L'Ultimo Uomo

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Foto di Michael Steele/Getty Images
Sport Riccardo Rimondi 12 agosto 2016 17'

Il più grande?

Cosa manca a Mo Farah per raggiungere la gloria dei suoi predecessori.

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Citius, altius, fortius. Più veloce, più in alto, più forte. È il motto olimpico ufficiale. In latino, alla faccia dei natali greci delle Olimpiadi. Uno strafalcione storico, come quel «l’importante non è vincere, ma partecipare» forgiato dal barone Pierre De Coubertein, che si fa beffe del fatto che nell’antica Grecia l’unica cosa che contava fosse vincere. A Mohamed Farah non importa essere il più veloce, nonostante corra. E non gli importa nemmeno partecipare, tanto che negli anni Dieci del ventunesimo secolo ha perso solo una gara veramente importante. Per Mohamed Farah, in arte Mo, britannico immigrato dalla Somalia all’età di otto anni, conta solo vincere. È quello il suo lavoro e lo svolge alla perfezione. Il cronometro nemmeno lo guarda, nonostante abbia collezionato record britannici ed europei. D’altra parte, come recita un’altra vecchia massima, «le medaglie restano, i record passano» (era un motto coniato nell’epoca in cui le squalifiche retroattive non esistevano). Negli ultimi sette anni, Mo Farah ha sconvolto le gerarchie mondiali del mezzofondo su lunga distanza (5.000 e 10.000 metri). È una contraddizione vivente. È un africano ma corre per un Paese europeo. Ha rinverdito la tradizione della Gran Bretagna (fatta di nomi come Sebastian Coe, Steve Ovett e Steve Cram) ma, mentre loro dominavano 800 e 1.500 metri, lui si è buttato sulle distanze superiori. E questo nonostante il suo tempo migliore l’abbia ottenuto nei 1.500. È quasi coetaneo dell’asso etiope Kenenisa Bekele, ma ha iniziato a vincere solo quando questo ha imboccato il viale del tramonto. I suoi tempi non destano stupore, il suo palmares sì. Mentre Usain Bolt punta a fare la terza tripletta olimpica consecutiva della sua carriera (e mentre la prima viene messa in discussione, per la positività del componente della 4×100 Nesta Carter a Pechino 2008), Mohamed Farah tenta la quarta doppietta consecutiva, tra Olimpiadi e Mondiali, nei 5.000 e nei 10.000.

 

Dopo decenni di dominio quasi incontrastato di keniani ed etiopi, il britannico si è mangiato qualunque manifestazione importante svoltasi dal 2011 in poi. Mo Farah ha raggiunto un livello di celebrità raro per un mezzofondista su lunghe distanze, secondo la rivista Forbes. I motivi per cui ci è riuscito sono diversi. Il primo è il dominio assoluto di cui è stato protagonista negli ultimi anni. Il secondo è che, per quanto di origine africana, Mo Farah è europeo ed è raro, nell’atletica del ventunesimo secolo, vedere un europeo che vince gare di mezzofondo prolungato. Aiuta il fatto che Mo Farah sia cittadino di un Paese in cui l’atletica ha sempre avuto un’importanza maggiore che altrove.

 

L’ultima ragione forse è il Mobot, un gesto di esultanza che Mo Farah si è inventato in occasione delle Olimpiadi di Londra: unisce la braccia sopra la testa, formando la sagoma di un cuore. L’aveva provato prima dei Giochi, durante una trasmissione televisiva, quando il conduttore gli fece notare che, se avesse vinto, avrebbe dovuto trovare una maniera per rendersi riconoscibile nei festeggiamenti, un po’ come Bolt. Lui copiò la M di Ymca. E quando fece doppietta a Londra, quel gesto conobbe un discreto successo, di cui Mo Farah approfittò per un’iniziativa benefica qualche mese più tardi. Soprattutto finì nelle fotogallery olimpiche di tutti i siti di informazione del mondo, rendendo il suo nome celebre anche oltre alle prestazioni sportive in sé.

 

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I trionfi

 

Mo Farah ha origini somale, ma ha trascorso la sua carriera in Europa: è in Gran Bretagna da quando aveva otto anni. E ha rinverdito una grande tradizione di mezzofondisti. Era dai tempi di Sebastian Coe, Steve Ovett e Steve Cram che i sudditi di sua maestà non erano protagonisti nelle corse su lunga distanza maschili (tra le donne, c’è stata Paula Radcliffe). Ma Coe, Ovett e Cram hanno concentrato la loro carriera soprattutto sugli 800 e sui 1.500, mentre Mo Farah ha ottenuto ottimi risultati cronometrici dai 1.500 fino alla maratona. Se a livello di tempi è estremamente versatile, per quanto riguarda le medaglie ha un terreno di caccia ben preciso: i 5.000 e i 10.000 metri. Dal 2011 a oggi ha perso per strada un solo oro tra Mondiali e Olimpiadi: quello dei 10.000 di Daegu 2011, quando l’etiope Ibrahim Jeilan lo sconfisse in volata e succedette al suo più famoso connazionale Kenenisa Bekele.

