvio, ma è l’unica e sola maniera che un club ha per tutelare i suoi giocatori: liberarli dalla tensione, prolungargli la carriera. Essere sempre all’altezza di un’immagine semidivina può risultare lacerante. Messi era molto diverso da Ronaldinho. Era costante. Certo, il suo status non era neppure lontanamente paragonabile a quello del brasiliano, era tutto da meritare, da costruire. La teoria del dono divino, del genio innato, è mendace, oltre che autoconsolatoria. Anche Van Gogh, per comprendere la tecnica e l’uso del colore, copiò dalla prima all’ultima tutte e 197 le illustrazioni del manuale di disegno di Charles Bargue. Dopo due stagioni a contatto con il suo calcio trascinante, con il suo carisma dirompente, con la sua decisività, però, ora Lionel Messi è pronto a oscurare la stella di Ronaldinho. È il momento della maturità, della perdita dell’innocenza. È il 10 marzo 2007, e Leo segna il suo primo gol in un Clásico. Ammaestra il pallone con l’esterno, poi con lo stesso piede, il sinistro, lo piazza sul palo più lontano. Poi ne segna un secondo, con cattiveria ma anche precisione, una puntualità con una certa coerenza estetica; e infine un terzo, il più bello, il più messiesque. Ronaldinho elude l’intervento di Míchel Salgado tagliando un pallone sulla sua corsa. Lui la aggancia con il destro: di fronte a sé ha Iván Helguera. Aspetto la mossa del difensore. Il capitano del Real realizza che la corsa di Messi punta verso il suo piede d’appoggio. Gioco con lui. Appena ne intuisco le intenzioni, faccio una finta da un lato. Helguera si accartoccia su sé stesso mentre Leo tocca il pallone con il sinistro. Parto nella direzione opposta. Lo tocca ancora una volta, come una veloce nel volley. Tengo gli occhi incollati sui piedi dell’avversario, non sulla palla. Il pallone non si alza da terra, anche i piedi danno l’impressione di non staccarsi mai dal prato. Non ho bisogno di guardare il pallone. Quello so sempre dov’è. Il tiro è a incrociare, con il sinistro, sul palo opposto. Nelle tre reti di Messi contro il Real c’è qualcosa di angelico e demoniaco al contempo. Il controllo nel terzo gol sfida la ragione, e per questo è diabolico. Irride l’avversario. Nella sciabolata rabbiosa con cui ribadisce in gol – il secondo – un’azione tambureggiante di Ronaldinho, una magia che in altri tempi forse si sarebbe concretizzata con un tocco sublime nella sua inconcepibilità dello stesso brasiliano, c’è un senso di giustizia: Messi, in quel caso, sembra un cherubino che dà fiato alle trombe del Giudizio. Questa ascendenza «tellurica e mortale», benefica nella sua malignità, è esattamente il tratto caratteristico, secondo Federico García Lorca, del duende. Il duende, dice García Lorca, «è un potere, non un agire; un lottare, non un pensare». È il potere misterioso che tutti sentono, e nessun filosofo sa spiegare. Un potere soprannaturale nella sua messinscena, eppure massimamente corporeo. «Non a caso» continua García Lorca «predilige le arti che hanno bisogno di corpi in cui incarnarsi». L’epifania con più duende, in quella stagione di Leo Messi, è il gol nella semifinale di Copa del Rey, il 18 aprile, con il Getafe. Eiður Guðjohnsen, che quella sera era in campo con la maglia blaugrana, racconta di essersi preso la testa tra le mani. Nel filmato si nota. «In quel momento ho pensato: Oddio, sono davvero sul campo in cui è stato segnato un gol che passerà alla storia». Il pallone arriva tra i piedi di Messi sulla fascia destra, nella sua metà campo. Ha due giocatori avversari di fronte a sé, e uno cerca subito di aggredirlo. Leo si libera rientrando – il piede destro addomestica il passaggio di Xavi, il sinistro, con l’esterno, sposta la sfera –, poi con una finta di corpo manda fuori giri un secondo avversario. Ora il pallone è attaccato