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Il Maradona della sabbia
27 ott 2016
27 ott 2016
Omar Abdulrahman è il vostro nuovo giocatore di culto.
(articolo)
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Ognuno di noi ha un particolare talento, ma solo pochi possono vantare una specie di benedizione: dopodiché, è nella scelta delle modalità e dei contesti in cui decidiamo di esercitarlo che questo dono assume o meno i contorni della fenomenalità. Qualsiasi sia l’origine di questa trascendenza, Omar Abdulrahman Ahmed Al Raqi Al Amoudi, o più semplicemente Amoory, è uno di quelli che possiede i segreti della sua applicazione su un campo di calcio.

Parlare in termini troppo entusiastici di Amoory genera, innanzitutto, una serie di cortocircuiti cognitivi, il primo dei quali è: si possono usare le parole "campione" e "Emirati Arabi Uniti" nella stessa frase senza temere uno scivolamento nell’esagerazione?

E poi: non sarà che esaltarci per Omar Abdulrahman sia in qualche modo un tentativo di compatirlo per i luoghi che gli è toccato in sorte di vivere, in cui è chiamato a esprimersi?

Soprannomi come «Maradona della Sabbia» o «Messi Arabo», che Amoory indossa con la nonscialanza nobile e il distacco naturale con cui gli emiri vestono pigiami di seta, lasciano sempre il tempo che trovano: ogni paese ha un suo Messi, un calciatore capace di sublimare le sue doti tecniche e far sognare i ragazzini. In Amoory trova compimento una commistione di magnetismo e carisma che va oltre le skills, ma ecco il secondo cortocircuito: quanti di questi fenomeni-in-pectore riescono a evitare che la Sacra Fiamma del loro talento si spenga se rimangono emarginati ai limiti dell’impero?

A volte basta dedicare a un calciatore qualche manciata di sguardi per capire se è un giocatore vero o no: il compito, con Amoory, è più arduo. Osservarlo in azione, studiare la maniera in cui si trascina per il campo con quell’atteggiamento a metà strada tra la piena coscienza di sé e la spavalderia, è un esercizio al limite della mesmerizzazione, irto di trappole come un quadro di Prince of Persia. Minuto di statura, con lo sguardo furbo ma malinconico e lo swag del freestyler di strada, Omar Abdulrahman sembra impegnato in un perenne show il cui scopo è l’inganno, la boutade. Al di là del calcio, intendo.

Quindi Amoory è un freak?

Oppure è davvero il calciatore più talentuoso che abbia mai prodotto la Penisola Arabica?

Il problema di Amoory, in realtà, è un nostro problema, e dipende in buona sostanza da una specie di innato eurocentrismo: perché, se è davvero così forte, non è mai venuto - non ancora, almeno - a giocare in Europa? Quesito che - a voler cavare il sangue dalle rape - ci porterebbe a un interrogativo dalla complessità superiore: è davvero così importante l’Europa?

L’estetica calcistica è universale, non ha coordinate geografiche precise: un passaggio no-look come questo contro la Thailandia, i passettini con cui decelera la corsa per farsi trovare puntuale all’impatto con la palla in maniera da imprimerle la precisa traiettoria che la sua visione aveva già scelto, sarebbe stato più bello, meno bello, diverso, se inscenato in una partita di Premier League e non in una gara senza troppa storia di qualificazione ai Mondiali, zona asiatica?

Omar Abdulrahman, come se avesse sfregato una lampada facendone fuoriuscire il genio, ha deciso di esaudire tre desideri, grandi ma non spropositati come cambiare il mondo. Basterebbe concentrarsi sulle priorità che si è dato, per capire chi è davvero Omar Abdulrahman.

Primo desiderio: diventare forte, ma davvero forte.

Omar, come una fata morgana, è comparso praticamente dal nulla durante i Giochi Olimpici di Londra, nel 2012. Gli Emirati Arabi Uniti sono stati eliminati subito, ma nella loro partita d’esordio contro l’Uruguay Amoory ha inscenato una serie così massiva di giocate sensazionali da alimentare una serie di leggende - che lo spirito decoubertiniano amplifica a dismisura - tipo quelle che vorrebbero Ryan Giggs e Luis Suárez così sinceramente e umilmente impressionati da chiedergli di scambiare la maglia.

