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Riccardo Rimondi
Il più grande?
12 ago 2016
12 ago 2016
Cosa manca a Mo Farah per raggiungere la gloria dei suoi predecessori.
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Riccardo Rimondi
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Citius, altius, fortius. Più veloce, più in alto, più forte. È il motto olimpico ufficiale. In latino, alla faccia dei natali greci delle Olimpiadi. Uno strafalcione storico, come quel «l’importante non è vincere, ma partecipare» forgiato dal barone Pierre De Coubertein, che si fa beffe del fatto che nell’antica Grecia l’unica cosa che contava fosse vincere. A Mohamed Farah non importa essere il più veloce, nonostante corra. E non gli importa nemmeno partecipare, tanto che negli anni Dieci del ventunesimo secolo ha perso solo una gara veramente importante. Per Mohamed Farah, in arte Mo, britannico immigrato dalla Somalia all’età di otto anni, conta solo vincere. È quello il suo lavoro e lo svolge alla perfezione. Il cronometro nemmeno lo guarda, nonostante abbia collezionato record britannici ed europei. D’altra parte, come recita un’altra vecchia massima, «le medaglie restano, i record passano» (era un motto coniato nell’epoca in cui le squalifiche retroattive non esistevano). Negli ultimi sette anni, Mo Farah ha sconvolto le gerarchie mondiali del mezzofondo su lunga distanza (5.000 e 10.000 metri). È una contraddizione vivente. È un africano ma corre per un Paese europeo. Ha rinverdito la tradizione della Gran Bretagna (fatta di nomi come Sebastian Coe, Steve Ovett e Steve Cram) ma, mentre loro dominavano 800 e 1.500 metri, lui si è buttato sulle distanze superiori. E questo nonostante il suo tempo migliore l’abbia ottenuto nei 1.500. È quasi coetaneo dell’asso etiope Kenenisa Bekele, ma ha iniziato a vincere solo quando questo ha imboccato il viale del tramonto. I suoi tempi non destano stupore, il suo palmares sì. Mentre Usain Bolt punta a fare la terza tripletta olimpica consecutiva della sua carriera (e mentre la prima viene messa in discussione, per la positività del componente della 4x100 Nesta Carter a Pechino 2008), Mohamed Farah tenta la quarta doppietta consecutiva, tra Olimpiadi e Mondiali, nei 5.000 e nei 10.000.

 

Dopo decenni di dominio quasi incontrastato di keniani ed etiopi, il britannico si è mangiato qualunque manifestazione importante svoltasi dal 2011 in poi. Mo Farah ha raggiunto un livello di celebrità raro per un mezzofondista su lunghe distanze,

. I motivi per cui ci è riuscito sono diversi. Il primo è il dominio assoluto di cui è stato protagonista negli ultimi anni. Il secondo è che, per quanto di origine africana, Mo Farah è europeo ed è raro, nell’atletica del ventunesimo secolo, vedere un europeo che vince gare di mezzofondo prolungato. Aiuta il fatto che Mo Farah sia cittadino di un Paese in cui l’atletica ha sempre avuto un’importanza maggiore che altrove.

 

L’ultima ragione forse è il Mobot, un gesto di esultanza che Mo Farah si è inventato in occasione delle Olimpiadi di Londra: unisce la braccia sopra la testa, formando la sagoma di un cuore. L’aveva provato prima dei Giochi, durante una trasmissione televisiva, quando il conduttore gli fece notare che, se avesse vinto, avrebbe dovuto trovare una maniera per rendersi riconoscibile nei festeggiamenti, un po’ come Bolt. Lui copiò la M di Ymca. E quando fece doppietta a Londra, quel gesto conobbe un discreto successo, di cui Mo Farah approfittò per un’iniziativa benefica qualche mese più tardi. Soprattutto finì nelle fotogallery olimpiche di tutti i siti di informazione del mondo, rendendo il suo nome celebre anche oltre alle prestazioni sportive in sé.

