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Il Mister
25 ago 2022
25 ago 2022
Il Mister si asciugò la bocca con il polsino della manica destra. Indossava una felpa grigia e sedeva ricurvo nella fioca luce del mattino.
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Illustrazione di Michele Cerone
(foto) Illustrazione di Michele Cerone
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Il Mister si asciugò la bocca con il polsino della manica destra. Indossava una felpa grigia e sedeva ricurvo nella fioca luce del mattino, il profilo sgranato come l’asfalto d’estate dalla bluastra colonna di fumo della sigaretta adagiata sul posacenere di metallo. Mangiava gallette di riso e marmellata d’arancia, soffiando di tanto in tanto sulla tazza che gli aveva regalato Herbert, mio fratello più grande, dove il caffè sapeva restare bollente per ore. Aveva da poco compiuto sessantacinque anni, il Mister. Era invecchiato. I suoi capelli erano diventati dello stesso colore della schiuma del mare, i suoi modi eleganti si stavano ingrigendo. Tutti, compresi me e Herbert, lo chiamavano Mister — mettendo enfasi sulla M in modo da renderla maiuscola. Per lui era normale: rientrava nella concezione naturale delle cose; così come molti altri ragazzi prima di noi lo avevano chiamato così, così facevamo noi. E il Mister ci considerava tutti figli suoi, un educatore che non sapeva dire di no. Il Mister sedeva sullo sgabello di cucina. Teneva il gomito sinistro appoggiato sul tavolo di marmo dell’isola centrale, i pantaloni scuri troppo lunghi, risvoltati appena sopra la caviglia sottile e piena di sottilissime vene viola, la pelle pallida che sembrava estendersi per tutta la geografia del suo corpo come uno schizzo di colore fuoriuscito dai suoi acquosi occhi color tè forte. Sgranocchiava le bucce dell’agrume di modo da sentire il contrasto amaro sul palato e mentre si gustava quel crepitio liquoroso osservava il nostro gatto. Faceva tamburellare l’indice della mano destra sull’orologio, la pelle chiazzata di arancione per via delle tante sigarette, sporca di marmellata, trasparente come un vetro, uno specchio dove il profilo Fiocco, il nostro gatto, si stagliava insieme alla sua breve e compatta ombra mattutina. Era stato il Mister a scegliere quel nome, omaggiando così quello che a suo modo di dire era stato il miglior giocatore della sua vita, un ragazzo con una gamba più sviluppata dell’altra divenuto famoso per saper battere un calcio d’angolo e segnare di testa nella stessa azione. Fiocco era compatto, un gatto buono di quelli che fanno le fusa a chiunque gli si avvicini. Il Mister lo aveva studiato da vicino e da lontano, ripetendo con lui quello che aveva fatto con tutte le creature della sua vita; lo aveva tenuto in prova, misurando la sua falcata; ogni volta che gli dava qualcosa da mangiare la sua faccia (quella del Mister) assumeva l’espressione tipica di chi sta prendendo appunti, da qualche parte nella sua testa. Voleva che fosse affidabile, tangibile, che fosse pronto a spingere quella maledetta sfera oltre la riga, se il destino gliel’avesse messa contro, un giorno, chissà poi perché… Dunque gli occhi di Fiocco erano fissi sul prato, quello che si vedeva davanti all’ingresso di casa nostra. Se ne stava seduto sulle zampe posteriori, leggero come una nuvola, a osservare qualcosa oltre i vetri laterali della porta; nei suoi occhi c’era il riflesso folgorante della luce del mattino. Il Mister lo stava osservando senza dire una parola. Il tempo era fermo. Milioni di bambini esibivano gesti tecnici più o meno congruenti, in quel silenzio. Poi Fiocco mosse la coda con un colpo secco e veloce, e allora capimmo che si stava facendo tardi. Aprii la porta sul retro, uscendo nella velatura dorata del mattino. Trovai Herbert intento a calcolare mentalmente se la legna rimasta ci sarebbe bastata anche per l’ultima parte dell’inverno. «È tempo di andare?» mi chiese vedendomi arrivare. Il suo