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Il numero magico
19 nov 2014
19 nov 2014
Non tutte le maglie sono uguali. La 7 a Manchester, sponda United, ha una storia speciale, scritta sulle spalle di gente come Best, Beckham e Cantona.
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Il numero 7 del Manchester United

“Senti Matt, ma Tommy che fine ha fatto? Che razza di amico è, che non passa a trovarmi?”. Johnny Berry stava nel suo letto d’ospedale con il cranio fratturato, un gomito e una gamba spezzati, il bacino rotto e senza tutti i denti, rimossi mentre gli sistemavano la mascella, rotta anche quella. Nei sette anni precedenti a quel letto, era stato l’ottimo numero 7 del Manchester United. Non si rendeva ancora conto di quanto fosse grave l'incidente in cui si era trovato.

Tommy era Thomas Taylor, il centravanti, che non andava a trovare Johnny perché, come altri sette giocatori dello United, era rimasto ucciso nel disastro aereo di Monaco di Baviera, il 6 febbraio del ’58, di ritorno da un 3–3 in casa della Stella Rossa di Belgrado che li aveva inutilmente qualificati alle semifinali di Coppa dei Campioni.

Matt era Matt Busby, l’allenatore di quella squadra giovanissima e mancunianissima, ormai distrutta: li chiamavano i Busby Babes. A Busby avevano rimesso a posto le ossa del piede senza anestetico, una alla volta, una al giorno: “Fu doloroso, ma mai quanto sentire Johnny lamentarsi di come Tommy fosse un pessimo amico.”

Matt Busby la Coppa Campioni l’avrebbe inseguita e finalmente vinta dieci anni dopo assieme ad altri due sopravvissuti, Bill Foulkes e Bobby Charlton: il Manchester United fu la prima squadra inglese campione d’Europa, liberatasi dall’ossessione di quel traguardo e di quello schianto grazie al gol di un fenomeno con la maglia numero 7 che era stata di Johnny Berry.

Best in Europe

George Best era fedele a ben poche cose, e in realtà il suo rapporto con la 7 dello United è stato meno intenso di quanto ci piaccia ricordare. A Manchester Best ha giocato su tutto il fronte offensivo, “scorrazzavo per il campo, una sensazione fantastica”, indossando principalmente la 11 e molto spesso anche la 8 e la 10 (la 9 no, era di Charlton). Se la storia gli ha poi lasciato la 7, in parte si tratta di un’assegnazione retroattiva, considerato chi l’ha indossata dopo, ma in gran parte c’è che la 7 è la maglia con cui Best ha avuto i suoi momenti di grazia europea, una trance agonistica notturna e luminosa che coincide quasi completamente con le prime prepotenze e le prime vittorie del calcio inglese nella snobbata e temuta Europa.

Best amava la notte, i riflettori, gli avversari stranieri e gli stadi enormi e ostili. Nel ’66, dentro al da Luz del Benfica di Eusebio, è improbabile che i Red Devils riescano anche solo a pareggiare, dice il pronostico; il tabellone finale invece segna 1–5, con Best che fa il primo di testa e il secondo trivellando la difesa portoghese: “Come se stessi guardando l’azione alla moviola e ne conoscessi già l’esito finale”. Il Benfica invece vede un uomo in accelerazione così tremenda da sbagliare la scelta di tempo in tre interventi consecutivi. Best piomba su una seconda palla a centrocampo, che un mediano vorrebbe e dovrebbe contendere senza andarci nemmeno vicino, e poi con altri due tocchi brucia sia l’uscita del centrale difensivo che quella, incompiuta, del portiere, sorpreso a metà strada da un destro incrociato. C’era pure un quarto personaggio nel quadro, il terzino sinistro, che è in vantaggio ma non capisce cosa stia arrivando, si fa trovare fermo sulle gambe, insegue e si prende da Best 5 metri su 20 di corsa. È più di un secondo gol, è un’attestazione di superiorità. Best è passato attraverso due linee schierate del Benfica e non solo nessuno è riuscito a toccargli la palla: nessuno è riuscito a toccare neanche lui.

“What a player this boy is!”

La stampa portoghese gli studia le basette, probabilmente al replay, e lo chiama il Quinto Beatle; lui all’aeroporto si compra un sombrero enorme col quale atterra in Inghilterra, dove gli fanno una foto che fa il giro del continente. George Best è il primo calciatore a diventare una star, a fare pubblicità, a familiarizzare con il mondo dello spettacolo, a trovare una simbiosi con la nascente cultura pop e i suoi costumi allentati.