 



 

 



 

Mo Farah ha origini somale, ma ha trascorso la sua carriera in Europa: è in Gran Bretagna da quando aveva otto anni. E ha rinverdito una grande tradizione di mezzofondisti. Era dai tempi di Sebastian Coe, Steve Ovett e Steve Cram che i sudditi di sua maestà non erano protagonisti nelle corse su lunga distanza maschili (tra le donne, c’è stata Paula Radcliffe). Ma Coe, Ovett e Cram hanno concentrato la loro carriera soprattutto sugli 800 e sui 1.500, mentre Mo Farah ha ottenuto ottimi risultati cronometrici dai 1.500 fino alla maratona. Se a livello di tempi è estremamente versatile, per quanto riguarda le medaglie ha un terreno di caccia ben preciso: i 5.000 e i 10.000 metri. Dal 2011 a oggi ha perso per strada un solo oro tra Mondiali e Olimpiadi: quello dei 10.000 di Daegu 2011, quando l’etiope Ibrahim Jeilan lo sconfisse in volata e succedette al suo più famoso connazionale Kenenisa Bekele.

 

Da quel momento, Mo Farah non ha mai più perso uno sprint importante. Sette giorni dopo si è laureato campione mondiale, per la prima volta in carriera, nei 5.000 metri. Con un ultimo giro in 52’’6 ha staccato tutti gli inseguitori, mentre a pochi metri da lui l’americano Bernard Lagat (all’epoca quasi trentasettenne) risaliva una posizione dopo l’altra senza però riuscire a ricucire lo strappo. L’anno successivo, alle Olimpiadi di Londra, ha inaugurato la stagione delle doppiette: primo nei 10.000, ultimi 400 in 53’’5, e primo nei 5.000, con l’ultimo giro chiuso in 53 secondi. Quello del tempo nei 400 finali non è un dettaglio, ma la chiave del suo successo: il britannico non vince tenendo alto il ritmo per tutta la corsa, anzi le gare in cui si trova meglio sono quelle che procedono a ritmi sonnolenti fino a mille metri dal traguardo. Ma non aspetta nemmeno gli ultimi 100 metri per mettersi in testa, come fanno molti atleti provenienti dai 1.500 metri o comunque abili nel miglio metrico come lo è lui: quella fu la tattica usata da Hicham El Guerrouj per battere Kenenisa Bekele nei 5.000 di Atene 2004 ed è sempre stata l’arma micidiale di Bernard Lagat nelle sue uscite sulle lunghe distanze.

 

Mo Farah parte da lontano, 400-600 metri prima del traguardo. Inizia una progressione che allunga il gruppo, si libera uno a uno dei suoi avversari: non è uno scatto bruciante, ma un’accelerazione infinita che, spesso, lo mette a distanza di sicurezza già all’imbocco dell’ultimo rettilineo. E quando non è così, gli avversari sono troppo spremuti per sperare di poterlo battere. Anche perché, pure in vista del traguardo, conserva una lucidità che gli permette di imprimere un ultimo scatto quando ce n’è bisogno. Così ha dominato entrambe le sue specialità ai Mondiali di Mosca 2013 e si è ripetuto a Pechino 2015, forse il suo appuntamento più difficile: ai campionati del mondo cinesi, il britannico si presentava dopo mesi di accuse di doping che l’avevano messo al centro dell’attenzione mediatica in patria e nel mondo.

 

L’unica parvenza di difficoltà l’ha avuta nei 10.000, dove i kenyani per la prima volta hanno provato a tenere un ritmo di gara sostenuto (anche se comunque lontano dai crono di alto livello) e a 350 metri dalla fine l’involontario sgambetto di un avversario ha rischiato di farlo cadere. Ha vinto, seminando tutti nell’ultimo rettilineo, e si è ripetuto pochi giorni dopo nei 5.000: qui, come raramente gli succede, ha aspettato i cento metri finali per andare in testa. Fino a quel punto si è lasciato trainare dal kenyano Caleb Ndiku, che nel giro finale ha provato senza successo a staccarlo per poi piantarsi nel rettilineo.