In un servizio girato a ridosso dei Giochi lo intervistano sugli effetti che l’osservanza stretta del Ramadam potrebbe avere sugli atleti impiegati a Londra. Non è tanto importante quel che pensa, ma come si presenta. Sulla sua t-shirt da ventenne c’è scritto «Try not to die for success», come se fosse un imperativo dal quale gli è impossibile sottrarsi.

Il successo di Omar passa attraverso la sua imprevedibilità, che non è solo il risultato di una spiccata vena creativa, ma anche una questione di insondabilità.

Da una parte il passo breve e scattoso come quello di un borseggiatore in metropolitana, il mancino di seta, il controllo quasi telecomandato del pallone, che donano l’immagine immediata di un solipsista virtuoso; dall’altra un’associatività così sorprendente da cogliere in controtempo anche gli stessi compagni. Sono concetti che, partendo da posizioni apparentemente antitetiche e inconciliabili, in Abdulrahman trovano l’esatto punto di fusione.

Ciò per cui Amoory sembra essere tagliato più d’ogni altra cosa è l’assistenza, come se di tanta benedizione volesse rendere partecipi anche gli altri, condividerla. Perciò è inevitabile che il suo talento diventi subitaneamente il punto di fuga sul quale s’assesta tutta la prospettiva della squadra che gli ruota intorno, sia questa l’Al Ain, multititolata società di Abu Dhabi nella quale milita da quasi dieci anni, o la Nazionale emiratina, semplicemente perché Amoory vede linee di passaggio che agli altri in campo è precluso scorgere.

Quando la palla gli scivola tra i piedi si crea quell’alchimia magica grazie alla quale i tappeti prendono a volare. Il suo rapporto con gli avversari, ma anche con il pubblico e forse anche con se stesso, diventa una gara alla sospensione dell’incredulità; nella maniera incosciente con cui si prende tutti i rischi non si capisce bene se alberghi più arroganza o quell’ésprit de finesse che marca la differenza tra un giocatore e un campione.

Voglio dire: c’è più tracotanza, sicurezza di sé o semplice libertà di esprimersi per quel che si è nella maniera in cui va a calciare questo rigore contro il Giappone in Coppa d’Asia l’anno scorso?

È impossibile dare una risposta che prescinda dall’importanza del momento, dai nervi saldi con cui Amoory lo affronta, dallo stile che ripone nella scelta, e nell’esecuzione, del rigore più importante della sua carriera.

Il potere attrattivo di Omar «Amoory» Abdulrahman, dopotutto, è tutto qui, in questo rigore: nella tensione tra il potenziale espresso e quello inespresso, e nei motivi per i quali ci dovremmo meritare tutto questo presunto spreco di talento, ammesso che di spreco si possa parlare.

Secondo desiderio: diventare un Poster Boy, anzi un’icona.

Nato a Riyad, in Arabia Saudita, da genitori con origini yemenite di Hadramout, negli Emirati Omar c’è finito per quel tipo di caso foraggiato dall’opportunità: l’Al Hilal, la maggiore squadra di Riyad, voleva inglobarlo nel suo settore giovanile, e per cercare di convincerlo gli ha proposto la cittadinanza saudita. L’Al Ain, invece, ha allargato l’offerta di cittadinanza, oltre che a lui, a tutti i suoi familiari, ai genitori e ai due fratelli, anche loro calciatori, anche loro in forza all’Al Ain.

In prima squadra ha esordito nel 2008, quando aveva solo 17 anni, gettato nella mischia da Winnie Schäfer. Nonostante esista un modo di dire, ad Abu Dhabi, che recita «quel che si cuoce in fretta, è mezzo crudo».

