Pubblichiamo un estratto di "Un lavoro da mediano. Ansia, sudore e Serie A", uscito per 66th and 2nd.
Lo sentivo nei respiri inquieti e nei pensieri incerti, nei tempi morti degli ultimi giorni di primavera. Sapevo che presto il momento della scelta sarebbe arrivato, inesorabile, ma adesso non sono pronto per prendere una decisione. Questa decisione. Anzi, più ci penso e più questo sentirmi sospeso mi rende ancora più insicuro, più solo, oppresso da un’incertezza che si è presa tutto il mio animo. Ho detto a mio padre che sarei salito in camera e nel giro di mezz’ora avrei deciso. Mezz’ora. Come se bastasse mezzo giro di orologio per avere le idee chiare su tutta la tua vita, i tuoi desideri, le tue ambizioni e i tuoi sogni. Come se bastasse mezz’ora per essere sicuro fino in fondo che la decisione che prenderò è quella corretta. Mezz’ora. Ma se guardo ancora più a fondo, se guardo oltre l’incertezza che mi assale, una decisione, questa decisione, l’ho già presa. E questi minuti che mi sono riservato per stare un po’ solo con me stesso, nel silenzio della mia camera da letto, non sono altro che la presa di coscienza finale del salto che dovrò fare. Pronto o non pronto, è giunto il momento di lasciarsi andare. È il futuro più logico, è un’occasione unica che tutti i ragazzi della mia età vorrebbero avere. Ma per quanto coerente e razionale possa apparire la decisione che ancora non ho annunciato ai miei genitori, non sarà per nulla un passo facile. Nell’ultimo mese il mondo attorno a me è sembrato correre a velocità supersonica. Una scarica di eventi concentrati in trenta giorni, il tempo di un niente in confronto ai miei primi diciotto anni di vita, che sono trascorsi senza scosse. Se fino a poco tempo fa tutto stava in equilibrio, la scuola, il cazzeggio e il calcio si bilanciavano naturalmente, adesso quell’equilibrio è spezzato, dissolto.
Prima ero solo uno studentello di provincia impastato di musica, informatica e film, sempre in giro con walkman e zaino in spalla, prima combinavo sabati sera di derive alcoliche con domeniche a messa nella chiesa di Santa Giustina, ora la realtà dei fatti mi costringe a rivedere tutto. Dopo il debutto nel campionato italiano di calcio di Serie B, devo ribaltare il mio modo di vedere il mondo. Chissà se sarà la scelta giusta, ma rivedere le gerarchie è necessario, adesso che inizio a essere a tutti gli effetti un atleta professionista di diciotto anni, dal valore di mercato di due miliardi di lire, du-e mi-liar-di di li-re, nel 2001. Devo dunque decidere se accettare un’allettante proposta da parte di una grande squadra oppure rifiutare (e già ho deciso, perché così deve essere, non c’è altra possibilità). Ma tutto è stato veloce, troppo veloce, non ho assimilato davvero questo cambiamento, questa anomalia che mi ha travolto. L’anomalia è diventare un calciatore professionista. L’annata sportiva appena conclusa è stata la naturale progressione di un giocatore promettente che si affaccia per la prima volta in quello che potrebbe essere il suo ambiente professionale. Le convocazioni nelle Nazionali giovanili della scorsa stagione e le prime performance nel campionato Primavera mi hanno garantito visibilità coi talent scout di squadre di alto livello e soprattutto con coloro che, sempre un passo indietro, gestiscono i potenziali «campioni». Ho conosciuto almeno tre agenti sportivi, i cosiddetti procuratori, che hanno cercato di convincere mio padre ad accettare le loro proposte di consulenza, proposte che non saprei dire se fossero valide oppure no, e forse non lo sapeva neanche il mio vecchio. Ho fatto colloqui pomeridiani nei quali ho biascicato quattro parole in tutto, mi presentavo con fatica, ero intimorito dai loro discorsi di gente navigata e soprattutto non capivo di chi mi potessi fidare. Poi, un giorno di febbraio, Francesco Feltrin, il mio allenatore della Primavera del Treviso, ha parlato con papà, gli ha detto che conosceva un agente che seguiva Gianfranco Zola e che avrebbe sicuramente fatto al mio caso perché il suo nome era ben noto nei piani medio-alti del calcio. Così ho incontrato Fulvio Marrucco, napoletano dalla pelle olivastra e discreto fumatore che al contrario degli altri suoi colleghi aveva attirato la mia simpatia non solo per i modi composti, l’abbigliamento impeccabile