 

Da quel momento, Mo Farah non ha mai più perso uno sprint importante. Sette giorni dopo si è laureato campione mondiale, per la prima volta in carriera, nei 5.000 metri. Con un ultimo giro in 52’’6 ha staccato tutti gli inseguitori, mentre a pochi metri da lui l’americano Bernard Lagat (all’epoca quasi trentasettenne) risaliva una posizione dopo l’altra senza però riuscire a ricucire lo strappo. L’anno successivo, alle Olimpiadi di Londra, ha inaugurato la stagione delle doppiette: primo nei 10.000, ultimi 400 in 53’’5, e primo nei 5.000, con l’ultimo giro chiuso in 53 secondi. Quello del tempo nei 400 finali non è un dettaglio, ma la chiave del suo successo: il britannico non vince tenendo alto il ritmo per tutta la corsa, anzi le gare in cui si trova meglio sono quelle che procedono a ritmi sonnolenti fino a mille metri dal traguardo. Ma non aspetta nemmeno gli ultimi 100 metri per mettersi in testa, come fanno molti atleti provenienti dai 1.500 metri o comunque abili nel miglio metrico come lo è lui: quella fu la tattica usata da Hicham El Guerrouj per battere Kenenisa Bekele nei 5.000 di Atene 2004 ed è sempre stata l’arma micidiale di Bernard Lagat nelle sue uscite sulle lunghe distanze.

 

Mo Farah parte da lontano, 400-600 metri prima del traguardo. Inizia una progressione che allunga il gruppo, si libera uno a uno dei suoi avversari: non è uno scatto bruciante, ma un’accelerazione infinita che, spesso, lo mette a distanza di sicurezza già all’imbocco dell’ultimo rettilineo. E quando non è così, gli avversari sono troppo spremuti per sperare di poterlo battere. Anche perché, pure in vista del traguardo, conserva una lucidità che gli permette di imprimere un ultimo scatto quando ce n’è bisogno. Così ha dominato entrambe le sue specialità ai Mondiali di Mosca 2013 e si è ripetuto a Pechino 2015, forse il suo appuntamento più difficile: ai campionati del mondo cinesi, il britannico si presentava dopo mesi di accuse di doping che l’avevano messo al centro dell’attenzione mediatica in patria e nel mondo.

 

L’unica parvenza di difficoltà l’ha avuta nei 10.000, dove i kenyani per la prima volta hanno provato a tenere un ritmo di gara sostenuto (anche se comunque lontano dai crono di alto livello) e a 350 metri dalla fine l’involontario sgambetto di un avversario ha rischiato di farlo cadere. Ha vinto, seminando tutti nell’ultimo rettilineo, e si è ripetuto pochi giorni dopo nei 5.000: qui, come raramente gli succede, ha aspettato i cento metri finali per andare in testa. Fino a quel punto si è lasciato trainare dal kenyano Caleb Ndiku, che nel giro finale ha provato senza successo a staccarlo per poi piantarsi nel rettilineo.

 

Ora Farah affila le armi per quello che potrebbe essere il suo ultimo vero grande appuntamento. A giocare contro di lui è soprattutto la carta d’identità: ha 33 anni e, per quanto il suo avversario Lagat abbia velleità da medaglia pur avendo passato da un pezzo i quaranta, è inevitabile che con l’allungarsi della carriera si accorci l’autonomia nei momenti più concitati della gara. Più si avanza con l’età, più diventa difficile riuscire a correre gli ultimi 400 metri a ritmi infernali, anche se a suo favore gioca l’esplosione a dir poco tardiva nell’atletica che conta. Farah ha vinto i suoi primi Mondiali a 28 anni e, spesso, chi arriva tardi ai vertici riesce a prolungare la sua carriera ben più della media. Anche quest’anno le condizioni di forma sembrano buone, a giudicare dai risultati ottenuti finora: nei 5.000 guida le classifiche mondiali stagionali, nei 10.000 è secondo. Ma mai come nel mezzofondo prolungato i risultati cronometrici contano poco, quando in ballo ci sono le medaglie e il podio si gioca sulla tattica e sulla capacità di accelerare nel momento giusto. In ogni caso, Mo Farah ha la possibilità di reale di fare qualcosa che non si vede da quarant’anni: potrebbe fare due volte di seguito la doppietta olimpica 5.000-10.000. L’ultimo a farcela è stato il finlandese Lasse Viren, che vinse alle Olimpiadi di Monaco 1972 e Montreal 1976.

 

L’oro olimpico nei 5.000 metri a Londra 2012.

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Tags : atletica leggeralondra 2012mo faraholimpiadirio 2016usain bolt

Riccardo Rimondi è nato nel 1990 a Bologna, città in cui vive. Laureato in Economia e appassionato di sport, è giornalista freelance da marzo 2015. Scrive articoli su storie di calcio per Calcioscopio.

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