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Foto di Lachlan Cunningham/Getty Images
NBA Dario Ronzulli 14 giugno 2019 7'

Il passo nella storia dei Toronto Raptors

I canadesi hanno vinto il loro primo titolo NBA sulle spalle di Kawhi Leonard contro un avversario semplicemente straordinario.

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I Toronto Raptors sono campioni NBA. L’inseguimento al titolo è finalmente concluso, la scommessa della scorsa estate di Masai Ujiri ha pagato il maggior numero di dividendi possibili. Il sacrificio del miglior realizzatore nella storia della franchigia, DeMar DeRozan, ha permesso la costruzione della squadra capace di invertire la narrativa dei canadesi fino a portare il Larry O’Brien Trophy oltre confine per la prima volta nella storia della NBA. Kawhi Leonard, MVP sfiorando l’unanimità, oggi potrebbe chiedere non solo le chiavi della città, ma di ogni singolo appartamento e gliele darebbero in duplice copia – anche perché com’è noto i canadesi tengono le porte di casa aperte. È lui il volto in copertina di un titolo arrivato al termine di una serie finale di struggente e commovente bellezza contro una squadra, i Golden State Warriors, che di arrendersi al fato avverso proprio non ne voleva sapere. Per intensità, pathos, agonismo e thrilling, Gara-6 è stata un’efficace sintesi di tutte la serie finale della stagione 2018-19. Una serie che peraltro si è altamente disinteressata del fattore campo dal momento che ha visto 5 vittorie esterne.

 

HISTORY! #WeTheNorth pic.twitter.com/F6nKao43jf

— Toronto Raptors (@Raptors) June 14, 2019

 

Inevitabile ripartire dall’infortunio di Klay Thompson, il momento di svolta della serata. Quando Thompson è precipitato a terra ricadendo male sul ginocchio sinistro, il suo tabellino recitava 28 punti con 6/6 da due e 4/6 da tre. Una prestazione clamorosa, probabilmente destinata ad entrare nella storia dei playoff sfondando la porta principale se non ci fosse stata quella rovinosa caduta. Ci sono anche 8 liberi su 8 messi a segno, che sono diventati 10 su 10 – con bottino salito a quota 30 – perché Thompson è tornato dagli spogliatoi per andare in lunetta suscitando un entusiasmo incontenibile nella Oracle Arena, in una scena che ha ricordato Willis Reed nel 1970.

 

After tearing his ACL, Klay Thompson came back onto the court to hit two free throws 😳 pic.twitter.com/dyUEcpFm4R

— ESPN (@espn) June 14, 2019

 

You hate to see it.

 

Klay Thompson, però, è tornato solo per i liberi: per quanto il numero 11 sia uno con una soglia del dolore inumana, anche lui ha dovuto alzare bandiera bianca e lasciare il parquet, pur cercando di farlo correndo e tentando fino all’ultimo di scuotersi di dosso quanto successo. Fino a quel momento era stato di gran lunga il migliore dei suoi, confermando il suo feeling speciale con le Gare-6 (chiedere a OKC per conferme). La sua uscita ha definitivamente tolto agli Warriors l’arma in attacco necessaria a scardinare l’impenetrabile difesa Raptors: viaggiando al ritmo di un punto a minuto e con soli 12 tiri, Thompson stava dando una dimensione diversa a tutta la Dub Nation.

 

 

Avere un passatore come Thompson permette a Golden State di sfruttarlo anche in post basso, magari contro Lowry che gli cede chili e centimetri.

 

Qui Klay richiama il raddoppio di Marc Gasol ma allo spagnolo non dà neanche il tempo di arrivare che subito rimette palla fuori per Green. Da qui si innesca un meccanismo che porta – anche grazie al blocco no look di McKinnie – alla schiacciata di Iguodala. Al di là dei punti segnati, è il modo in cui Thompson ha condizionato le scelte difensive dei Raptors che lascia enormi rimpianti in casa Warriors.

 

Poi il ginocchio si è rotto, e il destino cinico e beffardo ancora una volta si è frapposto tra Golden State e il quarto titolo in cinque anni. Ma la tenacia e la determinazione dei californiani è stata encomiabile, a tratti commovente: Andre Iguodala si è preso responsabilità offensive come raramente ha fatto sulla Baia; Draymond Green ha chiuso con una tripla doppia – 11 punti, 19 (!) rimbalzi e 13 assist – che dice tutto di quanto abbia sputato sangue sul parquet pur di non cedere il passo. Le 8 palle perse, tuttavia, sono il rovescio della medaglia suo e di riflesso di tutta la squadra: Green e compagni hanno dato tutto, ma non poteva bastare perché in queste condizioni e contro questa Toronto bisognava essere perfetti in ogni dettaglio. Altro dato: ai liberi Steph Curry e Thompson hanno concluso con un perfetto 16/16, mentre il resto della squadra (o meglio Iguodala, Green e Cousins, visto che gli altri la lunetta l’hanno vista con il binocolo) 5/14.

 

La coperta di Steve Kerr si è inevitabilmente rivelata cortissima senza Durant e Thompson. Il coach si è dovuto inventare quintetti con Kevon Looney e DeMarcus Cousins in campo assieme – nella speranza di compensare le deficienze offensive del primo con quelle difensive del secondo – o Jonas Jerebko in campo in apertura di quarto periodo. La stessa partita di Curry, arrivato col fiato corto dopo aver girato come una trottola per sei partite, non è stata all’altezza: 6/17 al tiro, 3/11 dall’arco, 1/6 nel quarto periodo quando c’era un disperato bisogno delle sue giocate contro una difesa che ha lavorato strenuamente per non metterlo mai in ritmo. Però, onestamente, avete veramente qualcosa da rimproverare a lui e a questi Warriors andati ad un tiro dal forzare Gara-7 in queste condizioni?