 

Ora Farah affila le armi per quello che potrebbe essere il suo ultimo vero grande appuntamento. A giocare contro di lui è soprattutto la carta d’identità: ha 33 anni e, per quanto il suo avversario Lagat abbia velleità da medaglia pur avendo passato da un pezzo i quaranta, è inevitabile che con l’allungarsi della carriera si accorci l’autonomia nei momenti più concitati della gara. Più si avanza con l’età, più diventa difficile riuscire a correre gli ultimi 400 metri a ritmi infernali, anche se a suo favore gioca l’esplosione a dir poco tardiva nell’atletica che conta. Farah ha vinto i suoi primi Mondiali a 28 anni e, spesso, chi arriva tardi ai vertici riesce a prolungare la sua carriera ben più della media. Anche quest’anno le condizioni di forma sembrano buone, a giudicare dai risultati ottenuti finora: nei 5.000 guida le classifiche mondiali stagionali, nei 10.000 è secondo. Ma mai come nel mezzofondo prolungato i risultati cronometrici contano poco, quando in ballo ci sono le medaglie e il podio si gioca sulla tattica e sulla capacità di accelerare nel momento giusto. In ogni caso, Mo Farah ha la possibilità di reale di fare qualcosa che non si vede da quarant’anni: potrebbe fare due volte di seguito la doppietta olimpica 5.000-10.000. L’ultimo a farcela è stato il finlandese Lasse Viren, che vinse alle Olimpiadi di Monaco 1972 e Montreal 1976.

 

https://www.youtube.com/watch?v=9dInYfz266k

L’oro olimpico nei 5.000 metri a Londra 2012.






 

L’esplosione tardiva di Mo Farah ha fatto molto discutere. Prima del 2011, il britannico era conosciuto solo per le sue vittorie in Europa (argento nei 5.000 a Goteborg 2006, doppio oro a Barcellona 2010) e per qualche piazzamento a livello mondiale nei 5.000: sesto ai Mondiali 2007, eliminato in batteria alle Olimpiadi di Pechino 2008 e settimo ai Mondiali 2009. Poi è arrivato il boom di Daegu 2011, dove si presentava da favorito.

 

Tra il nulla e i trionfi c’è un nome. È quello del suo allenatore Alberto Salazar, ex atleta americano di alto livello. Mo Farah ha iniziato ad allenarsi con Salazar a inizio 2011 e, da lì, è diventato imprendibile. È entrato nel gruppo di allenamento

, creato a inizio secolo dalla marca di abbigliamento sportivo e di cui Salazar è capo allenatore. Questo significa allenarsi a Portland, ma non solo: significa anche far parte di un progetto che, da quindici anni, lavora per riportare ai vertici mondiali il mezzofondo americano. Simbolo di questo obiettivo è Galen Rupp, trent’anni, forse l’unico bianco in questi anni in grado di battagliare ad armi pari con etiopi, keniani e, ovviamente, Mo Farah. Fin dai sedici anni, Galen Rupp è stato allenato proprio da Salazar.

 

Negli anni le allusioni al doping sono arrivate da più parti, come succede come per qualunque atleta di livello mondiale. Ma le accuse più pesanti risalgono all’anno scorso. Prima

che lo ritraevano mentre si allenava con Hamza Driouch, ex campione del mondo juniores squalificato per doping a partire dal 31 dicembre 2014. A inizio giugno

, trasmessa nel corso della trasmissione Panorama, ha raccolto alcune testimonianze di casi di doping legati al Nike Oregon Project e al ruolo di Salazar: tra i diversi attacchi il più pesante era forse quello del suo ex collaboratore Steve Magness, che l’ha accusato di aver dopato Galen Rupp con il testosterone. Quando Salazar ha pubblicato

in cui si difendeva punto per punto dalle accuse che gli venivano rivolte, Mo Farah

. Ma nel frattempo il Daily Mail ha pubblicato

in cui rendeva noto che, tra il 2010 e il 2011, il campione britannico aveva saltato due test antidoping. Saltarne un terzo nel giro di dodici mesi avrebbe significato dare l’addio alle Olimpiadi di Londra. Lui

dando disponibilità al Sunday Times di pubblicare i dati del sangue derivanti da venti test antidoping sostenuti tra il 2005 e il 2012 , per dimostrare che non presentavano valori anomali. Quest’anno

, l’allenatore della campionessa etiope Genzebe Dibaba

. Ma Mo Farah non è mai stato seriamente accusato in via ufficiale: un conto sono le voci (

), ma tecnicamente il britannico non è mai stato trovato positivo a un test antidoping.

che è finito sotto investigazione da parte dell’agenzia antidoping americana, ha sempre rispedito al mittente le accuse che gli sono state rivolte e non è mai stato riconosciuto colpevole di nulla.

