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Il primo calcio sovietico
05 lug 2018
05 lug 2018
Racconto del complicato rapporto tra calcio e rivoluzione, e di una partita giocata poco dopo la battaglia di Stalingrado.
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I piedi dei Soviet è un libro di Alessandro Curletto che, come da sottotitolo, racconta la storia del movimento calcistico sovietico dalla Rivoluzione d’Ottobre alla morte di Stalin: una summa consigliata a tutti gli appassionati del genere. Si inizia nel primo Novecento, ante-rivoluzione, quando di movimento ce n’era stato poco. Il primo epicentro del paese fu Pietroburgo, la capitale dell’Impero dove si organizzarono dei minimi campionati cittadini; a rompere il ghiaccio furono degli inglesi lì residenti. Poi iniziarono a farsi vedere dei club russi, a partire da una squadra con problemi di brand identity: lo Sport. Seguirono insomma tre campionati nazionali (partecipanti: Mosca, Charkov e Kiev), per dissolversi poi nella Prima Guerra Mondiale. C’era altro da fare. Curiosamente, negli stessi circa quindici anni post-1917 in cui il campo letterario sovietico viveva un irripetibile, irreale e vivacissimo disordine, il calcio della federazione provò ad assestarsi e riassestarsi: furono soppressi i principali club dell’epoca precedente, oppure rimpastati. Per esempio vennero sfruttati gli impianti sportivi della Società degli Amatori dello Sci per quella che diventerà la CDKA (Casa Centrale dell’Armata Rossa) e poi CSKA nel 1960. Nello stesso periodo Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, primo direttore della polizia segreta (la Čeka, poi GPU –> NKVD –> MGB –> KGB) trasformò il Circolo dei Calciatori Sokol’niki nella Dinamo Mosca. Esercito vs servizi segreti. Sempre in quegli anni da “modesti campi sportivi sorti accanto ai grandi complessi industriali”, nacquero Torpedo Mosca e Zenit di Leningrado, cioè quello Zenit; nacque la Kazanka – dai Ferrovieri della stazione Kazanskij – forse più nota come Lokomotiv Mosca; e nacque e si sviluppò, soprattutto, la squadra più matta del mazzo, la squadra anti-sistema, lo Spartak Mosca. Una lunga storia che racconteremo un altro giorno.

