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Il mestiere di arbitrare
26 ott 2016
26 ott 2016
Quanto guadagna un arbitro? Quanto spesso viene picchiato? Un affresco sulla classe arbitrale italiana.
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16 min
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«Sarei ipocrita se dicessi che con la Video Assistenza Arbitrale Milan-Sassuolo sarebbe finita così». Lo ha dichiarato Domenico Messina, ex arbitro e oggi designatore di Serie A, alla presentazione a giocatori, dirigenti e allenatori della massima serie di VAR (Video assistant referee), meglio conosciuta come moviola in campo. Messina si riferisce al 4-3 finale col quale i rossoneri hanno battuto in rimonta gli emiliani, grazie anche a un rigore poco chiaro per fallo su Niang in area.

L’arbitro davanti allo schermo forse avrebbe comunicato al collega in campo, nel caso specifico Marco Guida, che il fallo non si era verificato e il gioco sarebbe proseguito normalmente. Certo, questo potrebbe diventare un alibi per gli arbitri e anche per questo Messina ha tenuto a precisare che nei «casi complessi decide l’arbitro». Parole che amplificano quanto sottolineato sulla Gazzetta dello sport da Massimo Busacca, designatore Fifa, solo una settimana fa: «Gli arbitri dovranno rimanere concentrati solo sulla partita, senza avere dubbi sulle situazioni o le decisioni prese, come se non ci fosse VAR».

Aggiungendo poi un concetto molto importante, fondante se visto con gli occhi di chi fa il mestiere del direttore di gara: «La stragrande maggioranza delle partite sarà diretta senza aiuti. E allora dico: un arbitro importante che non decide nulla e aspetta dall’alto l’indicazione giusta potrà mai essere un modello da seguire per un giovane? Facendo così nessuno si prenderà più delle responsabilità. E il calcio chiude bottega».

Gli arbitri in Italia, compresi assistenti, osservatori e associati, in genere sono circa 33.600. Quelli di élite, dei quali i più attenti ricordano anche i nomi, sono 22 e arbitrano in Serie A; poi ce ne sono altri 26, mediamente noti, che lavorano in B. Gli altri 33.550 circa sono gli arbitri della periferia calcistica, che spesso si trovano soli ad affrontare partite folli, dove non sempre regna la sportività.

Gli ultimi dati forniti direttamente dal presidente dell’Associazione italiana arbitri (Aia), Marcello Nicchi, parlano di 650 direttori di gara picchiati sui campi di calcio della Penisola ogni anno, una media di poco meno di due al giorno. Il calcolo si basa su verbali di polizia, rapporti medici e ricoveri. Come sottolineato dallo stesso Nicchi, non si tratta di casi isolati e per la stragrande maggioranza dei giovani che fanno il mestiere nelle serie dilettantistiche. In realtà il report ufficiale dell’Aia, aggiornato al 17 giugno 2016, parla di 681 casi di violenze subite dagli arbitri. La Seconda Categoria è la serie più dura, con quasi un terzo delle denunce, e la Sicilia regione dove si registra il più alto numero di aggressioni.

Tabella e dati tratti dal report dell’osservatorio violenza dell’Aia.

Da un certo punto di vista non potrebbe essere altrimenti, perché la Seconda Categoria è la serie con più squadre iscritte. Parliamo, infatti, di 182 gironi da 16 formazioni ognuna dislocate sul territorio nazionale. Da un altro, però, influiscono almeno altri due fattori e cioè la conformazione delle rose, molto spesso fatte di calciatori in età avanzata «che vivono con una certa frustrazione gli anni che passano, o il non aver sfondato», come mi racconta un arbitro che da una decina di anni si confronta con le partite della Lega nazionale dilettanti.

Altro fattore che influisce non poco è la mancanza di copertura video di queste gare che, per anni, tranne in qualche rarissimo caso, non hanno avuto altri testimoni se non gli spettatori in carne e ossa. Anche la questione del “pubblico caldo” nel Sud d'Italia, nonostante ci siano delle verità in ogni luogo comune, è più comprensibile se guardata da un punto di vista meramente algebrico. Le differenze tra regioni maggiormente popolate non sono infatti enormi e in posti come la Sicilia le formazioni sono tantissime.