volto era pulito e bello, il suo corpo emanava un odore rassicurante, le vene dei suoi bicipiti nudi erano di un verde acquerello. «Mettici un telo sopra, stasera dovrebbe piovere». Il Mister ci accompagnò a scuola e ripartì guizzando, lasciandosi dietro una scia di vapore e tabacco. Come ogni mattina sarebbe andato a vedere l’allenamento degli under-13, giù all’Accademia, controllando scrupolosamente che tutti toccassero la palla come voleva lui. Il Mister amava il calcio: lo amava più di quanto potesse amare noi. Amava il fango, amava l’emozione forte della pioggia che cade dalla traversa. Io sapevo che (il Mister) viveva male ogni secondo trascorso lontano da quel miscuglio di fischi e di fango, che soffriva incondizionatamente. Riuscivo a capire il suo dolore, a farlo mio. Herbert no: lui aveva sempre odiato sapere qualcosa di suo padre incollando insieme i ritagli di tutti gli aneddoti che ci erano stati raccontati nel corso del tempo. Lo trovava un limite, qualcosa di inumano. Mio fratello frequentava l’ultimo anno e di lì a qualche mese si sarebbe diplomato, il primo della famiglia a farlo. Io stavo ripetendo il terzo. Entrambi eravamo nati di febbraio, a distanza di pochi giorni uno dall’altro, ma Herbert aveva due anni in più di me e fin dal primo giorno mi aveva trattato col massimo rispetto e con la più totale gentilezza e disponibilità. Aveva la tenacia e l’animo nobile del primo della classe. Era alto e muscoloso, con dei bei capelli robusti e due castagne al posto degli occhi. Con lui il Mister aveva programmato tutto fin dal primo giorno. Sognava un futuro da centrocampista di interdizione, convinto che avrebbe sviluppato una grande capacità polmonare e una muscolatura flessibile e resistente nella parte superiore del corpo — un’analisi che si sarebbe dimostrata oltremodo accurata —, e ci era rimasto malissimo quando Herbert gli aveva comunicato la sua intenzione di mollare l’Accademia per colmare le sue lacune grammaticali, evitando così di ripetere il secondo anno. A mio fratello del calcio non era mai interessato davvero: aveva retto fin quando la sua corsa era stata sospinta dalla fede che l’essere un calciatore fosse il modo più semplice per farsi voler bene da suo padre, ma una volta capito che l’approvazione del Mister non poteva sostituirsi al suo sogno di laurearsi in medicina il suo tempismo nell’anticipo era scemato e in meno di tre mesi le sue scarpette di cuoio erano state riposte per sempre nell’armadietto accanto al letto. Con me le cose erano andate diversamente. A me invece il calcio piaceva, e questo nonostante il Mister non mi avesse allevato per diventare un calciatore di nessun tipo. Anch’io avevo fatto parte dell’Accademia giovanile che il Mister in persona aveva costruito con le sue mani, mattone dopo mattone, schema da calcio d’angolo dopo schema da calcio d’angolo, ma a differenza di Herbert la mia esperienza era stata del tutto diversa. Era stato il Mister a dirmi di farmi da parte, di concentrarmi sullo studio e di allenare l’occhio invece del flessore. Confesso che ci rimasi malissimo. Piansi, pure. Mi dissi che l’esperienza con mio fratello dovesse essere stata così dolorosa dal metterlo sulla difensiva fino a spingermi lontano dal rettangolo di gioco prima che fossi stato io a lasciare quest’ultimo; dapprincipio mi fece strano perché il Mister aveva sempre preso la vita con lo stesso stile aggressivo col quale impostava le sue squadre, ma dopo aver affrontato la situazione (pochi mesi dopo che mio fratello aveva abbandonato l’Accademia per sempre) e aver visto le onde del fumo delle sigarette che parlavano al posto suo mi resi conto che si trattava soltanto di istinto di sopravvivenza. Decisi di non prendermela. Mi dissi che se la sua era una decisione presa d’istinto col tempo sarebbe tornato sui suoi passi e io a sporcarmi le caviglie di mota. Non fu così. Il Mister si allontanò dalla mia carriera proprio come aveva fatto quella mattina davanti