E l’anno giusto, ovviamente, è il '68. Semifinale, doppio confronto col Real Madrid: all’Old Trafford Best tira di sinistro un rigore in movimento sotto l’incrocio, ed è 1–0.

“Our Georgie Best doesn’t miss chances like that”

Al Bernabeu fa due assist nel secondo tempo e lo United rimonta da 3–1 a 3–3. La finale è di nuovo contro il Benfica che ha appena maltrattato la Juventus a Lisbona e a Torino. Si gioca a Wembley, Bobby Charlton segna di testa all’inizio del secondo tempo e i cuori cominciano a fermarsi, a tornare indietro di dieci anni: proprio Bobby, il più giovane sopravvissuto allo schianto. Ma il Benfica la riprende a 10 minuti dalla fine e poco dopo quasi la vince con Eusebio. Nel supplementare Best va, ancora una volta, su una seconda palla contesagli dall’ultimo uomo della difesa portoghese; è in anticipo, in ritardo, non si capisce, il difensore fa per spazzare di controbalzo, quel pallone non balzerà mai, con una puntatina in controtempo Best lo spinge sotto la gamba che stava per colpirlo e invece taglierà l’aria, come se si fosse finto in ritardo. I dribbling migliori sono quelli che ingannano l’avversario al punto da farlo sparire. Lì Best ha l’occasione per un gol incancellabile. Il gol a porta vuota nel linguaggio del calcio significa controllo e dominio. In un altro momento magari l’avrebbe forse fatto più dolce, invece è un dribbling secco e defilato, con un angolo stretto simile a quello disegnato dal numero sulla maglia. L’appoggio in rete un po’ sporco, ma ormai è un dettaglio.

Lo United era in maglia blu, se la volete immaginare a colori

Il Benfica non ne ha più, lo United ne fa altri due e il calcio inglese è campione d’Europa per la prima volta.

La superiorità estetica e tecnica di quell’uomo con la 7 resta la copertina di tutte le emozioni che il Manchester United vive nella sua lotta europea per dare un senso alla morte dei Busby Babes (Matt Busby stesso aveva sempre insistito sull’importanza di giocare in Europa e perciò si sentiva particolarmente in colpa).

Best e Busby campioni d’Europa da qualche secondo.

Sono momenti così luminosi che finiscono per inghiottire nella loro luce anche i molti altri dello stesso Best con numeri diversi dal 7. Così come quasi non resta traccia di più o meno tutta l’esistenza calcistica di Willy Morgan, un’aletta briosa che arriva a Manchester l’anno dopo e si mette sulla destra a macinare. Gioca insieme a Best, ma ovviamente peggio di Best. È pettinato come Best, ma quello è appunto il look di Best, o al limite di John Lennon. Porta il numero 7, che è incredibilmente il numero di Best, nonostante Best porti tutti gli altri. Morgan giocherà 226 partite nello United, avanti e indietro sulla fascia in periodi anche abbastanza anonimi per la squadra. Finirà poi negli Stati Uniti (come Best), ma a quel punto la maglia numero 7 è già sulla schiena di un altro staffettista che corre, corre, corre per portarla chissà a chi: si chiama Steve Coppell. E in questo contesto è Coppell il giocatore eccezionale, tanto è canonico. Esterno destro ordinario di un 4–4–2 ordinario giocato da una squadra inglese ordinaria, il Manchester United dei ‘70. Forte, veloce, tosto e decisamente poco interessante.

Capitano di un traghetto

Fin qui, dunque, il 7 del Manchester United è una maglia il cui misticismo è legato ai lampi di Best, che non è mai diventato il calciatore che avrebbe potuto e se n’è andato dall’Old Trafford a neppure 28 anni, sempre più appannato, dopo fughe, sospensioni e crisi che appartengono a un’altra storia. Bryan Robson, arrivato a Manchester nel 1981 per un sacco di soldi, riesce a raccogliere l’eredità di Best pur essendone l’antitesi. Così la numero 7 assume un’identità totalmente diversa da quella precedente ed è come se ritrovasse un equilibrio.