Allo stesso modo, è molto forte la “concorrenza” tra arbitri stessi. Infatti nelle regioni meridionali le giacchette nere o gli aspiranti tali, sono tantissime. «Se fossi stato pugliese, non sarei mai riuscito a entrare nella sezione», mi ha confidato il mio amico. Per ricevere fischietto e cartellini bisogna inoltre superare dei testi fisici molto precisi. Esistono dei limiti minimi da rispettare, ma ovviamente con maggiore concorrenza anche la selettività diventa più stretta.

Bisogna ad esempio staccare un tempo di 6”10 sui 60 metri e poi affrontare lo Yo-Yo Intermittent Recovery Test. Si tratta di effettuare il maggior numero di corse a navetta (andata e ritorno) tra due linee poste ad una distanza di 20m. Questo ad un ritmo progressivo imposto da beep acustici. Alla fine di ogni frazione di 40m lanciati, l’arbitro ha dieci metri di recupero da percorrere camminando per poi ripartire da capo. Il tutto per un minimo di un chilometro e duecento metri, rispettando ovviamente il ritmo sonoro dei bip.

Ma la fatica sul campo e la professionalità non si riflettono in un riconoscimento di pubblica utilità e autorevolezza. Un arbitro infatti è colui al «quale è conferita tutta l’autorità necessaria per far osservare le Regole del Gioco», come recita il punto 5 del Regolamento del calcio. Ma è anche colui che col proprio operato salvaguarda la bellezza di una partita e l’incolumità dei suoi interpreti. Questa peculiarità è orgogliosamente riconosciuta da chi intraprende al carriera da direttore di gara, a volte molto meno da giocatori e società.

Il presidente Nicchi ha commentato sul Corriere della Sera: «Ci sono società con dirigenti o allenatori che non sono in grado di controllare i nervi, e se a queste società non mandiamo più gli arbitri le assicuro che smetteranno di giocare il campionato».

Quasi sempre a insultare e aggredire un direttore di gara, o un suo assistente (quando c’è) sono i rappresentanti delle squadre stesse, se non proprio i calciatori: parliamo di partite in cui l’unico pubblico presente è composto dai parenti di chi gioca, e anche loro rappresentano un problema, soprattutto se parliamo di genitori di calciatori poco più che bambini.

Sono ragazzi

Uno dei casi di cui più si è discusso nella stagione scorsa è avvenuto intorno alla metà di maggio: Coppa dei Campioncini delle province di Reggio Emilia e Parma, categoria esordienti (11-12 anni), campo di Quattro Castella. Giovanni Brugaletta, arbitro sezionale di 23 anni, fischia due rigori a favore del Terre Matildiche, scatenando la furia dei genitori dei bambini del Paradigna, ed espelle un giocatore e un dirigente dei biancoblù parmigiani.

La decisione dell’arbitro scatena il putiferio sugli spalti, dai quali piovono gli insulti più diversi, tra cui anche un «Quando esci ti ammazzo», denunciato dal direttore di gara ai carabinieri, che lo scortavano fuori dallo spogliatoio nel quale si era barricato. Ma questo, purtroppo, è un caso come tanti altri.

Un mio amico, da una decina d’anni arbitro e poi assistente di linea nelle sezioni di Ancona e Fermo, nelle Marche, mi ha raccontato la sua esperienza nel mondo del calcio giovanile e dilettantistico. Un giorno, era all’ultima di campionato della terza categoria anconetana, si è preso una testata da un giocatore che aveva appena espulso per frasi ingiuriose nei suoi confronti. La sfortuna ha voluto che venisse colpito proprio sullo zigomo fratturato un paio di mesi prima. La vittoria a tavolino per gli avversari decretata dopo la sospensione della partita non ha di certo cancellato l’episodio.

Ci sono poi quegli arbitri che vengono puniti per decisioni prese anni prima. Un altro ragazzo, sempre arbitro della sezione di Ancona, ad esempio, ci ha rimesso il parabrezza della macchina per aver dimenticato di rispettare la prassi di lasciare in custodia ad un dirigente della squadra di casa le chiavi della propria automobile. E per l’appunto nemmeno per la partita appena terminata, «ma per quella dell’anno precedente».

Seconda categoria ligure, maggio 2016.