a scuola, lasciandosi dietro una nuvola di silenzi e fumo di sigaretta.Quando raggiunsi di nuovo Herbert, all’uscita della scuola, lo trovai intento a fissare il cielo. L’aria si era fatta fredda e potevamo vedere i nostri respiri. Il Mister non veniva mai a riprenderci una volta finite le lezioni — a quell’ora, le due del pomeriggio, allenava i ragazzi di otto anni passeggiando nervoso su e giù con il fischio incollato alle labbra. Mi grattai la parte bassa della schiena e chiesi a mio fratello dove voleva mangiare. Ero affamato e infreddolito. Herbert mi passò davanti tagliandomi la strada, mettendosi a leggere qualcosa sul tabellone degli annunci poco fuori dal perimetro della scuola. «Vedrai, qualcuno chiamerà» gli dissi, affabile. Herbert si era proposto di dare lezioni di ripetizione di matematica, fisica e chimica e aveva lasciato il numero di casa nostra sotto una descrizione scritta a mano in modo impeccabile. La calligrafia di mio fratello era la calligrafia di un uomo maturo. I numeri erano ancora tutti saldamente incollati ai piccoli ritagli che Herbert stesso aveva inciso con le forbici, ma io ero sicuro che di lì a pochi giorni qualcuno ne avrebbe strappato uno. Mio fratello era bravo nelle materie scientifiche e il semestre stava per finire: qualcuno avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. All’inizio avevo pensato di strapparne un paio io stesso, ma non volevo alimentare in lui delle false speranze. Non volevo che ci rimanesse male nel vedere che, per quanto quelle due persone avevano avuto l’idea di affidarsi a lui, alla fine non avevano chiamato. Pensai che avrebbe sofferto ancora di più e non se lo meritava. Mio fratello si era preso cura di me fin dal giorno in cui nostra madre ci aveva abbandonato. Lei e il Mister si erano conosciuti quando ancora era una ragazza con la testa piena di riccioli color rame e il cuore leggero. All’epoca il Mister portava ancora i capelli lunghi, nelle vene gli scorreva uno spirito caldo che rendeva espansive le persone attorno a lui. Quando conobbe Dora, mia madre, pare allenasse con il maglione a collo alto fino a primavera, e la sera dopo la partita fumava lunghe sigarette sottili. A mia madre recitava poesie in francese e la portava a bere vino nelle taverne con le luci soffuse nel quartiere buono; si faceva la barba ogni mattina e parlava con interesse, soprattutto dei suoi viaggi. A quanto mi è stato raccontato, Dora è tutt’oggi l’unica persona alla quale il Mister abbia raccontato di quando aveva allenato all’estero e di come avesse conosciuto alcuni dei migliori artisti della controcultura est-europea, uomini capaci di parlare per ore di rivoluzione palleggiando con quella leggerezza che ti aspetteresti dai baci rubati la mattina presto. Il loro fu un amore incandescente.Nostra madre ci lasciò quando mio fratello aveva sette anni e io cinque anni. Il Mister, cinquantenne estatico, si chiuse a riccio, rifugiandosi tra le braccia di una delle sue grandi amanti, la zona. Tuttavia, i suoi baffi rimasero gli stessi. Perché? Mi ricordo che l’estate stava arrivando e con essa le notti più tristi della mia vita. Fino a quando era rimasta, nostra madre ci aveva voluto un bene forte, intossicante. Che la rendessimo infelice? Sicuro tutti quei pareggi scialbi, tutte quelle lavatrici a vuoto l'avevano resa una donna piena di rabbia. Aveva perso il controllo, il controllo su sé stessa, e se ne era andata una mattina di pieno sole, senza dire una parola, lasciando al Mister il compito di far parlare la sigaretta. Herbert non pianse: fu lui a raccogliere le mie lacrime. Mi ricordo che quella stessa sera, dopo non averla aspettata sul divano per tutto il giorno, proposi di andare a cercarla convinto che qualcuno l’avesse rapita, che fosse in pericolo. Herbert mi ascoltò senza fiatare con in faccia quello che più tardi avrei scoperto essere il simbolo del tradimento. Non di meno non disse niente: prese due torce, una per me e una