Robson è uno dei personaggi col più ampio scarto tra il posto che occupa nella storia di un grande club e quello nella storia del gioco. Primissima fila nel Manchester United, parecchio più in fondo se parliamo di calcio nel suo complesso, o anche solo di fama e riconoscibilità internazionale. D’altronde, se hai fatto 90 presenze con l’Inghilterra e 9 stagioni da capitano dei Red Devils, ma sei comunque il secondo ‘B. Robson’ della storia del football inglese dietro Sir Bobby , la prima cosa con cui prendertela probabilmente è il tuo nome. La seconda è invece il Liverpool che, durante la carriera di Robbo (il suo primo soprannome), imperversava sul calcio inglese (dieci campionati dal '75–76 all'89–90: da allora, più niente). E la terza è proprio il calcio inglese, che ha certamente avuto periodi più affascinanti degli anni Ottanta.

Al netto di tutto questo, Bryan Robson è stato un mancino box-to-box strepitoso. Intelligente, dinamico, influente in ogni zona del campo, uomo squadra e spesso anche risolutore, grazie a istinto, tempi d’inserimento e alla capacità di elevare il proprio livello nelle partite importanti. Eccezionale in FA Cup: gol in semifinale e doppietta in finale nel 1983, percussione e sinistro in corsa contro il Liverpool nella semifinale del 1985, capocciata in finale nel 1990. Se ve lo state chiedendo, quelle coppe le ha alzate lui tutte e tre.

Sei tocchi di sinistro

Ma Captain Marvel (il suo secondo soprannome) si è preso definitivamente l’Old Trafford una sera di Coppa delle Coppe dell’84 in cui c’era da rimediare un 2–0 in semifinale inflitto al Camp Nou dal Barça di Maradona. Robson buttò dentro due palle vaganti per tutti tranne lui, poi avviò l’azione del terzo, due minuti dopo aver fatto il secondo, con un’apertura mancina sulla sinistra, mentre la difesa catalana saliva rapida come un esercito. Il Manchester United era tornato in Europa.

Calcio piazzato, errore in palleggio, fuorigioco sbagliato: il Barça prende tre gol veramente da Barça

Nessuno è stato capitano dei Red Devils più a lungo di lui. Mollò solo dopo aver vinto, finalmente, il campionato e scrollato via il peso (“An albatross around our neck”, lo ha poi definito) di 36 anni in cui la squadra era arrivata al massimo seconda, e neanche troppo spesso. Bryan Robson ha preso e traghettato il Manchester United dagli anni bui fino alla sua seducente modernità, fino ad Alex Ferguson (e fino al prossimo protagonista). “Non erano i soldi la ragione principale. Semplicemente volevo vincere”, disse di quando aveva scelto Manchester. Tre FA Cup, due Premier League, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea: tutto considerato, gli poteva andare molto peggio.

Il colletto

Stagione 1993–94: cambia il calcio e neanche ce ne accorgiamo. Da lì in avanti le maglie verranno assegnate ai giocatori non di partita in partita, ma di stagione in stagione; i loro nomi scritti in stampatello sopra i numeri, quasi ne fossero i proprietari. E come ogni altra maglia d’Europa, anche la 7 del Manchester United non è più di chi se la merita in settimana. Il numero si assegna tramite altre logiche e filosofie, e ai 36 anni e mezzo di Bryan Robson si appiccica sulla schiena il 12.

Che classificare e comparare i calciatori sia inutile , anche se molto divertente , diventa evidente pensando a Eric Cantona. Perché sebbene sia chiaro che sono molti, nella storia, a essere in astratto migliori di lui su di un campo da calcio, è altrettanto evidente che nessuno, da nessun luogo o epoca, avrebbe potuto essere quel che è stato lui per il Manchester United degli anni ’90: “Il giocatore giusto, nella squadra giusta, al momento giusto”, secondo Sir Alex. Eric vince ogni campionato che gioca tranne uno, quello della squalifica per il calcio volante.

L’impatto culturale di Cantona, favorito anche dall’imperioso marketing che gli costruiscono attorno, potrebbe spingerci ad accostarlo a George Best. Ma Best era in qualche modo imitabile, e imitatore lui stesso, figlio di una rivoluzione. Mentre Cantona non ha padri, appartenenze, emuli, solo sudditi e seguaci. Non è la massima espressione di niente, è un’eccezione. Ed è una figura regale: la stazza, la grazia, il suo petto gonfio e proteso che sembra stia sempre sfidando qualcosa. Se sopra al suo numero ci deve essere il suo nome, sopra il suo nome lui ha aggiunto un altro tocco iconico: colletto alzato, CANTONA, 7.

