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Il pregio di non avere difetti
17 nov 2016
17 nov 2016
Come gli Utah Jazz, senza cadere nel panico, sono diventati una squadra da playoff.
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12 min
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La free agency è andata male? Il fenomeno scelto al Draft che doveva cambiare le sorti della franchigia non esplode? La crescita di un gruppo giovane procede a rilento? Avete perso qualche partita di troppo nelle prime settimane? La vecchia gloria ingombrante blocca la squadra e non le permette di voltare pagina? La risposta è sempre una: stagione di transizione.

Mi sono sempre immaginato il tifoso — soprattutto quello di sport americani, che grazie al sistema del Draft e all’illusione dell’equilibrio competitivo può spesso guardare al futuro con discreto ottimismo — immerso in una puntata di Siamo Fatti Così (o Esplorando il Corpo Umano, dipende se vi ci siete avvicinati tramite TV o tramite le uscite in edicola): da qualche parte nella testa qualcuno preme un grande bottone rosso e il neurotrasmettitore parte, consegna il messaggio, poi qualcun altro preme un secondo pulsante che tira giù le serrande e via, se ne riparla tra qualche mese — intanto vediamo come va, ma senza farci eccessiva attenzione.

D’altronde tutte le esperienze che viviamo, volenti o nolenti, ci segnano in qualche modo: ciò che ci succede da bambini o ragazzini lo fa in modo profondo e definitivo, perché quasi sempre legato ad un’età in cui non c’erano da fare grossi ragionamenti. Ci si divertiva e basta, e i maschi nati a metà anni ’80 (eccomi) hanno ancora oggi dei sussulti incontrollabili davanti a un Game Boy o se in un negozio di giochi per adulti vedono una miniatura di un Cavaliere dello Zodiaco o se per un qualsiasi motivo YouTube suggerisce un filmato dell’Uomo Tigre o se qualcuno utilizza una gif o un meme di Ken il Guerriero… o quando vedono un linfocita in una navicella sferica.

Anche in un front office, quando c’è da giustificare il proprio operato alla proprietà, di grandi bottoni rossi è pieno: se i contratti scomodi sono corti, l’età media è bassa, il trend è positivo o all’orizzonte ci sono prospettive migliori, vendere il futuro non è poi così complicato. Basta che il messaggio arrivi nel modo e nel posto giusto ed è fatta, si può iniziare a ragionare con più serenità sugli obiettivi a medio termine.

Oggi per un verso o per l’altro si possono trovare buoni (teorici, applicando un po’ di buon senso il numero si dimezza) motivi per considerare “di transizione” le situazioni di almeno 20 squadre NBA compresa quella di una contender come i San Antonio Spurs, almeno dando retta ai tifosi che giudicano tale ogni campagna in cui non si parta quantomeno come co-favoriti. Si tende a valutare il successo esclusivamente sulla base di tre macro obiettivi: vincere, arrivare ai playoff e tankare. Per chiunque resti nel Purgatorio tra uno e l’altro è pronta l’etichetta FALLIMENTO! (stampata dalla RINGZZZ s.r.l.) a meno, appunto, di aver messo le mani avanti per tempo ed aver fatto scattare il salvavita della transizione.

Fortunatamente però non tutto è bianco o nero: il grigio esiste ed esistono anche squadre come gli Utah Jazz di fronte alle quali chi si lamenta perché tutto è monotono, la Finale è già scritta, l’anello è già assegnato e moriremotutti dovrebbe semplicemente levarsi il cappello e anzi, fare pure il tifo, perché rappresentano l’anima positiva e competitiva della Lega, quella che ha staccato la spina al Panic Button e i cui neurotrasmettitori portano un unico messaggio: è il nostro turno, giochiamocela per come siamo.

