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Foto di Luis Acosta / Getty Images
Mondiale 2018 Arnaldo Greco 15 luglio 2018 4'

Il nazionalismo dei Mondiali è anacronistico?

Il concetto di identità nazionale espresso dai Mondiali sembra essere superato dalla storia.

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Questa riflessione di Arnaldo Greco è uscita originariamente su Stili di Gioco, la newsletter de l’Ultimo Uomo. Per iscriverci cliccate qui.

 

È quantomeno curioso che mentre l’Europa pare dirigersi verso un ritorno del “sovranismo”, i Mondiali di calcio ci dimostrino quanto un certo nazionalismo sia talmente sorpassato dai fatti, che piuttosto dovremmo chiederci che tipo di rappresentazione ci offrano i Mondiali di calcio. Insomma, che senso ha dividersi per nazioni quando le identità diventano sempre più sfumate? Della fine del concetto di “nazione”, ad esempio, si è ragionato in quest’articolo del New Scientist, in cui si prova a relativizzare l’idea che gli stati nazionali siano il modo migliore per governare il pianeta terra.

 

Eppure la direzione indicata dal New Scientist potrebbe non essere qualcosa verso cui tendiamo ma da cui fuggiamo. Se il sovranismo riuscisse a invertire qualcosa che ci appare adesso scontato, e già dai prossimi mondiali, cominciassimo a vedere il ritorno di quello che vuole ogni anziano rozzo d’Italia quando dice: “preferivo la Germania quando erano tutti alti e biondi” e tocca non rispondergli perché cosa vuoi che ne capisca? Già quando siamo stati eliminati dai mondiali, in Italia, abbiamo dato la colpa ai troppi stranieri nel campionato e nelle giovanili perché ci sembrava la risposta più semplice e immediata. Lo ripetiamo spesso: è un’epoca che rifiuta la complessità, e se stessimo vivendo già adesso la massima espansione dell’idea di mondo aperto e ci stessimo preparando a tornare indietro?

 

Nel frattempo ha scritto bene, qui su l’Ultimo Uomo, Dario Saltari, gli stessi regolamenti della Fifa non possono che essere molto contraddittori sul punto per tenere assieme cose che hanno un punto di equilibrio complicato: «I divieti della FIFA si basano sul vago assunto che calcio e politica non debbano mischiarsi. Una contraddizione tanto ironica quanto palese quando calata nel contesto di una competizione in cui si fronteggiano Nazionali che rappresentano Paesi diversi, in quella che è di fatto una rievocazione pacifica delle vere guerre. Ai Mondiali tutto è fatto per rinsaldare il concetto d’identità Nazionale: dalla mano sul cuore durante gli inni alle magliette con i colori delle bandiere, fino ad arrivare ai tifosi con gli abiti tradizionali sugli spalti. Ai giocatori, in questa gigantesca rappresentazione del nazionalismo, viene chiesto di essere semplici figuranti, di recitare la propria parte senza uscire dal copione».

 

Io ho contato già quattro episodi, in questi soli mondiali, che mostrano quanto questa impostazione scricchioli:

 

1. I giocatori della Svizzera che festeggiano gol e vittoria contro la Serbia mimando con le mani l’aquila della bandiera albanese. Gesto fatto non solo dai calciatori di origine kosovara come Xhaka e Shaqiri, ma anche dal capitano Lichsteiner. La Fifa ha multato i tre calciatori (ai due di origine kosovara, però, una sanzione più alta), ma la loro esultanza ha infastidito anche qualche svizzero per cui la partita non doveva essere inquinata dal nazionalismo di altri.

 

2. Le accuse a due dei migliori calciatori della nazionale tedesca, Ilkay Gündogan e Mesut Özil, entrambi di origine turca, per aver fatto una foto con il Presidente Erdogan per la sua campagna elettorale. I due sono stati ampiamente fischiati nelle amichevoli prima dei mondiali tanto che, senza scusarsi per la foto, Gündogan ha detto: ” Sono preparato a tutto, possono fare quello che vogliono, mi possono fischiare e insultare. Sono certo, però, che così non è facile concentrarsi al 100% sul calcio”. Per far intendere ai tifosi, insomma, che chi rischia davvero è la squadra per cui tifano, non loro.