Rimanendo nelle Marche, c’è poi la storia di Luigi De Marco da Recanati, decano della professione con i suoi 40 anni, che al Corriere ha dichiarato: «Agli insulti, entro un certo limite, siamo abituati e per quanto fastidioso possa essere diciamo pure che un “vaffa" non ha mai ammazzato nessuno. Quello che davvero non si può tollerare è la violenza fisica, sono le minacce, è l’insulto oltre il limite della goliardia». A De Marco la passione per il gioco e le sue regole è costata 82 giorni di prognosi per un calcio ai testicoli preso da un calciatore che aveva ammonito durante una partita del campionato Amatori.

C’è poi la storia di Marco Airoldi, 18 anni da Vercurago. Questo arbitro, iscritto da due anni nella sezione lombarda di Lecco, ha subito un’aggressione molto grave mentre dirigeva la partita nel centro sportivo di Cernusco Lombardone, tra la Brianza Cernusco Merate e il Costamasnaga. La dinamica è la solita: concede un rigore alla squadra locale e per tutta risposta il capitano della squadra ospite, coetaneo di Airoldi, lo colpisce al volto con un pugno. L’aspetto più grottesco della vicenda è che la partita in questione era dedicata alla lotta “contro la violenza nei confronti degli arbitri”. Tutte le gare dilettantistiche in Lombardia erano infatti cominciate con un ritardo di dieci minuti per sensibilizzare calciatori e pubblico contro i gesti sconsiderati nei confronti dei direttori di gara. Non per Marco Airoldi, però, che a fine partita è finito al pronto soccorso.

C’è sempre chi è pronto a fare un distinguo.

Il fenomeno non è nemmeno circoscrivibile ai soli campionati maschili. Lo scorso aprile, infatti, Raffaele Ziri e Ruggiero Chiariello, coppia di arbitri della sezione di Barletta, sono stati aggrediti dal pubblico durante la partita di calcio femminile a 5 tra Salinis e Futsal Portos dopo il gol del 3 a 6. Anche per loro l’epilogo è stato rappresentato dalla fuga in ospedale per medicare contusioni e abrasioni.

2015, anno di svolta

Il fenomeno delle aggressioni agli arbitri è tornato a crescere dopo un triennio di relativa calma. Nel 2011, infatti, sembrava che il fenomeno avesse subito un colpo in seguito alla dura denuncia dell’allora direttore generale della FIGC, Antonello Valentini. «In Italia si giocano 570mila partite ufficiali in una stagione effettiva», aveva dichiarato Valentini «Nella passata stagione sono stati 600 gli arbitri aggrediti e malmenati».

Anche Maradona ci è cascato.

Parole che avevano prodotto un effetto tangibile. Il Consiglio Figc, su proposta di Giancarlo Abete, presidente fino alla disfatta azzurra nel mondiale 2014, approvò una serie ulteriore di misure punitive per i campionati giovanili e dilettantistici, sia per le società che per i giocatori. Per la prima volta si parlava di pene e ammende pecuniarie contro i calciatori, cosa non da poco considerato che si tratta di giocatori che non ricevono uno stipendio.

Gli effetti lenitivi però sono durati poco. Già nella stagione 2014-2015 le aggressioni denunciate dagli arbitri erano tornate 600, quasi raddoppiate in dodici mesi rispetto alle 375 della stagione precedente, come testimoniato dal report consegnato al Ministero dell’Interno e predisposto dall’Osservatorio dell’AIA sulla violenza sugli arbitri. Da quella stagione le aggressioni nei confronti degli ufficiali di gara sono tornate ad essere un fenomeno dilagante e in costante aumento.

E anche in serie A la vita da arbitro non è semplice.

I numeri dicono che ogni giorno, in Italia, si disputano in media circa 1600 partite ufficiali con un arbitro federale per un totale che ha superato abbondantemente le 600mila gare a stagione (alle quali vanno aggiunte oltre 140mila amichevoli). Se il dato assoluto rivela che rispetto alla stagione 2013-2014, gli episodi di violenza nei confronti delle componenti arbitrali sono passati da 375 a 600, osservando lo scorporo dei dati sui trenta giorni si osserva che l’anno scorso i mesi più caldi sono stati, in barba al meteo, gennaio e febbraio, con 102 e 111 casi denunciati. Sono questi i mesi decisivi, soprattutto nelle serie inferiori. Infatti sono proprio Prima, Seconda e Terza categoria le serie che creano maggiori problemi di ordine pubblico.