 

 



 

Comunque vadano quest’anno i Mondiali, alla luce di sette ori tra Olimpiadi e Mondiali, sono maturi i tempi per iniziare a chiedersi che valore abbia avuto Mo Farah nella storia dell’atletica leggera. Mo Farah è almeno il terzo, negli ultimi vent’anni, di cui si parla come del “più grande di sempre” nei 5.000 e nei 10.000. Lasciando stare leggende più datate, come il finlandese Paavo Nurmi o il cecoslovacco Emil Zatopek, per capire il valore di Mo Farah vale la pena guardare tra i protagonisti degli ultimi decenni di atletica.

 

Nell’ultimo quarto di secolo sono tre gli uomini che hanno monopolizzato il mezzofondo prolungato. È tra loro tre che si sono spartite quasi tutte le medaglie d’oro dei 5.000 e dei 10.000 metri assegnate tra i Mondiali di Stoccarda 1993 e quelli di Pechino 2015. Le poche che non sono finite al loro collo sono andate ad altri perché i tre dittatori non correvano quel giorno, oppure perché c’era qualche fuoriclasse in giornata di grazia capace di fare l’impresa. Questi tre atleti si sono dati il cambio l’uno con l’altro, in maniera tanto regolare da non pestarsi quasi i piedi nel corso dei passaggi di potere. Non ci sono mai stati veri e propri dualismi, solo passaggi di testimone come in una lunghissima staffetta.

 

Il primo fenomeno è stato l’etiope Haile Gebrselassie. Nato in una fattoria nel 1973, anno di morte del leggendario maratoneta Abebe Bikila, correva venti chilometri al giorno per coprire il tragitto casa-scuola. Di quell’epoca ha portato dietro, per tutta la carriera, l’abitudine di tenere il braccio sinistro fermo in una piega innaturale durante la corsa: era quello con cui portava i libri. Nel 1992 fu campione mondiale juniores nei 5.000 e nei 10.000. Non aveva ancora vent’anni ai Mondiali di Stoccarda 1993: arrivò secondo nei 5.000 metri e vinse i 10.000 grazie anche al kenyano Moses Tanui, che perse una scarpa nell’ultima parte di gara.

 

Da quel momento, Gebrselassie dominò la scena per un decennio. L’anno successivo fece il record mondiale dei 5.000, nel 1995 aggiunse anche quello dei 10.000. Li ha migliorati entrambi più volte: il suo primo primato mondiale nella distanza più corta è stato di 12’56’’96, l’ultimo di 12’39’’36, mentre sui 10.000 è sceso dai 26’52’’23 del 1995 ai 26’22’’75 del 1998. Non è esagerato dire che ha portato le sue gare un gradino più in alto, come hanno fatto Usain Bolt con la velocità e Yelena Isinbayeva con l’asta. Ha vinto quattro volte di seguito i Mondiali nei 10.000 metri, dal 1993 al 1999. Ha vinto due Olimpiadi, sempre nei 10.000, nel 1996 e nel 2000. Avrebbe pure potuto vincere di più, ma non gli è mai interessato correre i 5.000 nelle gare importanti. Gebrselassie ha avuto tutto dall’atletica. I soldi li ha investiti diventando un imprenditore di successo: ha diversi alberghi e scuole, è impegnato nell’edilizia ma si occupa anche di altro. La fama, che l’ha trasformato in una specie di imperatore honoris causa tra gli etiopi, vuole metterla a frutto in politica, con l’obiettivo di diventare presidente dell’Etiopia.

 

Gebrselassie, che già nel 2001 ai Mondiali di Edmonton ha subito una prima sconfitta per opera del kenyano Charles Kamathi e dell’etiope Assefa Mezgebu, passando definitivamente il testimone a Parigi il 24 agosto 2003, dieci anni e due giorni dopo la vittoria di Stoccarda. A togliergli lo scettro è stato un suo connazionale di nove anni più giovane, Kenenisa Bekele. Un cognome che, ironia della sorte, è anche il nome di battesimo del padre di Gebre. Gebrselassie ha tirato tutta la gara, correndo in 12’57’’ gli ultimi cinque chilometri, ma Bekele gli è rimasto a ruota fino a 200 metri dalla fine: a quel punto lo ha superato andando a vincere, come tante volte aveva fatto Gebre prima di lui con i suoi malcapitati avversari.