«È un ragazzo con uno spiccato senso per la famiglia», spiega Schäfer. «Per questo si è innamorato degli Emirati, e dell’Al Ain».

In uno stato come gli Emirati Arabi Uniti, in cui i cittadini sono circa il 10% dei residenti, costruire un vero senso d’appartenenza è un’impresa che richiede, a monte, una grande quota di riconoscenza: «forse è una delle ragioni per le quali non ha mai fatto davvero pressioni per trasferirsi all’estero», spiega ancora il tecnico tedesco parlando di Amoory. «E sapete cosa? Lo capisco, e penso anche che non sia affatto una scelta irragionevole. Certo, lo aiuterebbe a migliorare mettersi in gioco in Europa; ma è anche un rischio. Difficilmente troverebbe spazio in una grande società, avrebbe bisogno di un buon agente, di un periodo di adattamento, del giusto ambiente, di un buon allenatore e di molta pazienza. Magari, invece, è semplicemente felice lì dov’è».

Non dovrebbe sentirsi orgogliosa, l’Asia, di aver cresciuto uno dei suoi migliori calciatori sul proprio territorio, senza vederlo costretto ad espatriare?

Non dovrebbe andar fiera di tutto questo amore reciproco?

First I would like to say thanks to all the fans and I promise all of u to do everything to makes u happy 💜🙏💜

Una foto pubblicata da Omar Abdulrahman (@amorry10) in data: 26 Gen 2016 alle ore 12:00 PST

All’epoca dei Giochi Olimpici di Londra, Abdulrahman aveva già esordito, ovviamente, anche nella Nazionale maggiore, l’anno precedente, in una partita contro la Siria. Dopo la fugace ma impressionante parentesi britannica, un po’ cavalcando l’hype un po’ accorgendosi con colpevole ritardo di aver scoperto un’oasi dorata all’interno di un deserto di mediocrità, ESPN lo ha piazzato tra i migliori giocatori d’Asia; il magazine Arabian Business lo ha addirittura inserito tra le 200 personalità arabe più influenti al mondo, ma Amoory ha avuto la costanza di perseguire un personalissimo percorso di coerenza. Ha saputo legarsi, con nodi ben stretti, all’albero maestro del suo veliero viola, resistendo alle sirene del cosiddetto Grande Calcio.

Come i tratti conturbanti nascosti dietro un hijab tradizionale di una ragazza che passeggia all’ombra dei grattacieli ultramoderni di Abu Dhabi, la complessità del fenomeno Abdulrahman, forse, è più difficile da cogliere e interpretare solo perché ricoperta da una coltre di sovrastrutture e contraddizioni.

La sua è un’iconicità artificiale, apparentemente costruita a tavolino: la capigliatura, la velocità iperuranica, le skills estreme ne fanno un calciatore che sembra uscito dal DIY di un videogame.

Amoory ha un’idea tutta sua del concetto di calciatore, che interpreta come qualcosa a metà strada tra il ruolo di ambasciatore e quello di giullare di corte.

È innegabile che, almeno in patria, goda di uno status di autorevolezza inscalfibile; ma non è solo una questione di località. Le foto del suo account Instagram in cui è immortalato con grandi campioni sono leggermente diverse da ogni scatto che racchiude idolo e groupie nella stessa inquadratura: al di là del glamour non si avverte mai uno squilibrio di carisma, il rapporto non è sbilanciato, c’è pariteticità. Se indossa una maglia del PSG per andare a prendersi un caffè rischia di essere scambiato per un calciatore del PSG che ha deciso di prendersi un caffè a Dubai.

Amoory sembrauno di loro. E non mi sento di escludere che non lo sia davvero.

Forse per questo appare estremamente a suo agio anche in situazioni potenzialmente imbarazzanti, cioè quando le grandi stelle del calcio mondiale fanno tappa negli Emirati e lo invitano a partecipare a quel tipo di tornei di calcetto simili alle esibizioni circensi degli elefanti ammaestrati: che si tratti di Zidane o Davids o David Luiz, Omar c’è sempre, non saprei ben dire se per volontà di sentirsi parte di quella categoria di eletti o per semplice accondiscendenza agli sceicchi, allo stesso tempo suoi benefattori, regnanti e datori di lavoro.