Dei 600 episodi rilevati, 57, quindi quasi il 10%, sono accaduti nei campionati adolescenziali, quelli che per intendersi vanno dal Settore Giovanile e Scolastico a quello dei campionati Giovanissimi e Allievi regionali, passando per Esordienti e Juniores. Parliamo di ragazzi che vanno dai 10 ai 17 anni. La quasi totalità delle violenze (638 su 681) sono state commesse da tesserati, cioè calciatori o dirigenti delle società stesse.

Per questo motivo si è pensato di scrivere un protocollo che finalmente si rivolgesse anche ai campionati giovanili, oltre che a quelli dilettantistici. Un protocollo che obbligasse le società condannate per violenze a versare l’anno successivo una “somma forfettaria a copertura delle spese arbitrali” e che, soprattutto, che contemplasse anche multe nei confronti di giocatori e dirigenti. Un regolamento inoltre che lasciasse libertà di adire le vie legali contro singoli e società in presenza di un referto medico che accertasse la presenza di lesioni.

Quando si parla di arbitri donne il retropensiero è pressappoco questo.

Molto spesso neanche il sesso dei direttori di gara ferma la violenza degli aggressori. In Italia ci sono quasi 2mila arbitri e assistenti donne (soltanto la Germania ne ha di più) e per loro farsi rispettare ed evitare aggressioni è ancora più difficile.

La frustrazione della classe arbitrale, soprattutto nelle serie minori, deriva oltre che dal fatto di sentirsi soli in mezzo al campo, avversario, quando non nemico, soprattutto dal non poter reagire. «In altri contesti è umana la reazione, anche per potersi difendere», ha raccontato nel maggio scorso al quotidiano abruzzese Il Centro, e ripreso dal blog arbitro.com dal capo regionale dei direttori di gara Angelo Martino Giancola, aggredito durante la finale di play-off i Eccellenza «Nel caso degli arbitri no, devono subire e basta».

La squadra del Pineto aveva segnato una rete in fuorigioco come poi mostrato, si dice, dalle immagini televisive. L’episodio aveva fatto infuriare i giocatori marsicani del Paterno, che hanno insultato l’arbitro sulla via degli spogliatoi e aggredito appunto il dirigente regionale. In questo senso, le parole di Giancola non devono essere lette come istigazione alla rissa tra direttori di gara e calciatori (come accade in altri paesi), ma come denuncia di una situazione in cui colui che si presenta in campo da solo si ritrova sotto i riflettori non appena qualcosa va storto: «Se avessi reagito domenica, sarei finito in prima pagina su tutti i giornali: “Capo degli arbitri picchia giocatore”».

Un quadro grottesco ma piuttosto verosimile, figlio del fatto che le botte agli arbitri da parte dei calciatori e dirigenti non fanno poi tanto notizia, semplicemente perché avvengono più spesso del contrario.

La FIGC, dopo le tante lamentele e l’allarme lanciato a più riprese dal presidente dell’AIA Marcello Nicchi, ha deciso di inasprire i provvedimenti nei confronti delle società i cui dirigenti o calciatori si rendessero protagonisti di condotte violente. Il comunicato 104 del 17 dicembre 2014, in vigore dall’inizio del 2015, ad esempio, recita: “A partire dal 1° gennaio 2015, gli addebiti delle spese arbitrali saranno posti a carico delle Società Dilettantistiche o del Settore Giovanile i cui tesserati abbiano tenuto condotte violente nei confronti degli Ufficiali di Gara”.

Alla fine della stagione 2014-2015, quasi 300 società calcistiche si sono trovate a dover pagare delle ammende, pena la non ammissione alla stagione sportiva successiva. Il provvedimento, che ha scatenato una serie di polemiche da parte dei club, già in forte difficoltà per colmare le spese fisse, scatta in caso di episodi puniti dal Giudice sportivo. L’inasprimento ha coinvolto anche i provvedimenti disciplinari: 8 giornate di squalifica per singolo calciatore, 4 mesi di squalifica per singolo calciatore o singolo allenatore della società, 4 mesi di inibizione per il singolo dirigente o membro della società, cumulativamente 6 mesi di squalifica per calciatori e allenatori, cumulativamente 6 mesi di inibizione per dirigenti o altri membri.

Per quanto riguarda le ammende da pagare, vengono calcolate con una moltiplicazione tra costo medio di una gara e numero di partite casalinghe. In questo modo una società di Prima categoria può arrivare a pagare 1.050 euro, una di Eccellenza 3.150 euro, una di Serie D 10.500 euro e così via. In un secondo momento la società può rivalersi sul proprio tesserato violento in sede civile, così da applicare il principio di responsabilizzazione di calciatori e dirigenti portato avanti da AIA e FIGC.