Il neurotrasmettitore Jazz, facilmente identificabile dai colori sociali e dal linguaggio del corpo

Come costruire una squadra, lezione #1

In un’epoca di statistiche avanzate, analisi in tempo reale visionabili su un tablet direttamente in panchina e superatleti dalla versatilità incredibile, in cui ogni piccolo difetto individuale o di squadra viene sfruttato per ottenere vantaggio, schierare un quintetto senza punti deboli difensivi, con la necessaria potenza di fuoco offensiva e con giocatori le cui caratteristiche si compensano e completano alla perfezione è condizione assolutamente necessaria per poter competere ad altissimo livello. Ma per costruire un roster non si parte da un foglio bianco e non si può pescare una carta dal mazzo delle “Superstar”, una da quello dei “realizzatori”, una da quello dei “3&D”, una da quello dei “playmaking 4” e una da quello dei “rim protectors”; serve prima di tutto considerare cosa si ha a disposizione, cosa si può modificare, dove si può intervenire e in che modo un teorico svantaggio possa essere trasformato in un punto di forza.

Se la Fortuna ha donato un attaccante con eccezionali abilità realizzative da ogni zona del campo, ma difficoltà nella visione del gioco e nel coinvolgimento di compagni, affiancargli un grande playmaker (inteso nel senso letterale di creatore di gioco, e chissenefrega se è un “1”, un “4” o entrambe le cose) può fare la differenza; se questo playmaker decide spontaneamente di tornare a giocare vicino a casa ed è uno degli N giocatori più forti di sempre (con N a piacere, ma che sia piccolo abbastanza) la differenza diventa quella che passa tra la carriera di Carmelo Anthony (senza volerlo sminuire, ma tant’è) e ciò che Kyrie Irving può già scrivere sul curriculum. Se succede che Steph Curry, Draymond Green e Klay Thompson — che sembrano nati per giocare insieme e completarsi a vicenda in questo specifico momento storico — si trovino nello stesso spogliatoio, la squadra non può che funzionare in un certo modo, assumendo un’identità ben precisa.

Per i Jazz e la maggior parte delle altre squadre però la faccenda è decisamente più complicata di così. Prima di tutto perché occorre chiedersi: chi è il franchise player, cioè il giocatore simbolo, la cui presenza è imprescindibile in campo e in spogliatoio? È forte abbastanza per raggiungere gli obiettivi prefissati e per condizionare la direzione da prendere? Il supporting cast è complementare e funzionale al suo skillset? Ci sono abilità ridondanti e, al contrario, qualità che mancano o sono presenti in modo insufficiente? E, nel caso specifico: cosa fare se dopo aver puntato (giustamente, perché sono due ottimi giocatori) su Gordon Hayward e Derrick Favors si pescano due clamorosi jolly al Draft come Rodney Hood e Rudy Gobert?

L’identità difensiva

Che l’idea originaria del GM Dennis Lindsey (scuola Spurs) fosse questa o altra non fa alcuna differenza: di fronte a una situazione di questo tipo, l’unica strada percorribile è stata fidarsi di questo nucleo di giocatori, creare un’identità di squadra che ne esaltasse le caratteristiche e trovare sul mercato il modo di colmare eventuali lacune. Dalla cessione di Enes Kanter (febbraio 2015, mossa che si è rivelata vincente per tutte le parti in causa, giocatore compreso), ultimo vero bivio che ha portato nella direzione attuale, i Jazz si sono prima di tutto focalizzati sulla metà campo difensiva, trasformandosi per gli avversari in ciò che negli USA viene definito prosaicamente “a pain in the ass: primi per rating difensivo e terzi per percentuale di rimbalzi nella seconda parte del 2015 (e per queste 30 partite alle spalle dei soli Clippers, Cavaliers, Spurs e Warriors per rendimento complessivo); top-10 per DefRtg e top-5 per Reb% nella sfortunata stagione scorsa, nonostante gli infiniti problemi fisici che hanno colpito diversi giocatori e impedito di tornare ai playoff dopo 4 anni di assenza; quinti in difesa e decimi a rimbalzo in queste prime settimane.