al suo sinistro, e inizia una progressione di otto, dieci metri. L’avversario frastornato dalla finta lo insegue, cerca di fermarlo con un tackle: il suo compagno, uno dei due centrali di difesa, alza le mani, come a scagionare l’intervento di David Belenguer che si sta già catapultando sui piedi dell’argentino – o forse è solo un gesto di resa. Il toro ha la propria orbita, il torero pure. E tra orbita e orbita c’è un punto di pericolo, dove è situato il vertice del terribile gioco. Il penultimo dribbling è faena de capa, prestidigitazione, capolavoro d’escapologia, preludio al tercio de muleta con il quale Messi mette fuori gioco il portiere, l’ultimo ostacolo, aggirandolo con una gambeta che lo spinge quasi sulla linea di fondo. Di lì, appoggiare in gol con il piede meno nobile dei suoi, il tocco quasi kitsch in un capolavoro d’eleganza, è un gesto ormai quasi spogliato di ogni importanza. Santiago Segurola ha scritto: «Maradona ogni tanto era Maradona. Messi è ogni giorno Maradona». Lo stupore che evoca un gol del genere è facilmente prevedibile. I giornali, l’indomani, avrebbero titolato Messidona, El pie de Dios. È evidente: il gol di Messi al Getafe somiglia in maniera imbarazzante a quello di Maradona con l’Inghilterra nel Mondiale dell’86, ma è anche imbarazzantemente dissimile. Per prima cosa, perché sembra «el gol del siglo» mandato a velocità doppia. In secondo luogo, perché i difensori del Getafe non sembrano esser pronti a vender cara la pelle come invece risaltava, per contrasto contro l’ingiocabilità eterea di Maradona, nei difensori inglesi. Che si somiglino, non solo i gol ma soprattutto i protagonisti, è un truismo: la condivisione di una serie di tratti fisici, del baricentro basso, della stessa altezza, massa muscolare, peso. Addirittura il fatto che siano entrambi mancini. È fuori discussione, ed è così denso di significati da finire per apparire insignificante. Quando nel ’79 Diego stava iniziando a mettersi in mostra con l’Argentinos Juniors, in un’intervista a «El Gráfico» Helenio Herrera dipinse l’archetipo del calciatore del Ventunesimo secolo come «basso ma molto atletico, con questa particolare magia che hanno i computer. E Maradona». Stava parlando di Maradona, ma senza saperlo stava tratteggiando Messi. Arsène Wenger ha detto una volta che Messi è come Maradona, «ma con un turbo sotto i piedi». E la chiosa perfetta è di Eto’o: «Messi è Diego Armando Maradona, ma nel futuro». Il costante parallelo tra Maradona e Messi, che non inizia con il gol al Getafe né finirà quella sera, ma che trova in quell’istante un momento topico è una delle meravigliose occupazioni preferite dagli argentini. Il fatto è che quando il processo di dissoluzione di una leggenda come Diego è così prolungato nel tempo, basta qualcuno che porti in dono una reminiscenza, che ci faccia rivivere quella magia, per evocarne la presenza. Ed è un’arma a doppio taglio, attraente. Il gesto di Leo, che decise di dedicare quel gol a Maradona appena ricoverato in una clinica psichiatrica, è sinceramente ingenuo, ma finisce per apparire iconoclasta. A tratti, e per qualcuno, l’accostamento sembrerà semplicemente blasfemo. Tornando al campo: Rijkaard, dopo una partita chiusa con quel risultato, e suggellata da un gol del genere, pensava che la finale della Copa fosse ormai nelle loro mani. Non poteva sapere che tre settimane più tardi, al Coliseum Alfonso Pérez, il Barça crollerà sotto i colpi impietosi del Getafe, che vincendo 4-0 si qualificherà per la finalissima. Per quanto possa sembrare incredibile, il più bel gol – fino a quel momento – della carriera di Messi aveva fatto da preludio a quella che sarebbe diventata l’eliminazione più umiliante nella storia recente del club.

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