Sono state molte le voci favorevoli dei direttori di gara a questo tentativo di responsabilizzazione dei singoli attraverso il forte inasprimento delle pene pecuniarie, anche perché, dicono ancora gli arbitri, per giocatori a fine carriera la prospettiva di una lunga squalifica non sembra essere una minaccia così pesante.

Quanto guadagna un arbitro?

E c’è da dire inoltre che per la stragrande maggioranza degli arbitri questi rischi non sono nemmeno compensati (sempre che si possa ripagare in denaro rischi di questo tipo) da una remunerazione adeguata.

Le tabelle con i rimborsi sono pubbliche e consultabili sul sito dell’AIA. Un direttore di gara appena formato dal corso base (solitamente di età tra i 16 e i 18 anni), viene spedito di solito nel campionato giovanissimi provinciali.

Tabella e dati tratti dal report dell’osservatorio violenza dell’Aia.

Per queste gare il rimborso minimo riconosciuto è di 30 euro per una trasferta di 25 chilometri. Questa somma comprende tutto, cioè spese legate al viaggio (benzina ed eventuali pedaggi autostradali) e alla persona. Il rimborso sale con l’aumentare del chilometraggio, fino a un massimo di 88 euro per trasferte di 300 chilometri. Ma, viste quantità e densità delle sezioni sul territorio nazionale (sono oltre 200, praticamente il doppio delle province), trasferte che vadano oltre la soglia dei 50 chilometri sembrano abbastanza improbabili. Le cifre restano praticamente invariate anche tra i dilettanti fino all’Eccellenza.

Soltanto con l’ingresso in Lega Pro le cifre aumentano: la diaria raggiunge i 200 euro, vengono aggiunti uno o due pasti per un ticket di 30 euro ognuno e un rimborso automobilistico di 21 centesimi per ogni chilometro percorso. Vale la pena ricordare che per il calcolo del viaggio fa fede l’indirizzo di domicilio dell’arbitro e gli spostamenti suggeriti sono soltanto in auto o treno. A questo punto un arbitro non ha meno di 28 anni e porta con sé anche un bagaglio di aspettative importanti da parte di tutti coloro che lo hanno seguito. «Dall’Eccellenza in poi preparatori e presidenti di comitato si aspettano che ogni arbitro debba diventare un internazionale», sottolinea il mio amico arbitro.

Il discorso ovviamente cambia se passiamo alle categorie superiori. Nonostante ciò, Calciopoli ha fatto da spartiacque tra un pre che vedeva gli arbitri di Serie A retribuiti con un gettone da dieci milioni di lire (divenuti poi col cambio 5.164,57 euro), e un post da 3.400 euro (1.700 per una gara di B). Nell’estate del 2006 le cose sono cambiate nuovamente per volere di Luigi Agnolin, commissario dell’AIA. Oggi gli arbitri guadagnano 3.800 euro per ogni gara di Serie A, oltre a una parte fissa che varia a seconda dell’anzianità, internazionale o meno, e numero di gare.

Per la precisione ogni arbitro promosso nella Commissione di Serie A riceve uno stipendio fisso di 30mila euro, che va ad aumentare di altri 10mila al raggiungimento dell’obiettivo di 25 presenze in una stagione. Coloro che vengono promossi alle gare internazionali maturano invece uno stipendio di 80mila euro. Gli arbitri che hanno fischiato in almeno 70 gare di A percepiscono 70mila euro.

I gettoni di presenza si vanno a sommare alla quota fissa, a cui gli internazionali possono anche aggiungere i gettoni per i match gestiti dall’Uefa, dove il tariffario è ancora più sostanzioso: 4.800 per ogni gara, 5.800 se riguarda la fase finale di una manifestazione.

Insomma un arbitro di Serie A può essere considerata una persona benestante, anche ricca se consideriamo che ai 200mila euro lordi che qualcuno all’apice della carriera raggiunge va sommata anche un’attività da libero professionista. Ma la carriera in ogni caso resta breve. Infatti nessuno dirige nella massima serie per più di un decennio, visto che a 45 anni il fischietto va appeso al chiodo. Una carriera in cui, è il caso di dirlo, uno su mille ce la fa.

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