Se ci aggiungete questa pioggia, avete il logo della Premier League anni ‘90

Le immagini della Premier League che cominciano in quegli anni a filtrare nelle trasmissioni italiane pare raccontino un dio, un superuomo. Se e come davvero giochi a calcio è una domanda che non ha poi tutta questa importanza, di fronte a quell’immaginario. Si sa che vince, segna, controlla i campionati. Da qualche partita sparisce pure, a tratti, ma poi riappare e decide, governa. E fa tutto questo senza esaurirsi lì, esattamente come Best. È chiarissimo che in lui c’è spazio per altro e che essere all’apice in quel gioco, in quella professione, non gli richiede tutto se stesso, e neppure gli basta.

Si ritira a 31 anni da campione d’Inghilterra, l’unico luogo che, un po’ come successo a Bryan Robson, è stato davvero suo testimone. Il resto del mondo ne ha imparato l’immagine, ancora oggi potentissima, ma lo ha capito solo dopo, e ancora poco. Questo perché Cantona non è pienamente comprensibile a chi lo abbia visto solo sul campo da gioco. A un certo punto di Open, un amico del protagonista Andrè Agassi usa una bella metafora e dice ad Andrè: “Certe persone sono termometri, altre termostati. Tu sei un termostato. Non registri la temperatura in una stanza, la cambi”. Anche per Cantona è più o meno così, ma Eric oltre alla temperatura delle stanze cambiava anche quella degli stadi. Da quando è arrivato all’Old Trafford, la storia della squadra è svoltata così radicalmente che per descriverlo si è parlato spesso di “talismano”. C’è qualcosa di religioso nel rapporto tra Manchester e quest’impettito uomo francese. Looking for Eric è un film di Ken Loach in cui Cantona appare sotto forma di allucinazione mistica a un tifoso dello United in crisi esistenziale e volendo si può dire che: “in Italia vediamo la Madonna, a Manchester Eric Cantona”. Grazie alla sua visione, il protagonista ritrova la strada ed esce dai guai.

Nei titoli di coda si legge che Eric Cantona è apparso nel ruolo di se stesso (scritto lui-même, ironicamente in francese), ma il personaggio che ha davvero interpretato è l’idealizzazione che i tifosi del Manchester hanno di Eric Cantona: una guida, un guru, una figura spirituale che un giorno è arrivata e ha condotto tutti quanti a vincere il campionato per la prima volta in ventisei anni. E poi ancora, e ancora, fino all’addio.

Anche se non c’è stato un vero e proprio addio, sono solo cambiate le cose. Cantona è ancora nel Manchester United. Non scende più in campo, né ha un ruolo nel club, ma il rapporto tra lui e i tifosi è sempre vivo e intenso. Looking for Eric è uscito nel 2009, a più di dieci anni dal suo ritiro. Nel 2012, quando il Manchester City ha vinto il campionato all’ultimo secondo, Cantona ha spaccato un tavolino dalla rabbia. Non segue più molto il calcio, dice, ma la sua squadra sì. E i tifosi allo stadio cantano ancora il suo nome. Tre di questi sono andati a trovarlo a Parigi per farci due chiacchiere, a 20 anni dal suo esordio coi Red Devils. Lui li accoglie, risponde alle loro domande. Su a Manchester cantiamo ancora per te, Eric. Hai qualcosa da dire ai tuoi tifosi?

E lui, scherzando ma non troppo: “Continuate a cantare. Non rendetemi triste, ne sono così orgoglioso. È meraviglioso.”

Cantona è andato oltre il rettangolo verde, oltre la sua carriera calcistica: sulla sua schiena, la 7 del Manchester United trova un’altra dimensione.