e l’educazione, ma anche per un motivo più personale: era un fan sfegatato dei Beatles. E Strawberry Fields Forever era una delle canzoni più belle che avessi mai ascoltato. In una grigia mattinata di fine maggio mi sono ritrovato nella sede del Treviso Football Club a firmare, spaesato e insonnolito, il mio primo contratto da calciatore, accompagnato da papà, da Fulvio e dal direttore sportivo della società. Quest’ultimo mi ha fatto firmare dei fogli che neanche avevo letto ma Fulvio li aveva letti a fondo e il contenuto principale mi era ben chiaro: avrei percepito per tre anni uno stipendio sostanzioso. Decisamente sostanzioso, soprattutto per me che non ero certo abituato a ragionare su quelle cifre. Nel pomeriggio stesso mi sono allenato con la prima squadra del Treviso e nel giro di due settimane ho debuttato in Serie B assieme ad altri due miei coetanei. Eccolo, il salto. Gli allenamenti e il debutto nel campionato di calcio cadetto. Un sogno per migliaia di ragazzini, per me una faticosa sgambata dai risultati incerti. Non che non fossi contento, per l’amor di Dio, ma tutta quell’improvvisa frenesia mi spiazzava. Come la successiva chiamata di Fulvio all’indomani della fine del campionato e un’ultima convocazione per un’amichevole nell’Under 18. «Ale, hai attirato l’attenzione di diverse squadre, Milan, Inter, Bari, Piacenza. E la Lazio ha già formulato un’offerta per comprare la metà del tuo cartellino valutato due miliardi di lire. Ti farebbe un contratto di tre anni a queste cifre. E credo proprio che questa sia un’offerta irrinunciabile…». E da qui, dalla possibilità che ancora non si è concretizzata ma che potrebbe concretizzarsi, che deve concretizzarsi, il vuoto. Un senso di straniamento, un’euforia spezzata dai dubbi e dalle incognite. E poi troppe emozioni che non so ancora gestire. L’incertezza del futuro, il presente che devo abbandonare. Mi guardo indietro e da una parte vedo il percorso sportivo intrapreso molto presto, dall’altra il resto della mia vita. Quale sarà il mio domani dopo la decisione? A che cosa andrò incontro?
La Lazio. Stiamo parlando della grande Lazio di Sergio Cragnotti, quella dello scudetto e della Coppa delle Coppe, una squadra stratosferica: Peruzzi, Nesta, Favalli, Verón, Simeone, Crespo… Catturo con lo sguardo il poster di Zidane e la sua cornice verde, fisso il legno del letto a castello che papà ha costruito qualche anno fa: verde. Poi mi giro sul letto e guardo il comodino: verde. Tutti i mobili sono verdi in questa camera. Il colore mi rilassa, rallenta il flusso di pensieri e mi inchioda in una stasi dalla quale, fra una decina di minuti, uscirò. Papà aveva ragione: il verde scuro è perfetto per una camera da letto. Il verde scuro è un luogo sicuro. Una sequenza di emozioni e ricordi si affaccia davanti a me: i miei primi diciotto anni di vita. Papà e mamma, Rebecca e i miei nonni, i miei parenti, gli amici, Nazza il sagrestano, Kierkegaard, l’edicola del paese, le sbronze con gli amici, la birreria e le escursioni in montagna con mio zio, io che ascolto musica e giro in bicicletta, corro dietro a qualche ragazza. I tornei estivi di calcetto, la scuola e i miei compagni, i professori e l’autista del pullman, Nando e Aldo del bar Centrale e le partite ai videogiochi e poi l’odore dei boschi e il profumo dell’aria, la nebbia in certe giornate d’ottobre e la neve fitta che cade d’inverno, il gelo mattutino alla fermata del bus, le mani che congelano e Alessio che mi parla di Doom 2 e di Mortal Kombat, Matteo che pesta sul pc, l’heavy metal e i Korn ascoltati controvoglia, i Radiohead di Kid A mentre dormo appoggiato al finestrino dell’autobus, Marco, carta forbice e sasso, il panino alle nove del mattino sotto il banco della classe, la prof di inglese che stimavo perché la motosega nei compiti la utilizzava eccome… e i giorni trascorsi in solitudine e ancora… l’euforia di un diciottenne invasato di vita… e poi di nuovo… il vuoto. Per un attimo mi pongo una domanda che forse non mi dovrei neanche porre: perché proprio a me? Non poteva capitare a qualcun altro questa difficile decisione? Poi la razionalità prende di nuovo il sopravvento, quella domanda è dettata solo dalla mia natura timida e introversa, sempre pronta a vedere più ombre che luci. Questo sei tu. Questa è la tua vita.