 

https://www.youtube.com/watch?v=njGGvaxZSro

Il passaggio di consegne.


 

Kenenisa Bekele ha migliorato entrambi i record del suo maestro: nel 2004 ha portato il primato dei 5.000 a 12’37’’35 e quello dei 10.000 a 26'20’’31. L’anno dopo, sempre nei 10.000, è sceso fino a 26’17’’53. Ha vinto tre ori olimpici, sui 10.000 nel 2004 e sui 5.000 e 10.000 nel 2008. La doppietta gli è riuscita anche ai Mondiali del 2009, mentre nel 2005 e nel 2007 si è accontentato dei soli 10.000 metri. Poi gli infortuni lo hanno quasi fatto sparire dall’atletica: ha provato con la maratona, sulle orme di Gebrselassie, ma in quel campo non è mai riuscito a fare bene come il suo maestro. Per Bekele, fuori dalla pista, c’è sempre stata solo la corsa campestre, la stessa specialità che lo aveva lanciato nel mondo dell’atletica che conta. In mezzo all’erba probabilmente è stato ancora più forte che sul tartan.

 

Finita l’epoca di Bekele, è arrivato Mohamed Farah. Per ora il britannico ha vinto due ori olimpici, come Gebrselassie e uno in meno di Bekele: ma quest’anno potrebbe superare anche il secondo etiope, se gli riuscisse la quarta doppietta di fila. Ai Mondiali, vanta la bellezza di cinque ori: quanti ne ha conquistati Bekele, mentre Gebrselassie si è fermato a quattro. Insomma, a giudicare il numero di vittorie Farah sembrerebbe il più grande di tutti i tempi. Ma è veramente così?

 

I detrattori potrebbero indicare i tempi ottenuti dal britannico, che per qualità sono molto inferiori a quelli dei suoi due predecessori: non solo non ha mai ottenuto un record del mondo nelle sue gare, ma non vi si è mai nemmeno avvicinato. Il suo miglior crono nei 5.000, 12’53’’11, è record britannico ma basta appena a metterlo al trentunesimo posto tra i corridori di questa distanza, a quasi 16 secondi da Kenenisa Bekele. Nei 10.000 ha il record europeo ma è sedicesimo con 26’46’’57, a 29 secondi dallo stesso Bekele.

 

C’è anche un altro elemento che potrebbe ridimensionare le reali qualità di Mo Farah: la grandezza degli avversari. Gebrselassie si è confrontato con il meglio che il Kenya ha saputo offrire in quelle distanze negli ultimi decenni. Ha combattuto contro Daniel Komen e Paul Tergat, due campioni che, se non si fossero trovati davanti lui, avrebbero le bacheche invase dall’oro mentre invece, tranne qualche eccezione, sono stati abbonati all’argento per tutta la carriera. Indimenticabile resta la volata finale dei 10.000 metri a Sydney 2000, un interminabile spalla a spalla tra Gebrselassie e Tergat con il primo che riuscì a sconfiggere il secondo per soli nove centesimi. Per usare un termine di paragone, basta ricordare che nella stessa rassegna olimpica, il distacco tra l’oro e l’argento dei 100 metri (e quindi tra l’americano Maurice Greene e il trinidegno Ato Boldon) fu più ampio: dodici centesimi. Anche Bekele si è scontrato con avversari di grande qualità: come ricordato, è diventato campione del mondo sconfiggendo la leggenda assoluta (e suo eroe personale). Nel 2004 è stato sconfitto in finale dei 5.000 da El Guerrouj, forse il migliore di sempre sui 1.500. E in seguito ha avuto almeno la concorrenza dell’eritreo Zersenay Tadese, che nel 2009 ai Mondiali di Berlino lo ha costretto a impegnarsi per tutta la gara dei 10.000, e di Bernard Lagat, che sempre in Germania nei 5.000 ha rischiato di fare il colpaccio all’ultimo rettilineo. Mo Farah non ha avuto avversari di questo livello: troppo vecchio Lagat per essere brillante come qualche anno prima, mentre Tadese non è mai più stato ai livelli assoluti visti nel biennio 2008-2009, almeno per quanto riguarda le gare su pista.