 

 

Uscendo dal time-out disegna una rimessa SLOB rubata dal playbook di Brad Stevens dove compare con il titolo “Winner”.

 

Dopo che Danny Green ha malauguratamente perso palla per Toronto, Golden State può rimettere nella metà campo offensiva. La rimessa disegnata da Kerr mette nelle condizioni migliori il miglior tiratore, cioè Curry. Sono due le chiavi: il blocco di Cousins lontano dal pallone e la frazione di secondo che Ibaka perde per capire dove sia Curry. Il tiro non entra ma davvero non si poteva costruire un tiro migliore contro questa difesa.

 

Bravissimi gli Warriors, dunque, ma alla fine i campioni sono stati i Raptors. Avevano bisogno di un trascinatore, qualcuno che li prendesse per mano e li portasse lì dove non erano mai stati. Avevano bisogno di Kawhi Leonard, strameritato MVP con 10 voti su 11 (l’altro votato è Fred VanVleet, su cui torniamo tra poco). Entra nello strettissimo novero di coloro che hanno vinto il premio di miglior giocatore con due squadre diverse ed è un club che comprende lui, Kareem Abdul-Jabbar e LeBron James. Quello di coloro che sono riusciti a farlo nelle due conference, invece, conta solamente lui. Anche in Gara-6 Leonard non ha fatto mancare il suo contributo, sia in attacco sia in difesa dove ha preso in consegna Thompson spendendo tante energie che sono un po’ mancate dall’altra parte.

 

Ecco, la difesa: uno dei fattori più evidenti del successo Raptors. Nick Nurse e il suo staff – tra cui anche Sergio Scariolo, che diventa il secondo italiano a potersi fregiare di un titolo NBA dopo Marco Belinelli – hanno studiato di volta in volta mosse diverse e adatte al contesto della partita e a quello che gli Warriors mettevano in campo. Nella partita che ha deciso il titolo i cambi difensivi hanno coinvolto anche i lunghi e poi, quando Thompson ha dovuto alzare bandiera bianca, Toronto ha tirato fuori dal cassetto l’ormai celebre box-and-one dedicata a Curry, seguito in primis da Danny Green – zero punti e una sciagurata persa nel finale, ma anche un lavoro di sacrificio pazzesco, come Marc Gasol che dal campo non ha segnato mai ma non si è tirato indietro dal lavoro sporco. Una situazione non inedita ma certamente non abituale in NBA, a testimonianza di come questa serie, questi playoff e questa stagione abbiano permesso a Nurse di mostrare tutte le sue abilità di coach costruite con una lunghissima gavetta.

 

È il titolo di Leonard, ma da solo non avrebbe vinto e anche in questo caso Gara-6 è la fotografia dell’intera serie. In una staffetta ideale, gli altri Raptors si sono passati il testimone di spalla di Kawhi. Ha iniziato Kyle Lowry, 15 punti nel solo primo quarto nel quale è stato una macchina infernale prima di mettersi al servizio dei compagni mettendoli in ritmo e chiudendo con +16 di plus/minus. Poi è stato il turno di Serge Ibaka, fondamentale in uscita dalla panchina per rendere pan per focaccia nel pitturato agli Warriors: il congolese naturalizzato spagnolo ha avuto un eccellente 95.7 di defensive rating. L’ultimo periodo è stato il teatro di Fred VanVleet, che ha tolto a Leonard l’unanimità per il premio di MVP grazie alle sue prestazioni cuore, grinta e letali tiri da 3 come quelli che hanno indirizzato la gara verso il Canada.

 

Con la partita in parità e Golden State che in un modo o nell’altro ha tenuto botta, Toronto è in attacco e la palla va immediatamente in mano a VanVleet. Ha già messo due triple e non può essere battezzato, evidentemente. Sulle sue tracce c’è Cook perché Kerr non ne ha altri da mandare. Blocco alto di Siakam, Cook ci passa sopra, la comunicazione con Draymond Green è assente e tutti e due vanno sul taglio di Siakam. Errore grave, dettaglio gestito male. A questo punto a VanVleet basta uno step back per creare separazione chilometrica e per prendersi un comodo tiro dall’arco. È il vantaggio che Toronto custodirà fino alla fine.

 

 

I dettagli fanno la differenza, sempre. A maggior ragione in questo momento della stagione.

 

Se l’MVP delle Finals è Leonard, quello di Gara-6 risponde al nome di Pascal Siakam. Il camerunense è stato sontuoso quasi come in Gara-1: 26 punti e 10 rimbalzi il suo bottino, rimanendo seduto giusto un paio di minuti sul finire del primo periodo (a differenza del quarto periodo di Gara-5 passato quasi tutto in panchina). Il suo canestro a 36 secondi dalla fine, più che il frutto dell’incoscienza, è il risultato dell’assoluta fiducia in se stesso che Pascal ha maturato in fretta e in questo anno in particolare.

 

Non sapremo mai cosa sarebbe stato di queste Finals con Durant e Thompson al completo: è ovvio che le chances di Golden State sarebbero aumentate in maniera esponenziale e che il lavoro difensivo dei Raptors avrebbe dovuto assumere altri connotati. Ma ciò non toglie che il traguardo raggiunto da Toronto sia pienamente meritato, frutto non del caso o della mera fortuna. Che possa essere l’inizio di una dinastia o un solo bagliore accecante lo potremo capire già da quello che deciderà di fare Kawhi Leonard tra qualche giorno, quando diventerà free agent. Nel frattempo, c’è molto da festeggiare a Jurassic Park.

 

 

 

Tags : golden state warriorskawhi leonardklay thompsonkyle lowrysteph currytoronto raptors

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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