 

3. 17 calciatori su 23 del Marocco non sono nati in Marocco ma tra Belgio, Francia, Spagna, Canada, Olanda. Personalmente a me farebbe piacere che chi è nato in un paese si sentisse così a suo agio in quel paese da desiderare rappresentarlo, ma qui entrano in ballo mille altri aspetti che coinvolgono ogni nazionale, non solo quella marocchina: da quello politico (alcuni paesi sono poco accoglienti), a quello identitario (ci si può legittimamente sentire appartenenti a più nazionalità), a uno anche personale (se non ti considerano abbastanza bravo per una nazionale e puoi permetterti di cercartene un’altra, perché non dovresti farlo?). Vale da entrambi i lati in cui lo si voglia guardare, che siano Camoranesi, i fratelli Boateng o Fellaini.

 

3bis. Nove “stranieri” anche per Senegal e Tunisia. 8 la Svizzera, 7 il Portogallo. E anche chi ha solo calciatori nati all’interno del proprio territorio, per esempio la Germania, come abbiamo visto, non risolve comunque semplicemente la questione dell’identità.

 

4. Jimmy Durmaz, il giocatore della Svezia di origine siriano-ortodossa, è stato al centro di un pestaggio mediatico dopo che, dal fallo da lui commesso nella partita contro la Germania, è venuta fuori la punizione che ha condannato la Svezia alla sconfitta. Come ha spiegato perfettamente lui in un messaggio registrato mentre il resto della squadra svedese era schierato alle sue spalle per dimostrargli affetto e vicinanza, i calciatori sono ormai abituati alle critiche, ma nel suo caso sono “inaccettabili” le critiche razziste, le accuse di non essere un vero svedese, “dannato straniero”, le allusioni al fatto che sia siriano, “attentatore suicida”. Tanto che il messaggio si conclude con la squadra che urla vaffanculo al razzismo e lui che ripete di sentirsi un vero “svedese”.

 

4bis. Immaginate cosa sarebbe accaduto se Balotelli avesse sbagliato un rigore decisivo. O se, addirittura, l’avesse sbagliato con una smargiassata tipo quella di Zaza e Pellè…

 

La vittoria della Francia (i black-blanc-beur) nel 1998 e, ancora di più quella della Germania del 2014 ci hanno dato l’idea che questo processo sia inarrestabile, che il nazionalismo rimarrà sempre più confinato all’abitudine, al colore della maglietta e all’inno a inizio partita. Che una vittoria di Zidane possa essere festeggiata anche dagli algerini e quella di Özil dai turchi. E che i mondiali sarebbero diventati più simili alle Olimpiadi che (pur tra mille variabili e polemiche), senza rinunciare ai colori nazionali, sicuramente privilegiano lo spettacolo al tifo. Una competizione tra le migliori Federazioni, tra i migliori tecnici, le migliori scuole, con tutti i migliori calciatori del mondo contemporaneamente, in un solo mese. Non per le etnie.

 

Oppure se avesse vinto l’Inghilterra magari sarebbe stata letta come una vittoria della Brexit proprio come i brexiters più audaci sperano, e allora tutti penseranno che la strada giusta sia quella? Chissà. La speranza è che il nazionalismo rimanga una scusa per dare un po’ di colore a qualche sfida, e i Mondiali diventino sempre di più una grande occasione per mischiare un po’ le squadre, una volta ogni quattro anni, e vedere adesso, chi vince.

 

Tags : mondiali 2018

Arnaldo Greco (1979) ha pubblicato un paio di libri per Fandango. Ogni tanto scrive per qualche rivista, ma vive e ha due bambini grazie al fatto che il suo nome scorre nei titoli di coda di “Che tempo che fa”.

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