• Calcio
Fabrizio Gabrielli

Il Maradona della sabbia

Omar Abdulrahman è il vostro nuovo giocatore di culto.

Terzo desiderio: trovare il proprio posto al mondo.

 

Dopo le Olimpiadi del 2012 il Manchester City ha proposto a Amoory un periodo di prova, al termine del quale gli è stato offerto un contratto quadriennale: la storia ufficiale dice che una serie di complicazioni burocratiche relative ai permessi di lavoro in Gran Bretagna abbiano fatto sfumare l’accordo, ma c’è anche una versione alternativa secondo la quale sarebbe stato lo stesso Abdulrahman a rifiutare il trasferimento; un diniego simile a quello riservato al Benfica, un semestre più tardi, che all’Al Ain lo aveva chiesto in prestito.

 

Un altro proverbio emiratino dice: «l’inganno non apre alcuna porta».

 

I motivi dietro il mancato trasferimento di Abdulrahman in Europa potrebbero essere, e sicuramente saranno, molti: ma nessuno è troppo chiaro, o del tutto esaustivo.

 

Tradizionalmente i padroni dei club emiratini sono riluttanti a lasciare andar via i propri giocatori, più per una questione di morboso attaccamento materiale che altro.

 

Nel 2006 Faisal Khalil, uno dei più promettenti prospetti del calcio del golfo dell’epoca, era volato in Francia per firmare un contratto con lo Châteauroux. La società che deteneva il suo cartellino, l’Al Ahli, si era opposta, e il fatto che il proprietario dell’Al Ahli fosse il principe ereditario di Dubai aveva fatto sì che la federazione calcistica emiratina bloccasse il trasferimento (più tardi Faisal sarebbe stato incriminato di servirsi della magia nera contro potenziali concorrenti al suo posto in Nazionale, ma questa è un’altra storia).

 

Ma i proprietari del City hanno legami strettissimi con la casa regnante, organizzano amichevoli negli Emirati, nessuna strada sarebbe stata meno accidentata, per il transito di Amoory in Europa, di quella che passa per gli Sky Blues.

 

 

 

A volte, invece, sono gli stessi calciatori della penisola arabica a non voler neppure prendere in considerazione l’ipotesi di un allontanamento. Star del jet-set locale, superpagati e con salari liberi da ogni forma di tassazione, liberi di comportarsi in campo come meglio credono: affrontare di petto l’incognita di un trasferimento in un universo culturale, prima che calcistico, spesso molto distante in parte è spaventoso, in parte semplicemente poco allettante.

 

Yasser al-Qahtani, nel 2007, trascorse un periodo di prova sempre con il Manchester City. Il saudita, Giocatore d’Asia in carica, arrivò nella città mancuniana con un grande entourage, durò due settimane, tornò millantando che l’Al Hilal avesse ancora troppo bisogno di lui. Chiuse la conferenza stampa dicendo «Ma ho ancora molte richieste per il futuro, e sono sicuro di poter sfondare in Europa».

 

Trattenendo Abdulrahman in casa, però, gli sceicchi non stanno rischiando – costringendolo a un’inevitabile stagnazione di crescita tecnica – di depauperare un patrimonio ricchissimo?

 

Perché allo stato attuale Omar Abdulrahman, davvero, è molto più di un pesce grande in un piccolo stagno: è più un plesiosauro in una tazzina da caffè.

 

 

«Omar Abdulrahman può giocare in ogni parte del mondo», ha detto di lui Javier Aguirre dopo aver visto il suo Giappone eliminato dal talento di Amoory. «Ma molto dipende dal suo stile di vita, dal tipo di pressioni che vuole. Se vuole uscire dalla sua comfort zone». Henk ten Cate, Sabri Lamouchi, Xavi: chiunque abbia avuto modo di osservarlo da vicino, dal campo o dalla panchina, sa che tipo di giocatore sia Amoory, e non perde occasione per tesserne le lodi, auspicandone il presunto salto di categoria. Che nella visione tradizionale dell’europeo expat negli Emirati, ovviamente, sarebbe sbarcare in Europa.

 

Ma Abdulrahman è anche un giocatore complicato su cui puntare. Si è già rotto per due volte, nel 2010, i legamenti crociati, e sulla sua testa è come se sventolasse una grande bandiera rossa: ha la resilienza necessaria per adattarsi, soprattutto fisicamente prima che tatticamente, a un contesto ipercompetitivo, molto più esigente rispetto a quello a cui è abituato?

 

E poi dal suo modo di giocare, dalle scelte che compie in campo, dal rapporto con i compagni e il suo pubblico quel che si capisce è che a Omar piaccia avere carta bianca: sbagliare senza timori nel tentativo di migliorare le sue tricks, in ultima istanza divertirsi.

 

Forse è questa idea di Grande Bellezza Negata (la media spettatori dell’Arabian Gulf League è di 2500 a partita) l’aspetto più frustrante dell’esperienza-Amoory.

 

A meno che non cominciamo a pensare a lui come un eroe crepuscolare che sfida il sistema calcistico eurocentrico, imparando ad ammirarne la capacità di resistere alle tentazioni di una mossa quasi obbligata. «Il sogno di ogni calciatore è giocare per un grande team», ha dichiarato recentemente; «sono ancora giovane, e so di dover raddoppiare ogni mio sforzo per raggiungere questo obiettivo. Ma non c’è nessuna data specifica, per il corso della mia carriera; la prenderò come viene. So che in questo ho il pieno supporto dei nostri sceicchi».

 

La sua carriera sfida, per certi versi, il concetto stesso di gioco globale del quale il calcio vorrebbe fregiarsi: dal suo punto di vista, se a contare deve essere la qualità nuda e cruda del gioco, che differenza c’è tra la Champions League della UEFA e quella della AFC?

 

Nella doppia sfida delle semifinali di Champions League asiatica (vincerla vorrebbe dire affrontare da subito, in semifinale della FIFA Club World Cup, il Real Madrid), contro i qatarioti dell’Al-Jaish, Amoory è stato protagonista indiscusso, troppo al di sopra della media degli avversari, troppo più decisivo: all’andata ha servito due assist e segnato una rete stupenda su calcio di punizione, oltre a offrire un saggio, l’ennesimo, del suo swag. Nell’esaltazione del cronista sembra affiorare la parola “sciamano”, più sicuramente c’è un qualche riferimento a Messi. Amoory accenna anche un passo di dab.

 

 

Al ritorno ha orchestrato e finalizzato la transizione che ha portato in vantaggio (e in finale) l’Al Ain, lasciando di sasso anche Seydou Keita.

 

 

In entrambe le gare è stato insignito del titolo di Man of the match, per la settima e ottava volta in dodici partite giocate.

 

Dopotutto non ci si può aspettare niente di meno che sia sempre il migliore, da un Maradona della sabbia.

 

 

Page: 1 2

Page: 1 2

Tags :

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.