Le chiavi sono due: le dimensioni dei giocatori in campo, dato che intorno a un rim protector di assoluto valore come Gobert ci sono atleti decisamente imponenti (Hayward, che supera i due metri e i 100 kg, sarebbe teoricamente la guardia), e soprattutto lo schema difensivo di base proposto da coach Quin Snyder, che contro i pick and roll prevede in modo pressoché sistematico il drop (o zone up) del centro francese, mentre i compagni a seconda delle situazioni cambiano (switch) o preferibilmente tengono il diretto avversario.

Raramente (e giustamente) vedrete Gobert superare la linea del tiro libero a difesa schierata, a prescindere da tutto

Anche in virtù di questo i Jazz sono molto efficaci nel contenimento dei giochi a due (seconda miglior difesa per punti per possesso contro i pick and roll nel 2015-16) e concedono più long 2s delle stragrande maggioranza delle rivali, contando sulla scarsa efficienza di questo tipo di conclusioni (39% la media della lega, 45% quelli segnati finora contro Utah, dato chiaramente destinato a normalizzarsi nel tempo). Durante la regular season si tratta di una soluzione storicamente vincente, come dimostrano i risultati ottenuti ad esempio da Pacers (quando Roy Hibbert era un All-Star), Spurs (con Duncan) e Clippers (con DeAndre Jordan) negli ultimi anni.

Contro specifici avversari però la storia cambia: innanzitutto gli istinti di Favors sono comunque da “5”, essendo a propria volta un rim protector con una tendenza piuttosto accennata a schiacciarsi verso il centro dell’area ed eccedere nell’aiuto al compagno di frontline.

Concedere i tiri dalla media è un’ottima idea. Finché non si incontra uno come Aldridge (o Porzingis)

Nelle sfide contro l’assoluta élite della lega tocca fare i conti con tiratori dal palleggio contro i quali il drop non è opzione percorribile (Curry, Irving o anche Lillard) o grandi realizzatori dalla media (Aldridge, Paul), quindi la validità dello schema di base è da verificare; motivo per cui cercano altre soluzioni, da perfezionare e tenere pronte nel caso se ne presentasse la necessità. Favors ha una mobilità maggiore di quella del compagno di frontline e quando gioca da unico lungo si stacca dal bloccante con posizione meno profonda, così da poter sconsigliare o contestare le conclusioni dal midrange e contemporaneamente avere la possibilità di proteggere il ferro.

E in alcune situazioni l’identità da Monster Ball (o Bully Ball che dir si voglia) lascia spazio a tratti di Small Ball, con cambi quasi sistematici sui blocchi per stare a contatto con i tiratori.

Gobert presidia l’area mentre Exum, Hayward, Hood e Joe Johnson cambiano in modo automatico

Alla ricerca di un qualche tipo di attacco

La difesa però come detto è il punto forte dei Jazz, grazie anche al rientro dall’infortunio di Dante Exum che nonostante la giovanissima età è già decisamente incisivo grazie alla combinazione di lunghezza (delle braccia soprattutto) e rapidità di piedi, che gli permette di marcare qualsiasi tipo di esterno. La vera necessità per Lindsey e il suo staff era quella di dare qualche marcia in più ad un attacco mediocre e che troppo spesso si è rivelato sterile, lento, prevedibile e poco efficace. Gli acquisti estivi vanno letti esattamente in questo senso: piccole dosi di Boris Diaw, quando avrà recuperato dall’infortunio e trovato una condizione fisica accettabile, sono più che sufficienti per trasformare dei semplici movimenti senza palla in tiri non contestati; e nonostante l’età Joe Johnson — che può essere utilizzato anche da 4 tattico in situazioni particolari, stile Paul Pierce versione playoff 2015 — resta uno dei migliori interpreti dell’intera NBA (90° percentile nella scorsa stagione) quando chiamato a fare da sé in isolamento o a giochi rotti. Cosa che all’attacco di Snyder capita, purtroppo, con discreta frequenza.

