Il più grande?
Cosa manca a Mo Farah per raggiungere la gloria dei suoi predecessori.
Un atleta diverso
Ma Mo Farah non è arrivato a dominare per caso. Le sue vittorie sono il frutto di una strategia di gara molto intelligente, che lo porta a fare quella progressione finale che sgretola le resistenze dei suoi avversari. E lui lavora tutto l’anno, per ottenere quella condotta di gara.
Una prova evidente sono i risultati che ha sui 1.500 metri, una gara che lui non corre mai per vincere una medaglia ma che usa come test durante l’anno: il suo personale, 3’28’’81, risale a tre anni fa. Ed è un tempo eccezionale: è il record europeo, a meno di tre secondi dal primato mondiale. Solo otto atleti nella storia hanno corso quella distanza in un tempo inferiore al suo. Nonostante questo, e nonostante la grande tradizione britannica in questa gara, Mo Farah l’ha sempre completamente snobbata in ottica medaglie. Questo perché nel miglio metrico, nonostante l’ottimo tempo di accredito, non sarebbe mai in grado di imprimere un’accelerazione finale simile a quella che fa vedere sulle distanze più lunghe: nei 1.500 il ritmo medio è più alto e gli atleti che corrono quella distanza hanno una velocità di base decisamente superiore a quella degli avversari che si ritrova nei 5.000 e nei 10.000, quindi sono molto più attrezzati per resistergli e batterlo. I suoi risultati nei 1.500, quindi, valgono solo come cartina di tornasole per testare il livello della sua arma decisiva: l’accelerazione da lontano. È su questo che danno un’indicazione chiara.
Per andare a caccia di vittorie pesanti, poi, Mo Farah abbassa il ritmo e allunga il numero di giri, forte del fatto che non tutti i mezzofondisti veloci possano farlo: ottenere i suoi tempi su distanze così differenti non è da tutti. Anzi, è un caso unico: finora Mo Farah è stato il solo uomo nella storia capace di correre i 1.500 in meno di 3’30’’, i 5.000 in meno di 13 minuti e i 10.000 in meno di 27 minuti, oltre che di sfondare il muro dell’ora nella mezza maratona e quello delle 2:10’ nella maratona. Ha una versatilità enorme, che usa nelle due gare dove può esprimersi al meglio sfruttando le sue caratteristiche.
Certo, forse con Gebre e Bekele in pista avrebbe vita più difficile, visto che entrambi avevano un ottimo ultimo giro ed erano capaci di tenere ritmi migliori nel corso di tutta la gara, ma avrebbe quantomeno delle armi con cui difendersi. Il problema di Mo Farah, quindi, non sono tanto le sue migliori prestazioni che, come abbiamo visto, sono comunque di assoluto valore, solide e variegate. Il problema che potrebbe impedirgli di conquistarsi un posto nell’Olimpo dei grandi atleti è la mancanza assoluta di un avversario al suo livello, che da una parte certifichi per contrasto il suo valore assoluto, e dall’altra ne elevi la narrativa – che nello sport si nutre soprattutto di grandi sfide.
Mo Farah, con la sua condotta di gara, ha uno stile ben definito: quello del miler che migra sulla corsa di lunga lena puntando sui ritmi blandi, per sfruttare in questo modo la sua migliore progressione nel finale. Può piacere o non piacere, ma è un modo di vedere la gara.
A questa interpretazione si può rispondere in due modi: subendola, come generalmente fanno i suoi avversari, ma così, finché non arriva qualcuno ancora più bravo di Mo Farah nella progressione, o finché lui non invecchia, si lotterà sempre e solo per il secondo posto; oppure inventandosi una strategia di gara diversa. Mo Farah, per quanto forte, ha i suoi punti deboli: negli anni scorsi, spesso il suo miglior tempo era di qualità pari o inferiore a quello di diversi avversari. Nessuno di loro, però, ha mai provato a tenere i ritmi altissimi fin dall’inizio di gara, per provare a mandarlo in crisi prima dell’ultimo chilometro. Tutti accettano di arrivare in gruppo alla fase finale e, a quel punto, hanno già quasi sicuramente perso. Partire da lontano è estremamente rischioso: può finire con un ritiro o comunque con una debacle imbarazzante. Ma può anche andare bene. Steve Prefontaine, leggendario e tragico mezzofondista americano, correva quasi sempre all’attacco: spesso gli andava male, ma diverse volte la sua visione funzionava e portava a casa delle vittorie spettacolari. Più recentemente l’etiope Almaz Ayana, che ha il suo tallone d’Achille nella volata, si è trovata di fronte nei 5.000 Genzebe Dibaba, che invece è capace di un’accelerazione mostruosa nell’ultimo giro per le stesse ragioni di Mo Farah. Ayana non si è data per vinta e l’anno scorso, a Pechino, l’ha aggredita con un’accelerazione sconsiderata nel terzo e nel quarto chilometro, fase di gara in cui è andata 16 centesimi più forte di quanto abbiano fatto gli uomini. Ha corso gli ultimi 3.000 metri sotto gli 8’20’’, mentre Dibaba naufragava alle sue spalle. Tra gli uomini manca qualcuno che abbia lo stesso coraggio di sparigliare le carte e così Mo Farah, mezzofondista veloce per vocazione ma corridore di lunghe distanze per scelta, non ha problemi a vincere. E, d’altra parte, non trova nessuno che provi a metterlo in difficoltà, rendendo più grande la sua figura.
Quest’anno, a Rio de Janeiro, si troverà a combattere prima di tutto contro la sua carta di identità. Poi con i sospetti. Ma la ragione delle sue vittorie porta con sé anche le ragioni di un possibile rammarico: se non avrà mai avversari al suo livello, non potrà mai conquistare una vittoria storica come quelle dei suoi predecessori. L’unica cosa che gli manca, ben più delle vittorie o dei record, è una foto sul comodino che assomigli a quella che ha Gebrselassie della sua vittoria su Tergat o a quella di Bekele del suo sorpasso su Gebre. Le medaglie ci sono e forse non sono ancora finite, ma per la gloria eterna c’è ancora da lavorare.