per lui, e uscimmo nella notte mano nella mano, con lui davanti e io che a malapena riuscivo a mettere insieme dei passi convincenti nei miei pantaloni di stoffa, a cercare una persona che non voleva essere trovata. Il Mister ci guardò uscire di casa con aria assorta senza dire una parola. Stava leggendo il giornale della domenica. Era giovedì. Da quel giorno Herbert e io diventammo inseparabili. Fu Herbert a prendersi cura di me dopo mia madre, a starmi vicino nelle notti incerte, a darmele di santa ragione quando lo riteneva necessario. Fu lui a comprarmi i fumetti con i soldi che guadagnava dando ripetizioni, e sempre lui a togliermeli (i fumetti) quando non facevo la mia parte in casa. Mi aveva detto quando e come bere il latte e poi aveva fatto lo stesso con la birra e col vino. Mi aveva insegnato ad aspirare le sigarette e mi aveva abbracciato quando mi veniva da piangere al solo pensiero che lui potesse avere più paura di me nello starsene in una casa che non significava niente per nessuno dei due. Fummo entrambi sollevati quando il Mister ci comunicò che ci saremmo trasferiti in campagna, in una vecchia casa spaziosa. Avevo dieci anni. Il Mister aveva da poco aperto l’Accademia giovanile, un progetto ambizioso quanto il suo 4-3-3 che voleva dare supporto ai ragazzi della città, quelli più in difficoltà come i benestanti, quelli che non sapevano correre e quelli destinati a sentire il torpore che ti invade il corpo dopo aver fatto tremare la rete. Frequentavo ancora l’Accademia, al pomeriggio, il giorno che realizzai davvero che non avrei mai più rivisto mia madre. Spinsi un pallone in rete di testa, quel giorno. Il Mister mi guardò senza muovere un muscolo e nei suoi occhi vidi realizzai la verità: lei non sarebbe più tornata. Non di meno, avevo segnato un gol.Come raggiungemmo la grande casa bianco dove abitavamo da tempo, Herbert vide Fiocco pulirsi le zampe con un’aria di sufficienza. Gli lanciò un piccolo sasso che finì poco distante da dove era seduto, facendolo alzare in piedi. «Pigrone!» Nonostante non fossero ancora le quattro del pomeriggio la luce appiattiva i colori pastello della collina in un modo triste. In cielo non c’era una nuvola e l’aria era così pulita da farsi penetrare dal fischio del treno che correva lungo la ferrovia dietro la collina. Nei prati cresceva il mughetto. Herbert aprì la porta d’ingresso con una robusta spallata e Fiocco entrò insieme a noi. Mi accesi una sigaretta, sedendomi sul portico di legno traballante, il Mister non sarebbe rientrato prima delle dieci. Spesso mi ritrovavo a pensare a lui come si pensa a un disegno che si è visto da qualche parte, e su cui abbiamo continuato a fantasticare, immaginando le linee e la storia di modo da inventarsi quello che fuoriesce dalla cornice. Avrei voluto vederlo ma soltanto per potermi immaginare le cose. Per me il Mister era sempre stato un uomo interessante. Mi piaceva quando incontravo qualcuno disposto a raccontarmi qualcosa di lui. Per esempio, mi ricordo di quando, giù al bar sulla Sesta Strada, in occasione di una rimpatriata della vecchia classe, un suo vecchio compagno di squadra mi raccontò di come, nella sua breve carriera da calciatore, il Mister giocasse dietro le punte con il colletto alto. Mi sembrò un vezzo vergognosamente barocco, qualcosa di impossibile: l’idea di mio padre a vent’anni con dei sottili baffi bizzosi e ispidi come quelli che vedevo spuntare di tanto in tanto sopra il labbro superiore di mio fratello, pettinato con la brillantina, la maglia numero otto sulle spalle — a logica il trequartista indossa la dieci ma l’uomo mi disse chiaramente che si trattava della numero otto; quando tornai a casa quella sera mi dispiacque un sacco non avergli chiesto del perché di questa scelta, se era stata intenzionale o fortuita. Mi disse che il Mister, che avrebbe smesso di giocare l’anno seguente dopo essersi rotto i legamenti della caviglia destra dando inizio alla secolare carriera