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Il livello di disperazione di Daniil Medvedev
26 ago 2025
Agli US Open un picco di disagio e malessere.
(articolo)
7 min
(copertina)
Foto IMAGO / Anadolu Agency
(copertina) Foto IMAGO / Anadolu Agency
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«Stato d’animo di chi non ha più alcuna speranza ed è perciò oppresso da inconsolabile sconforto e da grave abbattimento morale», è la prima definizione della parola disperazione che si legge su Treccani. Una descrizione chiarissima e breve che contiene dentro di sé un mondo. Stando al dizionario sotto la parola disperazione ci transitiamo o potremmo transitare tutti quanti, almeno una volta nei casi più fortunati. Eppure, nella vita reale non la usiamo quasi mai. Diciamo di noi: sono depresso, sono triste, sono addolorato; cose come non ne posso più, sto impazzendo e così via. Lasciamo la disperazione alla letteratura, nei libri la si trova molto più spesso, perché si tratta di una parola molto precisa che tratteggia bene un momento o un personaggio. La letteratura per esercitare bene il diritto alla fantasia e all’invenzione ha bisogno di precisione. Di uno scrittore come Bolaño potremmo riassumere l’intera opera sotto il tetto della disperazione. In un libro che sto leggendo in questi giorni, un western di Glendon Swrthout – L’accompagnatore, Jimenez edizioni, traduzione di Gianluca Testani- viene usata almeno tre volte e differenti situazioni e personaggi, in tutti e tre i casi non ci sarebbe stata parola migliore. Nella vita non la usiamo quasi mai, neppure nelle situazioni più drammatiche, perché mai dovrebbe venirci in mente per uno sportivo affermato e molto ricco? Non lo so, eppure è questa parola che abbino quando penso agli ultimi due anni della carriera di Danil Medvedev, tennista che non ho mai amato e che per il quale adesso provo un senso di simpatia, e certe volte – come nel caso del disastro dell’eliminazione al primo turno degli Open – qualcosa che assomiglia alla commozione e addirittura a qualcosa di simile alla pietà. Parole grosse ma che riconduciamo sempre nell’ambito dello sport.

Danil Medvedev da tennista russo si è trasformato rapidamente in personaggio da romanzo russo. È profondamente Dostoevskijano, malinconicamente Tolstojano, ironicamente Čechoviano, ma fonde tutto questo in una disperazione che pare uscire fuori dai versi di Marina Cvetaeva, o da quelli di Anna Achmátova. Tutto ciò che sta accadendo nella sua parabola è triste ma è allo stesso tempo sublime, resterà indimenticabile. Medvedev - quando insulta l’arbitro, quando incita in maniera esagerata il pubblico, quando fa a pezzi l’ennesima racchetta – pare dirci (e dirsi), con i versi di Cvetaeva: «Solo non stare così tetro / la testa chinata sul petto. / Con leggerezza pensami / con leggerezza dimenticami». Eppure, sa che non lo dimenticheremo né per gli anni del suo splendore sportivo né per questa deriva che ha imposto (sembrerebbe) alla sua carriera. Ti vogliamo bene, Danil, di colpo e forse per sempre.

Come nella definizione del dizionario, Medvedev è evidentemente preda di un inconsolabile sconforto, né è oppresso quasi senza saperlo. Non è pazzo, è romantico, agisce in maniera inconscia. Il suo inconscio però segue uno schema rigoroso.

Di certo trovarsi nella terra di mezzo, dopo il trio Federer – Nadal – Djokovic e l’attimo prima del duo Sinner – Alcaraz è stato il più terribile dei traumi. Giochi molto bene, diventi il numero 1, vinci uno Slam e pensi: Hey, adesso ci sono io. Ma poi ti accorgi che questa sensazione è durata – in ere tennistiche – poco più di un quarto d’ora. Da quei giorni, in maniera più sfumata, e poi in modo sempre più chiaro dalla sconfitta del 2024 in finale agli Open d’Australia contro Sinner. Quel giorno era in vantaggio di due set, poi Sinner si è trasformato in Sinner e niente è stato più come prima per il circuito e anche per Medvedev. Da quel giorno in avanti il russo ha giocato bene solo qualche volta, che in due anni potremmo sintetizzare in una decina di giorni. Le cose per lui sono andate male anche quando ha giocato molto bene e sono andate male perché il suo inconscio disperato ha voluto che andassero male.