Omar si presta. Non importa se per stupire, per sbalordire, o anche per sfidare il senso del ridicolo: dopotutto sono esattamente le stesse sensazioni che sono chiamati a suscitare gli elefanti ammaestrati.

Qua, con David Luiz, dopo la Rappresentativa Dei Riccioluti sfida una selezione di Ciccioni.

Di sicuro deve avvertire l’aura di semileggendarietà che già lo pervade (e non dovremmo mai perdere di vista il fatto che stiamo sempre parlando di un calciatore emiratino che milita nella Gulf League): nell’edizione araba di FIFA ’16 compare in copertina insieme a Neymar, e anche negli spot non dà l’impressione neppure per un attimo di sentirsi a disagio, fuori luogo, non sembra temere per niente l’iperbole che lo travolge quando chiama a giocare al suo fianco, dal divano del salotto, Baggio o Kahn nella sua squadra di leggende. Che ovviamente include anche lui.

Omar Abdulrahman, più che l’impressione di essere un animale in cattività, è riuscito a ritagliarsi un ruolo da icona glocal.

Viene allora naturale provare a chiedersi se la sua permanenza, tutt’altro che forzata, negli Emirati non possa essere un esperimento di sovvertimento culturale.

Terzo desiderio: trovare il proprio posto al mondo.

Dopo le Olimpiadi del 2012 il Manchester City ha proposto a Amoory un periodo di prova, al termine del quale gli è stato offerto un contratto quadriennale: la storia ufficiale dice che una serie di complicazioni burocratiche relative ai permessi di lavoro in Gran Bretagna abbiano fatto sfumare l’accordo, ma c’è anche una versione alternativa secondo la quale sarebbe stato lo stesso Abdulrahman a rifiutare il trasferimento; un diniego simile a quello riservato al Benfica, un semestre più tardi, che all’Al Ain lo aveva chiesto in prestito.

Un altro proverbio emiratino dice: «l’inganno non apre alcuna porta».

I motivi dietro il mancato trasferimento di Abdulrahman in Europa potrebbero essere, e sicuramente saranno, molti: ma nessuno è troppo chiaro, o del tutto esaustivo.

Tradizionalmente i padroni dei club emiratini sono riluttanti a lasciare andar via i propri giocatori, più per una questione di morboso attaccamento materiale che altro.

Nel 2006 Faisal Khalil, uno dei più promettenti prospetti del calcio del golfo dell’epoca, era volato in Francia per firmare un contratto con lo Châteauroux. La società che deteneva il suo cartellino, l’Al Ahli, si era opposta, e il fatto che il proprietario dell’Al Ahli fosse il principe ereditario di Dubai aveva fatto sì che la federazione calcistica emiratina bloccasse il trasferimento (più tardi Faisal sarebbe stato incriminato di servirsi della magia nera contro potenziali concorrenti al suo posto in Nazionale, ma questa è un’altra storia).

Ma i proprietari del City hanno legami strettissimi con la casa regnante, organizzano amichevoli negli Emirati, nessuna strada sarebbe stata meno accidentata, per il transito di Amoory in Europa, di quella che passa per gli Sky Blues.

A volte, invece, sono gli stessi calciatori della penisola arabica a non voler neppure prendere in considerazione l’ipotesi di un allontanamento. Star del jet-set locale, superpagati e con salari liberi da ogni forma di tassazione, liberi di comportarsi in campo come meglio credono: affrontare di petto l’incognita di un trasferimento in un universo culturale, prima che calcistico, spesso molto distante in parte è spaventoso, in parte semplicemente poco allettante.

Yasser al-Qahtani, nel 2007, trascorse un periodo di prova sempre con il Manchester City. Il saudita, Giocatore d’Asia in carica, arrivò nella città mancuniana con un grande entourage, durò due settimane, tornò millantando che l’Al Hilal avesse ancora troppo bisogno di lui. Chiuse la conferenza stampa dicendo «Ma ho ancora molte richieste per il futuro, e sono sicuro di poter sfondare in Europa».