in panchina, era un giocatore fenomenale nel leggere lo spazio, capace di snellire la manovra senza toccare la palla e giocandola a mezzo tocco (queste erano state le sue parole) quando possibile. Un giocatore elegante, pratico, minimalista, completamente destrutturato e altruista, che in tutta la sua vita non aveva mai calciato un rigore o colpito la palla di testa, mostrandosi anche da adolescente una persona vanitosamente romantica. Herbert si annoiava ogni volta che qualcuno iniziava a raccontarci qualcosa del Mister (oppure faceva finta di farlo) ma a me interessava davvero, soprattutto gli aneddoti dei suoi anni all’estero quando era ancora poco più di un ragazzo. Purtroppo non avevo mai conosciuto nessuno che fosse in grado di raccontarmi qualcosa di concreto sui suoi anni di Brest, al confine tra Polonia e Bielorussia, dove un Mister incurante del freddo era giunto pur di seguire quello che era stato il suo grande maestro, il signor Prospero Flores, che non lo chiamava Mister ma Ragazzo. Le uniche cose che sono riuscito a sapere (e che mi sembrano attendibili) sono che il Ragazzo-poi-Mister passava dieci ore al giorno accanto al mentore imparando a giocare sfrontatamente all’attacco e di sera si chiedeva in camera a fumare e leggere Goncharov, Pruszynski, Cvetaeva, Gogol’, Chodasevic, Nalkowska e Turgenev, cercando di trarre l’ispirazione giusta per scrivere qualcosa di suo. Non ho idea se abbia davvero mai scritto niente, magari qualche riga su un quaderno finito chissà dove. Eppure, non posso fare a meno di vedere quelle parole immaginarie come se fossero ovunque, sparse per casa come nei nostri libri di scuola, capitoli pregni di povertà e coraggio, tellurici commenti sulla condizione dei poveri, che anche quando hanno qualcosa da raccontare se ne stanno sempre zitti. Mio padre scappò dalla Russia tre anni dopo, poco prima di compiere ventotto anni, con un quaderno pieno di schemi per risalire il campo e un nuovo soprannome (che credo avesse semplicemente rubato al suo maestro) che gli sarebbe rimasto appiccicato per tutta la vita. Le cause che lo spinsero a rientrare non sono chiare: qualcuno sostiene che avesse conosciuto una donna e nel freddo della sua stanza singola avesse messo alla luce un figlio; altri che fosse scappato dopo che i Servizi Segreti erano venuto ad arrestare il signor Flores, qualcun altro mi disse che lo avevano scoperto in flagrante con la moglie di Flores, e di come quest’ultimo, pugnalato da una malinconia straziante, gli avesse chiesto di restare ma soltanto se ancora disposto a schierare la difesa oltre la linea di metà campo. Purtroppo non ero mai riuscito ad avere notizie migliori di queste. Sulla via del ritorno il Mister si era fermato quasi un anno a Parigi, a curare le ferite e imparare la lingua, allenando una squadra della periferia e portandola a una partita dal vincere il campionato. Aveva dato le dimissioni novanta minuti prima dell’ultimo triplice fischio per andarsene in Austria, trascorrendo notti ancora più lunghe a chiacchierare di tutto, anche di calcio. È risaputo che fu in quegli anni che il Mister sviluppò la sua passione per i giocatori dal muscolo corto, dopo essere rimasto innamorato di una coppia di architetti del centrocampo che sapevano creare l’ordine laddove prima esistevano soltanto delusioni. Il Mister era nato alto e affusolato e credo non potesse aspettarsi altrimenti di vedere i suoi due figli salire oltre il metro e ottantacinque. Chissà, magari da qualche parte nella sua testa l’idea di schierarci come centrali di difesa dev’essergli venuta. Non lo so. Forse…Il profumo delle uova che sfrigolavano nella padella mi colpì mentre me ne stavo rannicchiato sul divano a leggere. Con mio fratello avevamo costruito una tacita routine quotidiana che prevedeva che io preparassi la colazione per lui e per il Mister, e che lui facesse lo stesso con la cena. A pranzo mangiavamo tutti fuori. Come appoggiai la gamba sinistra