Spice boy

La seconda svolta pop di questa storia si manifesta in un soleggiato pomeriggio londinese dell’agosto ‘96. Da qualche settimana, in cima alla UK Singles Chart c’è Wannabe, il singolo d’esordio delle Spice Girls. Delle cinque ragazze, solo una non ha una parte da solista nel pezzo: Victoria. Lo United sta vincendo 2–0 a Wimbledon nella partita inaugurale dell’ultima stagione di Cantona, autore del primo gol. David Beckham ha 21 anni, la maglia numero 10 e un pallone che gli sta arrivando lentamente dalla sua difesa, poco prima di metà campo. Ha anche un po’ di tempo e tre soluzioni: avanzare palla al piede; cambiare gioco sulla sinistra; verticalizzare per il centravanti, il quale si è staccato e gli sta chiamando il passaggio. Beckham però non è un giocatore normale e può disporre di una quarta soluzione. Due secondi e mezzo dopo, la palla è nella porta del Wimbledon. Beckham alza le braccia a palmi aperti e tutto di lui sta dicendo: beh, eccomi qui. Il telecronista, in diretta, ammette che “Questo avremmo potuto aspettarcelo da Eric Cantona”.

Quello che è successo è che Beckham ha segnato da oltre metà campo con un pallonetto teso finito sotto la traversa.

“Surely an England player of the future”

Quello che si è percepito, che poi è la ragione dell’enorme stupore, è che non c’è niente di fortunoso o casuale. In quel gol c’è la sua capacità unica di calciare con il destro: Beckham ha tirato praticamente senza rincorsa; il piede è insolitamente aperto, la gamba così rapida e sicura da far pensare a un qualche tipo di strumento, forse una mazza da golf. Da quest’arma straordinaria conseguono, anche grazie a una spiccata tendenza ad alzare la testa, il controllo e la disponibilità di qualunque zona del prato.

È come se Beckham giocasse su un campo più piccolo: può servire chiunque, premiare qualunque movimento, anche da fermo, e con palloni di precisione quasi servile. Raramente i destinatari devono cambiare il passo o la direzione della corsa, indietreggiare o sbilanciarsi per un colpo di testa. L’eccezionale quantità di effetto che la mazza da golf di Beckham riesce a imprimere alla palla fa sì che questa rallenti in prossimità di chi la riceve, non scappi via dopo il primo rimbalzo, talvolta si stoppi da sola. E i cross, gli innumerevoli, succosissimi cross dalla destra, compiono un arco così accentuato da arrivare incontro all’attaccante anche quando partono dalla trequarti. Beckham è stato l’unico a saper crossare dal fondo anche se non era sul fondo (e anche l’unico a calciare punizioni su azione: gran parte dei suoi tiri dalla distanza avevano traiettorie indistinguibili da quelle dei suoi calci piazzati).

Dopo quella stagione, ritiratosi Cantona, Beckham lascia la 10 (a Sheringham) e prende la 7 del suo idolo: Bryan Robson. In un’altra cultura calcistica sarebbe un downgrade, ma in Inghilterra non c’è il culto del 10, mentre a Manchester è ormai piuttosto chiaro che la maglia speciale è quella con sopra il numero delle meraviglie, il numero dei peccati e delle virtù, dei colori dell’arcobaleno. Una maglia che presuppone anche la fatica, la corsa continua sulla fascia destra. Johnny Berry, Willy Morgan, Steve Coppell, ovvero i suoi interpreti minori, l’hanno portata così, avanti e indietro sulla striscia laterale. Robbo l’ha indossata a tutto campo, decorandola stabilmente con la fascia di capitano. Quanto a Best e Cantona, è stata la maglia a decorare loro, a calzare attorno a quel talento in modo prima credibile e molto presto indissolubile.

Ma Beckham non si sa cosa sia, né cosa sarebbe senza quel viso hollywoodiano. Davvero quella faccia deve correre? Conosce Victoria nel 1997, la sposa nel ‘99: dopo il Quinto Beatle, lo Spice Boy. L’opinione di Sir Alex è che David: “Non ha mai dato nessun problema, finché non si è sposato”: tradotto significa che di problemi ne ha dati eccome, anche se nel frattempo ha battuto i due angoli della pazzesca rimonta in tre minuti che ha riportato a Manchester la Coppa dei Campioni, a più di trent’anni da quella di Best, Busby e Charlton. In quella serata, in quella partita, più grande di Beckham e di chiunque altro in campo, più grande di United e Bayern e del Camp Nou che le ospitava, c’è il calcio nel suo vestito più sconvolgente. I tedeschi segnano dopo 5 minuti e restano in vantaggio per 86, colpendo anche due legni. Ma nel primo di tre soli minuti di recupero c’è un corner da sinistra per lo United: Beckham lo batte verso Schmeichel, salito anche lui per gli ultimi assalti. La palla esce dall’area e ci rientra senza che nessuno riesca mai a colpirla bene, finché non si incontra a tre metri dalla porta con il piede di Sheringham e finisce in rete. E nel terzo di tre soli minuti di recupero c’è un altro corner da sinistra per lo United: Beckham lo batte verso Sheringham, il quale la spizza sul secondo palo e trova Solskjær, “the Baby-faced Assassin”, che uccide avversario e match.