 

Ultimo elemento che potrebbe far pendere la bilancia verso gli etiopi invece che verso il britannico: come già accennato di Mo Farah si è sentito a malapena parlare, finché Bekele ha dominato la scena. Bisogna sottolineare un fatto: Bekele ha solo un anno in più di Mo Farah, ma i due paiono di generazioni diverse. Lo stacco temporale sembra paragonabile a quello tra Gebrselassie e Bekele, mentre invece i due si erano già incrociati ai Mondiali juniores del 2000. Bekele quella volta arrivò secondo, mentre Farah (che gareggiava con gli under 20 nonostante fosse un under 18) si dovette accontentare di una decima posizione. Le differenze tra i due sono emerse dopo: Farah è rimasto nell’ombra per tantissimi anni, mentre Bekele è arrivato rapidamente a dominare la scena internazionale.

 

Il fatto che, nonostante l’età simile, Farah se ne sia stato rispettosamente nelle retrovie finché Bekele era al suo meglio potrebbe far pensare che il britannico abbia vinto solo grazie al vuoto di potere successivo. Soprattutto se, accanto a questo dato, si considera la mancanza di avversari di alto livello (una mancanza talmente evidente che si può tranquillamente parlare di crisi di vocazioni) e i tempi lontani dall’elitè mondiale. Per molti versi è vero: Mo Farah si misura con avversari minori di quelli che avevano i suoi predecessori, sia come qualità fisiche sia come coraggio. E fa tempi che non destano stupore. Tant’è che alla Bupa Great North Run del 2013, unico vero scontro diretto fra i tre re, ha perso contro Bekele, scattato a due chilometri dal traguardo e poi capace di resistergli negli ultimi 400 metri mozzafiato. A qualche decina di secondi è arrivato Haile Gebrselassie, capace di scendere sotto i 61 minuti a quarant’anni.

 

https://www.youtube.com/watch?v=icdS6BjnKlA





 

Ma Mo Farah non è arrivato a dominare per caso. Le sue vittorie sono il frutto di una strategia di gara molto intelligente, che lo porta a fare quella progressione finale che sgretola le resistenze dei suoi avversari. E lui lavora tutto l’anno, per ottenere quella condotta di gara.

 

Una prova evidente sono i risultati che ha sui 1.500 metri, una gara che lui non corre mai per vincere una medaglia ma che usa come test durante l’anno: il suo personale, 3’28’’81, risale a tre anni fa. Ed è un tempo eccezionale: è il record europeo, a meno di tre secondi dal primato mondiale. Solo otto atleti nella storia hanno corso quella distanza in un tempo inferiore al suo. Nonostante questo, e nonostante la grande tradizione britannica in questa gara, Mo Farah l’ha sempre completamente snobbata in ottica medaglie. Questo perché nel miglio metrico, nonostante l’ottimo tempo di accredito, non sarebbe mai in grado di imprimere un’accelerazione finale simile a quella che fa vedere sulle distanze più lunghe: nei 1.500 il ritmo medio è più alto e gli atleti che corrono quella distanza hanno una velocità di base decisamente superiore a quella degli avversari che si ritrova nei 5.000 e nei 10.000, quindi sono molto più attrezzati per resistergli e batterlo. I suoi risultati nei 1.500, quindi, valgono solo come cartina di tornasole per testare il livello della sua arma decisiva: l’accelerazione da lontano. È su questo che danno un’indicazione chiara.

 

Per andare a caccia di vittorie pesanti, poi, Mo Farah abbassa il ritmo e allunga il numero di giri, forte del fatto che non tutti i mezzofondisti veloci possano farlo: ottenere i suoi tempi su distanze così differenti non è da tutti. Anzi, è un caso unico: finora Mo Farah è stato il solo uomo nella storia capace di correre i 1.500 in meno di 3’30’’, i 5.000 in meno di 13 minuti e i 10.000 in meno di 27 minuti, oltre che di sfondare il muro dell’ora nella mezza maratona e quello delle 2:10’ nella maratona. Ha una versatilità enorme, che usa nelle due gare dove può esprimersi al meglio sfruttando le sue caratteristiche.