Il mazzo di fiori offerto da ISO Joe ai tifosi Jazz al primo appuntamento

Il fiore all’occhiello del mercato è però senza dubbio l’arrivo di George Hill, di cui in sostanza i Pacers si sono sbarazzati per cercare un giocatore dalle caratteristiche differenti come Jeff Teague (a margine: Larry Bird è stato dalla parte sbagliata di entrambi gli scambi che hanno incluso Hill. Ouch). Oltre ad essere un difensore incredibile — specialmente sulla palla, che gli ha permesso di calarsi alla perfezione nell’identità di squadra senza bisogno di alcun periodo di adattamento —, Hill è probabilmente il compagno perfetto per Hayward e Hood, che amano avere il pallone tra le mani, ma non sono palleggiatori e creatori di gioco tali da poter agire continuativamente da prime opzioni. I primi risultati sono stati clamorosi, assumendosi immediatamente il ruolo di leader per età e non solo, e guadagnandosi il premio come giocatore della (seconda) settimana prima dello stop per qualche partita a causa di un piccolo problema al pollice.

Triple dagli angoli piedi per terra e frontali dal palleggio, tagli senza palla, arresto e tiro, pick and roll, penetrazioni: Hill sa fare tutto.

L’ex Pacers è lo specchio dell’attacco dei Jazz 2016-17: eccellente in nulla (anche se tolti i super-specialisti non si trova troppa gente in grado di tirare oltre il 43% da tre da entrambi gli angoli), ma in grado di cambiare faccia in funzione di chi si trova davanti e versatile abbastanza da avere una risposta a ogni problema. La contemporanea presenza di Hill e Joe Johnson (altro grande tiratore dagli angoli, specie il sinistro) inoltre apre il campo in un modo che nello Utah non si è probabilmente mai visto e, complici i progressi continui di Favors nella lettura delle situazioni di gioco, aumenta la pericolosità dei citati Hood e Hayward, non più costretti a partire da fermi e contro una difesa ben schierata a protezione del ferro, ma forti di quel metro in più di spazio che fa tutta la differenza del mondo.

Anche i Jazz sanno giocare un attacco NBA moderno. Pochi mesi fa non era così ovvio.

Il salto di qualità rispetto al mostro (per i tifosi è stato indiscutibilmente causa di svariati incubi) a tre teste formato da Trey Burke, Shelvin Mack e Raul Neto (sugli ultimi due andrebbe aperta una doverosa parentesi anche riguardo a questa stagione) è clamoroso e dovrebbe garantire a Salt Lake City di tornare ad ospitare una partita di playoff nella prossima primavera, ma l’impressione è che i Jazz siano già da ora un ostacolo non semplice da gestire per le vere contender. Se Hill è l’acquisto che cambia le prospettive della squadra, la crescita di Dante Exum e Trey Lyles dovrebbe aggiungere ulteriori imprevedibilità e versatilità, mettendo Snyder nella difficile — ma invidiabile — posizione di avere tra le mani sufficienti quantità e varietà di talento per puntare VERAMENTE in alto e dover trovare le giuste combinazioni per arrivare a giocarsela anche a maggio, con in più la pressione delle imminenti scadenze di contratto di Hill (2017), Hayward (player option 2017) e Favors (2018), che si sono detti più che disponibili a restare, ma vanno convinti con i risultati.

Forse, ancor più che su Hayward e Favors nei ruoli di co-giocatori franchigia, su Gobert costretto a difendere lontano dal canestro, su Hill point guard di alto livello e sulla crescita dei giovani del roster, il dubbio più grande in questo momento riguarda la capacità dell’ex vice di Ettore Messina sulla panchina del CSKA Mosca di gestire tutto quello che gli è stato affidato dalla dirigenza.

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Però andate a dirglielo voi: se lui ha detto che se la giocano, io mi fido. Per forza.

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