Difficile sapere quanto tempo serva per passare dalla sensazione di aver quasi vinto la Champions League alla consapevolezza di averla persa irrimediabilmente, ma tre minuti sono certamente insufficienti. Hanno pareggiato, anzi no sono avanti loro, non ditemi che è finita la partita. I tedeschi restano a terra come se gli avessero sfilato da sotto i piedi un tappeto. I Red Devils neanche devono chiedersi come sia possibile non fare un gol in 90 minuti e poi segnarne due in 3, perché le vittorie cancellano le domande e loro sono campioni d’Europa. Ma una risposta arriva comunque, ce l’ha Alex Ferguson: “Football, bloody hell”.

Davvero sto rilasciando quest’intervista da vincitore?

Fino al 2002/03, Beckham resta il volto di uno United attraente, vincente, divertente e ormai completamente internazionale. Ma Beckham è anche il volto di un brand globale, una celebrità che è diventata una sorta di secondo lavoro (e che sarà il primo non appena le sue scarpe saranno al chiodo). E poi perché deve arrivare fin sul fondo, con questo destro ineguagliabile? Così, invece di andare sul fondo, Beckham va a Madrid. Strada più lunga, ma anche meno faticosa. Giocherà più interno, lancerà di più, correrà di meno.

Non guarderà partite dei Red Devils per due anni. Lasciare il Manchester United, la squadra che aveva iniziato ad amare da bambino quando il padre lo portava all’Old Trafford, è difficile. Segna su punizione nel suo ultimo match, fuori casa contro l’Everton. In barriera c’è Wayne Rooney.

Barriera di 3 uomini più 1, un po’ più indietro, a coprire ulteriormente il primo palo. E invece.

CR28

“Tu che maglia vuoi?”, gli chiede Ferguson.

“Io? La 28, grazie”, risponde il diciottenne portoghese.

“Invece no, tu prendi la 7.”

Nato in mezzo all’oceano Atlantico e battezzato dai genitori col nome dei propri modelli, Cristo e Ronald Reagan, lui vorrebbe solo sottrarsi alla pressione. Chiede la 28, che era la sua l’anno prima allo Sporting, ma riceve l’altra, inevitabilmente. Ferguson ha già capito che quello lì non si può nascondere né tutelare. È troppo forte. Tanto vale responsabilizzarlo, sovreccitarlo, e dire al mondo, e ai tifosi in particolare, che è bene mettersi parecchio comodi, perché il prossimo capitolo della storia è già cominciato.

Cristiano Ronaldo riparte da dove Beckham aveva lasciato, segnando il suo primo gol con un calcio di punizione. Gioca a destra o a sinistra, e taglia in mezzo col tacco ogni volta che gli va, o magari sterza di nuovo e torna in fascia, fa tre o quattro doppi passi, gioca con la suola, con l’esterno, ancora col tacco, scatta, crossa, anzi inchioda, il difensore si schianta sui cartelloni pubblicitari mentre lui la mette in mezzo. Di rabona.

Molti impallinati di PES/Fifa si tolgono annualmente lo sfizio di creare il giocatore con abilità 99 in tutto. Poi lo mettono in campo tra altri 21 esclusivamente per vedere com’è, esplorandone capacità ed eventuali, imprecisati limiti. Ecco: in molti momenti della sua prima stagione allo United, Cristiano Ronaldo ha fatto la stessa cosa con se stesso. Come se si stesse testando, cercando di capire come usarsi e fin dove spingersi, galvanizzato dal suo stesso traboccante talento. Un talento che negli anni successivi massimizza con determinazione maniacale, costruendosi un fisico perfetto e un’estetica precisa. Ogni sua singola giocata è una dichiarazione identitaria. In ogni momento Cristiano vuole dirci che è il supercalciatore che ha deciso di essere; e dunque, in un certo senso, Cristiano Ronaldo è un’interpretazione. A renderlo poco simpatico, più dell’arroganza o dell’ostentazione tecnica, è la pressoché totale assenza di spontaneità, che non affiora neppure nelle esultanze. La cosa più eccezionale di Cristiano è infatti la sua testa, che lui non perde praticamente mai.