 

Certo, forse con Gebre e Bekele in pista avrebbe vita più difficile, visto che entrambi avevano un ottimo ultimo giro ed erano capaci di tenere ritmi migliori nel corso di tutta la gara, ma avrebbe quantomeno delle armi con cui difendersi. Il problema di Mo Farah, quindi, non sono tanto le sue migliori prestazioni che, come abbiamo visto, sono comunque di assoluto valore, solide e variegate. Il problema che potrebbe impedirgli di conquistarsi un posto nell’Olimpo dei grandi atleti è la mancanza assoluta di un avversario al suo livello, che da una parte certifichi per contrasto il suo valore assoluto, e dall’altra ne elevi la narrativa - che nello sport si nutre soprattutto di grandi sfide.

 

Mo Farah, con la sua condotta di gara, ha uno stile ben definito: quello del

che migra sulla corsa di lunga lena puntando sui ritmi blandi, per sfruttare in questo modo la sua migliore progressione nel finale. Può piacere o non piacere, ma è un modo di vedere la gara.

 

A questa interpretazione si può rispondere in due modi: subendola, come generalmente fanno i suoi avversari, ma così, finché non arriva qualcuno ancora più bravo di Mo Farah nella progressione, o finché lui non invecchia, si lotterà sempre e solo per il secondo posto; oppure inventandosi una strategia di gara diversa. Mo Farah, per quanto forte, ha i suoi punti deboli: negli anni scorsi, spesso il suo miglior tempo era di qualità pari o inferiore a quello di diversi avversari. Nessuno di loro, però, ha mai provato a tenere i ritmi altissimi fin dall’inizio di gara, per provare a mandarlo in crisi prima dell’ultimo chilometro. Tutti accettano di arrivare in gruppo alla fase finale e, a quel punto, hanno già quasi sicuramente perso. Partire da lontano è estremamente rischioso: può finire con un ritiro o comunque con una debacle imbarazzante. Ma può anche andare bene. Steve Prefontaine, leggendario e tragico mezzofondista americano, correva quasi sempre all’attacco: spesso gli andava male, ma diverse volte la sua visione funzionava e portava a casa delle vittorie spettacolari. Più recentemente l’etiope Almaz Ayana, che ha il suo tallone d’Achille nella volata, si è trovata di fronte nei 5.000 Genzebe Dibaba, che invece è capace di un’accelerazione mostruosa nell’ultimo giro per le stesse ragioni di Mo Farah. Ayana non si è data per vinta e l’anno scorso, a Pechino, l’ha aggredita con un’accelerazione sconsiderata nel terzo e nel quarto chilometro, fase di gara in cui è andata 16 centesimi più forte di quanto abbiano fatto gli uomini. Ha corso gli ultimi 3.000 metri sotto gli 8’20’’, mentre Dibaba naufragava alle sue spalle. Tra gli uomini manca qualcuno che abbia lo stesso coraggio di sparigliare le carte e così Mo Farah, mezzofondista veloce per vocazione ma corridore di lunghe distanze per scelta, non ha problemi a vincere. E, d’altra parte, non trova nessuno che provi a metterlo in difficoltà, rendendo più grande la sua figura.

 

Quest’anno, a Rio de Janeiro, si troverà a combattere prima di tutto contro la sua carta di identità. Poi con i sospetti. Ma la ragione delle sue vittorie porta con sé anche le ragioni di un possibile rammarico: se non avrà mai avversari al suo livello, non potrà mai conquistare una vittoria storica come quelle dei suoi predecessori. L’unica cosa che gli manca, ben più delle vittorie o dei record, è una foto sul comodino che assomigli a quella che ha Gebrselassie della sua vittoria su Tergat o a quella di Bekele del suo sorpasso su Gebre. Le medaglie ci sono e forse non sono ancora finite, ma per la gloria eterna c’è ancora da lavorare.

 

 

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