* Ma il calcio, nell’URSS, piaceva a tutti? L’8 agosto 1926 il quotidiano Krasnij Sport (Sport Rosso), titolava: Gli appetiti dei calciatori devono essere frenati!. Come riportato da Curletto, seguiva un editoriale dove si puntava il dito verso gli stravizi in cui indulgono gli atleti della nuova disciplina: “[hanno] preteso, oltre al rimborso prestabilito delle spese di viaggio e due rubli e mezzo al giorno, la sistemazione non in convitto, ma in albergo, in camere con bagno (fortuna che non hanno voluto la singola), pasti di prima categoria con birra, sigarette ecc…”. Tra i più netti oppositori c’erano poi gli ideologi del Proletkul’t (Cultura Proletaria), organizzazione nata nel 1917 dallo stesso Bogdanov per il quale Satana era un dio del proletariato, Bogdanov vicinissimo a Lenin, Bogdanov autore de La stella rossa, romanzo fantascientifico del 1905, Bogdanov il pioniere delle trasfusioni di sangue. Comunque, tra le altre cose, il calcio, frutto borghese, presentava “tratti intrisecamente diseducativi: il dribbling e le finte, per esempio, non erano altro che inganni”. Altri la accusavano come disciplina insalubre per i più giovani e pericolosa per l’ordine pubblico: in effetti non capitava raramente che qualche calciatore si pestasse con arbitro o spettatori. Anche tra gli editorialisti amanti del pallone comunque, si riscontrava un dissenso vago per quanto riguarda “l’ansia della vittoria a ogni costo, che degradava una disciplina al rango di spettacolo cruento”. Per ridurre l’attrito delle meccaniche di gioco, il Proletkul’t avanzò una proposta visionaria: dividere in quadranti il gioco, ognuno di questi occupato da un giocatore obbligato a 1) non uscire dal quadro 2) passare la palla entro cinque secondi. Zero contatto fisico, zero violenza. Per qualche ragione, l’idea non incontrò l’approvazione della Sezione Pansovietica del Calcio. Insomma, il potere sovietico intuì da subito le doti catartiche del calcio. Alla gente piaceva così com’era, la gente amava la libertà che lo stadio rendeva possibile; l’unico momento della vita pubblica in cui i cittadini potevano slegare gli istinti, urlare, perfino discutere con i vicini di posto. Lo stadio era libertà anche in tempi di guerra, in tempi di assedio crudissimo. Si giocava a calcio nella Leningrado versificata nel Requiem di Achmatova, sui muri del manicomio dove Daniil Charms e tanti altri morivano di fame. Europe Central di Vollmann è una delle ricostruzioni più ambiziose di quell’epica, costruita su una mole spropositata di memorialistica. Nel suo libro Vollmann ricostruisce le due più grandi tragedie di quella che i russi – per ricordare i loro ventisei milioni di morti – chiamano Grande Guerra Patriottica, ovvero l’assedio di Leningrado (oggi San Pietroburgo) e Stalingrado (Oggi Volgograd). Un memento della ferocia di quest’ultimo è la raccolta di Ultime lettere (Einaudi) di soldati tedeschi sequestrate dall’esercito nazista e mai arrivate a casa. Sentirai molto la mia mancanza, ma non sfuggirai gli altri per questo. Lascia passare un paio di mesi, ma non di più. Gertrud e Claus hanno bisogno di un padre. [….] Guarda bene all’uomo che scegli, sta’ attenta ai suoi occhi e a come stringe la mano, come abbiamo fatto noi, e non sarai delusa. Oppure: Se penso ancora una volta alla mia vita, adesso posso guardarmi indietro pieno di gratitudine. È stata bella, meravigliosa. Era come salire una scala, e persino questo ultimo gradino è bello, come coronamento, direi quasi che esso chiude in armonia la mia vita. Oppure: Martedì ho fatto fuori con il mio carro due T34, che la curiosità aveva spinto oltre le nostre linee. Era un quadro meraviglioso e impressionante. […] Dallo sportello pendeva un corpo, la testa all’ingiù; i suoi piedi erano incastrati, e bruciavano fino al ginocchio. […] Il dolore dev’essere stato spaventoso. E non c’era nessuna possibilità di liberarlo. Anche se fosse stato possibile, sarebbe morto lo stesso dopo poche ore fra dolori atroci. Gli ho sparato mentre le lacrime mi colavano giù dalle guance. Nel T34 poteva esserci uno tra Vasilij Ermasov, Konstantin Belikov, Sergej Plonskij e Aleksandr Seremet, quattro titolari del Traktor Stalingrado che decisero di militare tra le truppe di difesa della loro città. A metà febbraio, pochi giorni dopo la resa del neo-feldmaresciallo Paulus in una Stalingrado sventrata, maciullata e quasi annientata, già si tentava di rianimare il movimento calcistico della città. Ancora una volta, mi affido alla ricostruzione fedele di Curletto. L’idea era organizzare entro il Primo Maggio una partita capace di esaltare il morale di un popolo sofferente da anni: i migliori calciatori di Stalingrado avrebbero affrontato la squadra più rappresentativa della capitale, lo Spartak Mosca. Inagibili i due stadi della città, ne venne allestito uno improbabile, dopo avere sminato un pezzo di terra cicatrizzato da rifugi antiaerei e crateri bellici. Racconta Belikov, uno dei ragazzi citati sopra – una vita per il calcio fino alla morte nel 1987, che già trovare gli altri calciatori non fu semplice; ancora più complesso, reperire uno straccio di divise, scarpe, palloni. «Ci allenammo per due settimane, non di più, però tutti i giorni… Ci assegnarono una dieta speciale, rafforzata: polenta di grano, aringhe. Non fu facile tornare in forma. Ma quando hai il pallone tra i piedi ti si allarga il cuore». Altro materiale sportivo arrivò poi via aereo insieme ai giocatori dello Spartak, scortati da due caccia: tra Mosca e Stalingrado, infatti, si attraversava e riattraversava la linea del fronte. La partita poi si giocò con qualche ritardo il due maggio. I civili di Stalingrado, tornati in città da poche settimane, per ricostruirla a mani nude, partendo da quello che restava, cioè niente, uomini e donne insomma si incamminarono per chilometri fino allo stadio costruito in qualche modo vicino alla Azot, una fabbrica.

Contro ogni pronostico, o forse per giustizia poetica, una squadra di professionisti venne sconfitta da una banda di calciatori-soldati morti di fame. Vittoria maturata grazie a un tiro all’incrocio di Moiseev, raccontato dal punto di vista di Anatolij Akimov, storico portiere dello Spartak: «provai a prenderla, ma non ci arrivai: 1-0 per i padroni di casa. Sulle tribune il gol fu salutato con ovazioni tali che non avevo mai sentito e non sentii mai più in seguito». Ma vorrei concludere raccontando il rituale pre-partita. Prima vennero appuntate sul petto dei calciatori locali delle medaglie al valore militare; poi, con gusto discutibile ma profondo orgoglio, sullo stadio venne fatto planare un caccia bombardiere, dal cui ventre si sganciò il pallone con cui si sarebbe dovuto giocare la partita. Il pallone scese in picchiata, tagliando dieci metri d’aria al secondo, rimbalzò sul terreno e superò gli spalti in volo e scomparve dalla vista dei tremila spettatori. Voglio immaginarmelo come un asterisco brillante, che sfarfalla per un attimo, per poi svanire nel cielo. Qualcuno a bordo campo ne aveva portato un altro, perché non si sa mai.

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