Solo una volta gli ha ceduto in maniera spettacolare, andando in panne sul dischetto della finale di Champions League 2007/08. Quando il Manchester United la vince lo stesso, Cristiano finalmente si concede una pausa, come fosse la fine del primo atto, e si lascia andare. Al raggiungimento dell’apice, mentre i suoi compagni corrono, si cercano, si abbracciano, lui si isola, si butta sull’erba a faccia in giù senza vedere più niente e piange di gioia e sollievo per quell’urgenza di essere Cristiano Ronaldo finalmente acquietata. Nella sua battaglia, dà l’idea di essere completamente solo. Resterà in Inghilterra giusto un’altra stagione.

In cerca d'autore

Dopo di lui, o forse è meglio dire dopo i 28 anni filati di Robson-Cantona-Beckham-Ronaldo, la maglia numero 7 inizia a girare a vuoto, incapace di ricollocarsi. Si accontenta per tre stagioni della schiena a fine carriera di Michael Owen, e si fa tanta panchina. C’è tutta una serie di calciatori che sono passati in un club e hanno lasciato un solo ricordo: nella storia del Manchester United, Owen è il settimo gol di un derby, quello decisivo, al minuto 95.27.

https://www.dailymotion.com/video/xnfopu_michael-owen-late-winner-against-manchester-city_sport

La calma di Giggs, parliamone.

Ma è l’unico bagliore, in realtà la 7 non è in scena e ogni anno diventa più pesante. Nel 2012/13 Owen se ne va e allora si fa avanti l’ecuadoregno Antonio Valencia, dopo un bel respiro. Ha 27 anni, è allo United già dalla stagione del dopo-Cristiano e sta facendo ottime cose con il 25. I media inglesi celebrano l’evento, l’eredità raccolta, la storia che continua. Per Valencia è una sorta di nuovo esordio. Gioca così male che a fine anno molla la 7 e torna al 25. Non si è ancora pienamente ripreso.

La stagione scorsa è stata invece un nuovo esordio per tutto il Manchester United. E la prima volta dopo Alex Ferguson è stata anche la prima volta in cui la 7 non è stata assegnata, ma lasciata da parte in attesa del prossimo interprete credibile, che si fa attendere ormai dal 2009.

Oggi questa impressionante successione di stelle con la 7 è giunta ad avere un peso considerevole, ma è un fenomeno che è destinato, in qualche modo, ad autoalimentarsi, anche al prezzo di fatica e fallimenti. L’ipotesi che un giocatore normale possa indossarla stabilmente non esiste più: chi ce l’ha e non ne resta schiacciato sa di dover essere all’altezza di gesta e vittorie straordinarie.

La carriera di Ángel Di María è già piena di entrambe. Manchester però gli chiede di cambiare ruolo, e non sulla lavagna tattica, ma sul copione. Ángel all’Old Trafford deve fare il protagonista, come richiesto dal numero che, visto lì, sotto le sue spalle strette, sembra quello immaginato da Francesco De Gregori.

Nessuno può avere dubbi tecnici su Di María, ma fino a questo punto della carriera (le sue squadre precedenti sono state Benfica e Real Madrid, due nomi ricorrenti e familiari in questa storia ) si è potuto nascondere nell’ombra dei suoi compagni più ingombranti, all’occorrenza, senza dover brillare ogni volta, anzi a tratti con l’esigenza di non brillare troppo. Fino all’ultima finale di Champions League, della quale è stato lo straordinario uomo partita, quello che ha preso in mano la fase offensiva del Real di Cristiano e Gareth Bale dimostrando quanto grande e inequivocabile fosse la sua bravura.

Non si torna indietro da serate così.

Indossando la numero 7, Di María è entrato in questa che è una narrazione ulteriore, più grande di quella di un singolo, ma che comunque non è di squadra. Una narrazione che gli dà la libertà di interpretarsi come vuole e anche quella, se capita, di esagerare. Ha un unico obbligo, quello di non poter mai più stare in disparte: comunque vada, dovrà esserci. A 26 anni, da campione d’Europa e vicecampione del Mondo, probabilmente è pronto. In ogni caso, sarà bello scoprirlo.

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