Trattenendo Abdulrahman in casa, però, gli sceicchi non stanno rischiando - costringendolo a un’inevitabile stagnazione di crescita tecnica - di depauperare un patrimonio ricchissimo?

Perché allo stato attuale Omar Abdulrahman, davvero, è molto più di un pesce grande in un piccolo stagno: è più un plesiosauro in una tazzina da caffè.

«Omar Abdulrahman può giocare in ogni parte del mondo», ha detto di lui Javier Aguirre dopo aver visto il suo Giappone eliminato dal talento di Amoory. «Ma molto dipende dal suo stile di vita, dal tipo di pressioni che vuole. Se vuole uscire dalla sua comfort zone». Henk ten Cate, Sabri Lamouchi, Xavi: chiunque abbia avuto modo di osservarlo da vicino, dal campo o dalla panchina, sa che tipo di giocatore sia Amoory, e non perde occasione per tesserne le lodi, auspicandone il presunto salto di categoria. Che nella visione tradizionale dell’europeo expat negli Emirati, ovviamente, sarebbe sbarcare in Europa.

Ma Abdulrahman è anche un giocatore complicato su cui puntare. Si è già rotto per due volte, nel 2010, i legamenti crociati, e sulla sua testa è come se sventolasse una grande bandiera rossa: ha la resilienza necessaria per adattarsi, soprattutto fisicamente prima che tatticamente, a un contesto ipercompetitivo, molto più esigente rispetto a quello a cui è abituato?

E poi dal suo modo di giocare, dalle scelte che compie in campo, dal rapporto con i compagni e il suo pubblico quel che si capisce è che a Omar piaccia avere carta bianca: sbagliare senza timori nel tentativo di migliorare le sue tricks, in ultima istanza divertirsi.

Forse è questa idea di Grande Bellezza Negata (la media spettatori dell’Arabian Gulf League è di 2500 a partita) l’aspetto più frustrante dell’esperienza-Amoory.

A meno che non cominciamo a pensare a lui come un eroe crepuscolare che sfida il sistema calcistico eurocentrico, imparando ad ammirarne la capacità di resistere alle tentazioni di una mossa quasi obbligata. «Il sogno di ogni calciatore è giocare per un grande team», ha dichiarato recentemente; «sono ancora giovane, e so di dover raddoppiare ogni mio sforzo per raggiungere questo obiettivo. Ma non c’è nessuna data specifica, per il corso della mia carriera; la prenderò come viene. So che in questo ho il pieno supporto dei nostri sceicchi».

La sua carriera sfida, per certi versi, il concetto stesso di gioco globale del quale il calcio vorrebbe fregiarsi: dal suo punto di vista, se a contare deve essere la qualità nuda e cruda del gioco, che differenza c’è tra la Champions League della UEFA e quella della AFC?

Nella doppia sfida delle semifinali di Champions League asiatica (vincerla vorrebbe dire affrontare da subito, in semifinale della FIFA Club World Cup, il Real Madrid), contro i qatarioti dell’Al-Jaish, Amoory è stato protagonista indiscusso, troppo al di sopra della media degli avversari, troppo più decisivo: all’andata ha servito due assist e segnato una rete stupenda su calcio di punizione, oltre a offrire un saggio, l’ennesimo, del suo swag. Nell’esaltazione del cronista sembra affiorare la parola “sciamano”, più sicuramente c’è un qualche riferimento a Messi. Amoory accenna anche un passo di dab.

Al ritorno ha orchestrato e finalizzato la transizione che ha portato in vantaggio (e in finale) l’Al Ain, lasciando di sasso anche Seydou Keita.

In entrambe le gare è stato insignito del titolo di Man of the match, per la settima e ottava volta in dodici partite giocate.

Dopotutto non ci si può aspettare niente di meno che sia sempre il migliore, da un Maradona della sabbia.

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