La mia è solo una teoria che non si basa su nulla, se non su una minima capacità di osservare e un filo di poesia. Io credo che a Medvedev piaccia tuttora giocare bene, vincere, dominare. Credo che desideri ancora parecchio arrivare alle semifinali e finali di Master 1000, vincere un secondo Slam. Ma la sua mano destra che impugna la racchetta per colpire, la sua mano destra che sfascia poco dopo la stessa racchetta, il suo linguaggio fatto di gesti e parole rivolte agli avversari, agli arbitri, al pubblico, a sé stesso, i colpi facili sbagliati di un niente, i punti buttati via, le partite perse senza un motivo apparente, perfino il modo in cui si porta la bottiglia alle labbra per bere ci dicono tutt’altro: lui vuole perdere e vuole perdere più in fretta possibile, perché andando avanti, nei turni che contano non c’è più modo per lui di battere i migliori, di giocarci alla pari. Meglio litigare, passare per pazzo e farsi buttare fuori dal primo sconosciuto che passa dalla altra parte della rete, che giocare bene, benissimo, arrivare in finale e perdere 3 set a 0 contro i soliti due, o da quelli appena più dietro. Medvedev è un romanzo, spero che rimanga nel circuito ancora a lungo.

Veniamo al primo turno degli Open Usa di quest’anno, lo facciamo solo perché la vicenda è appena accaduta e perché sintetizza bene come lavora l’inconscio di Medvedev e mostra nei fatti quale sia il suo livello di disperazione. Kvara è Majakovskij si leggeva sui muri di Napoli, e da qualche parte si legge ancora, ma la storia sportiva ci dice che Medvedev è Majakovskij, nel bene e nel male, e forse la frase andrebbe scritta su un muro di New York.

La storia è nota, Bonzi (ma possiamo metterci il nome che ci pare) sta vincendo 2 set a 0 e ha un match point. Se mettesse la prima di servizio e facesse punto, con ogni probabilità Danil e il suo inconscio se la metterebbero via. Saluti a tutti, qualche scuotimento di testa, solita conferenza stampa con qualche battuta di alleggerimento e così via. Però c’è il fotografo, l’impacciato fotografo che dopo il richiamo dell’arbitro vorrebbe sparire. Fotografo di cui Bonzi non si accorge, mette la prima in rete perché succede: l’emozione, la tensione. Mentre si prepara al secondo servizio l’arbitro interviene, richiama il fotografo e assegna di nuovo la prima di servizio a Bonzi (che forse io non avrei dato) a quel punto si scatenano i demoni di Medvedev, lupi che saltano fuori dalla steppa e inveiscono contro l’arbitro, aizzano il pubblico. Danil scatena qualcosa di straordinario, di malefico, di divertente e di disperato. Lo fa perché si attacca a questo inghippo per salvarsi, per provare a rientrare in partita. Pausa. Non è vero questo lo avrebbe fatto il Medvedev di due anni fa. Lo fa perché è disperato, perché i sei minuti che seguiranno – e che i giornali di tutto il mondo hanno sintetizzato (semplificando) sotto il nome di follia – sono il tempo che lo schema del suo inconscio insegue per perderla sul serio, di brutto, in maniera sguaiata. Perderla in modo tale che nessuno poi dovrà pensare al fatto che ha giocato male (farà diversi punti bellissimi), perderla così che tutti dicano: è impazzito. Ah, sweet Danil. Bonzi si disunisce, cede il set e perde con un bagel quello successivo. Ma tutto questo a Danil non interessa, lui vuole incappare nell’errore, lui vuole cedere alla disperazione e perdere. E infatti perde, in maniera che per altri sarebbe routine, al quinto set. E perciò ciò che accade dopo è sceneggiatura. L’inesorabile sbattimento della racchetta fino a stordirla, prima ancora di distruggerla non è delusione per la sconfitta fa parte dello show. Vuole dire, in altri termini, ci sono riuscito, guardate quanto sono disperato, guardatemi bene. È terribile ma non è patetico. In fondo a tutto questo c’è un dolore e l’incapacità di tornare a riprodurre il gioco di un tempo. La precisione di Medvedev ha lasciato il posto alla sua dissoluzione. Arrivare sempre tardi sulla palla, tra dentro la riga e oltre la riga scegliere sempre la seconda opzione.

«[…] E c’è una letteratura per quando sei disperato. Quest’ultima è quella che volevano fare Ulises Lima e Belano», scrive Roberto Bolaño nei Detective selvaggi (Adelphi, traduzione di Ilide Carmignani). La letteratura che volevano fare Lima e Belano è di certo quella che adesso sta provando a fare, spesso riuscendoci, Danil Medvedev.

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