sul freddo pavimento di legno, Fiocco scattò via rapido, rifugiandosi sotto l’arco della porta che dava sull’ingresso. Herbert cucinava ascoltando la radio, con la sigaretta in bocca e l’occhio destro mezzo chiuso per via del fumo. Mi chiese se volevo del vino ma io sapevo che era il suo modo per chiedermi di versargli un bicchiere a lui. Fu quello che feci. «Alla fine non è piovuto» dissi senza pensarci. Dopo cena Herbert mi disse che andava in camera sua. Gli detti una pacca sulla spalla e lui mi rispose dandomi la buonanotte. «Buonanotte» sussurrai, apparecchiando di nuovo la tavola. Il Mister tornò alle undici passate: misi il segnalibro anche se non ero ancora arrivato in fondo al capitolo. Mi piaceva salutarlo quando rientrava, lo ritenevo un gesto carino da fare nei confronti di una persona che aveva trascorso tutta la giornata al freddo, lontano dalla propria famiglia; soprattutto non volevo perdermi la sua espressione quando varcava la soglia. Sembrava che mettesse piede nel mondo reale per la prima volta dopo secoli di pellegrinaggio. Mi guardò. Si tirò su le maniche del cappotto senza toglierselo, restando per qualche minuto con gli avambracci coperti soltanto dalla stessa felpa grigia del mattino. Emanava un forte odore di pioggia anche se non aveva piovuto. Mi chiese cosa aveva preparato Herbert per cena e poi mangiò le uova fredde e in silenzio, inzuppando il pane nel vino, un’usanza che aveva imparato in Spagna. Mi chiese se c’era qualcosa che doveva sapere. Senza rispondergli, gli presi una sigaretta dal pacchetto sgualcito bloccato dal velcro della tovaglia di plastica e me l’accesi inspirando una grossa boccata di fumo. Fumare una sigaretta del Mister prima di andare a letto era il momento preferito delle mie giornate, e lui mi lasciava fare con la tacita benevolenza di un nonno. Tra noi c’erano quarantotto anni di differenza ma sembravano mille, oppure due. Nei suoi occhi vedevo il mio riflesso e immaginavo l’aspetto della mia faccia quando sarei diventato anch’io un uomo di più di sessant’anni. Parlammo qualche minuto dell’Accademia.«Il condotto dell’aria condizionata perde di nuovo» mi disse guardandosi le unghie sporche di terra. «Ma il vero problema resta il centravanti». Dopo cena uscì a prendere due ceppi in più per la notte e quando rientrò, soffiandosi via il freddo di dosso, fui io ad aprirgli lo sportello della catasta della legna. Mi fece cenno di ravvivare il fuoco e poi andammo a letto, ognuno nella sua stanza. Sapevo che il Mister sarebbe rimasto sveglio ancora per qualche ora a scrivere qualche appunto per gli allenamenti del giorno dopo. Scrivere a meno, sosteneva, ti permette sempre di rivendicare l’autenticità delle tue idee. Chissà cosa gli avevano rubato, uno schema su punizione indiretta o la posizione dei terzini, che nel calcio del Mister dovevano sempre capire in anticipo quando stare stretti e quando larghi, conservando una flessibilità intuitiva che in nessun altro ambito della vita sarebbe stato possibile. Quella notte mi addormentai con nel naso l’odore delle sue sigarette che entrava da sotto la porta di camera mia e vagava per l’aria senza che io potessi farci niente. Ero contento. Sognai che eravamo tutti e tre a una festa in campagna in una villa con un grande prato addobbato di festoni e palloncini. Il Mister indossava la cravatta e il solito cappotto lungo. Io fumavo. Qualcuno mi chiamava per raccontarmi qualcosa che non capivo e dalla strada venivano delle risate strane, distorte dal rumore di un vento poderoso che scompigliava i capelli di mio fratello. All’improvviso caddi in piscina, e quando riemersi erano passati trent’anni. Mi grattai la testa incollata di brillantina cercando di assumere un’espressione pensosa e gridai qualcosa al nostro portiere. Mancavano dieci minuti alla fine della partita ma ancora nessuno poteva dire con certezza se anche quell’anno ci saremmo salvati.

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