«Se ti muovi e fai un taglio, Bill trova sempre il modo di farti ricevere il pallone.
È il miglior passatore che abbia visto in vita mia»
Larry Bird
Se nelle squadre di college il nome dell’università ricamato davanti la maglia è più importante del giocatore impresso sul retro, per il basket NBA dovete rovesciare il principio di base applicando il suo esatto contrario. Si tratta di uno stereotipo banale ma efficace, una formuletta nozionistica e frammentaria che cristallizza la differenza tra i due piani della palla a spicchi negli Stati Uniti. Ciò nonostante, ci sono ovviamente delle clamorose eccezioni che per la loro unicità in qualche modo tendono a confermare questo principio: William Theodore Walton III, meglio noto come Bill Walton, ne è forse l’esempio migliore.
Per diversi anni il “Grande Rosso” è stato il centro di gravità permanente di una istituzione solida come UCLA al suo massimo storico, dettando idealmente gli ordini del giorno in un ateneo più importante della maggior parte delle squadre del precario circuito professionista. UCLA era il modello di sport universitario per antonomasia – non a caso era la prima scelta ideale del giovane Michael Jordan prima di approdare a North Carolina – ma per qualche tempo è stata letteralmente presa in ostaggio da un mito cementato in un lampo. Quello di Walton fu un impatto collegiale senza precedenti, tanto da spingere la ABA a progettare una franchigia costruita intorno alla sua figura a San Diego. Secondo una leggenda metropolitana, un gruppetto di psicologi camuffati da reporter si aggirava nel campus per studiare il metodo di reclutamento più efficace: uno stratagemma disperato ma in linea con le stravaganze della American Basketball Association.
Per ottenere i suoi servigi e stralciare la concorrenza, i dirigenti NBA hanno valutato di gettare alle ortiche buona parte delle regole elaborate con fatica per favorire lo sviluppo delle franchigie minori. Per molto tempo nella “stanza dei bottoni” si è discusso su come e quanto agevolare un eventuale approdo ai Lakers pur di primeggiare nella singolare guerra tra i due mondi della pallacanestro professionistica. Se Earl Manigault – il leggendario “Goat”, il re buono di Harlem – poteva camminare per il quartiere senza un penny e chiedere ciò che voleva, a metà anni ‘70 Walton poteva cambiare la geografia del gioco con una semplice telefonata.
Circondato da un delirio mediatico terrificante, paragonabile alle attenzioni divise equamente anni dopo dal duo Magic/Bird, Walton ha spesso deluso le attese di chi ha cercato di cucirgli addosso un personaggio spendibile per i gusti del grande pubblico. Il californiano è sempre andato dritto per la sua strada, rinunciando a interpretare il ruolo di salvatore della disastrata e fantasiosa pallacanestro nordamericana degli anni ‘70.
Crolli, rinascite, nuove cadute; un’altalena senza soluzione di continuità ha segnato la parabola del pivot più meravigliosamente atipico e infortunato di tutti i tempi. Secondo calcoli attendibili sono ben trentasette le operazioni chirurgiche a suo carico, unite ad una serie di complicazioni che hanno mandato in corto circuito la maggior parte degli specialisti che hanno cercato di salvare (per quanto possibile) la sua carriera. Un percorso accidentato, contrassegnato da vette assolute, sorprendenti rovesci e una influenza sul gioco davvero profonda al di là dei minuti effettivamente passati in campo.
Una leggenda sportiva con un background singolare
Il “Grande Rosso” nasce e muove i primi passi nei sobborghi di La Mesa, nei pressi di San Diego. Dalla madre bibliotecaria eredita la passione della lettura, si appassiona a un numero infinito di argomenti e si dimostra avido di informazioni riguardo ogni aspetto delle cose che lo circondano. La sua curiosità è immarcabile, è un sorta di Nerd ante litteram: non socializza molto facilmente a causa di una fastidiosa tipologia di balbuzie (superata con molti sforzi) ma è da subito chiaro il suo innato talento per lo sport. Per Bill diventa una forma di espressione ideale che in qualche modo restituisce un senso a una statura molto generosa, altro fattore che lo mette in imbarazzo con i coetanei. Matura una sensibilità e una riservatezza spiccata, che contrasta con la spietata efferatezza che dimostra quando giostra sul campo.
Il materiale aurifero del talento è facilmente rintracciabile da principio con un diabolico assemblaggio del fondamentali. Lasciate stare le storie disseminate di lavoro feroce per emergere: la naturalezza con cui apprende, modifica e reinventa pallacanestro è senza pietra di paragone. La svolta avviene durante il recupero dal primo grande infortunio: a 14 anni, dopo un incidente al ginocchio successivo a una partitella al campetto, è costretto a operarsi e a diversi mesi di permanenza forzata in un letto, ma in questo periodo di convalescenza passa da 185 a 205 cm. Il suo arsenale diventa sostanzialmente illegale: a un talento naturale e smisurato viene fornito in dotazione un fisico poco resistente, ma in grado di assecondare e valorizzare i suoi impulsi cestistici.
Quando torna, fa volare il suo liceo sul parquet. La Helix High School si assicura il titolo per due anni di fila e vince senza troppi problemi le ultime 49 partite disputate. Deambulare correttamente è spesso un problema e per tutelarlo dalle ruvidezze avversarie interviene il fratello (atleta polivalente e successivamente discreto professionista NFL) per fare coppia con lui vicino al ferro. Domina con irrisoria facilità nonostante l’andatura caracollante e una fisicità a scartamento ridotto. Le offerte di borse di studio ovviamente fioccano e reclutatori famelici arrivano da ogni parte del paese; la stampa lo scopre piuttosto in ritardo rispetto agli addetti ai lavori, limitando inizialmente il suo eco complessivo sul pubblico.
Per capire meglio il suo dominio basta dissezionare qualche freddo numero. La percentuale al tiro si assesta a quota 79%, un picco che gli assicura agevolmente il primato storico per la Helix. Ad impreziosire il quadro complessivo si deve aggiungere la quota rimbalzi assoluta che gli garantisce il terzo posto ogni epoca della storia dei tornei liceali statunitense. Prodezze che gli valgono un riconoscimento davvero inusuale per un teenager: alla tenera età di 17 anni è infatti convocato dalla squadra nazionale USA per disputare i mondiali FIBA del 1970 (dove incrocia Dino Meneghin e Charlie Recalcati), un evento più unico che raro nella storia della prestigiosa nazionale stelle e strisce. Una manifestazione molto importante per gli azzurri, in grado di vincere per la prima contro gli Stati Uniti formati principalmente da giocatori professionisti nel vecchio continente.
La straordinaria avventura ad UCLA (1971-1974)
UCLA si assicura i suoi servigi e lo spedisce a bottega del leggendario coach John Wooden che sul suo conto ha accumulato delle referenze incredibili per un semplice teenager. Raccomandazioni talmente buone, e per giunta veritiere, da scatenare una serie di piccoli e grandi divertenti equivoci all’interno di uno degli staff più celebrati del paese. Per ironia della sorte, l’erede ideale di Lew Alcindor (pilastro che lo ha di poco preceduto) è distante qualche ora di automobile.
Walton non lavora soltanto al suo sviluppo sportivo. Cullato da un contesto familiare che lo aiuta e incoraggia a ricevere più “input” possibili, è naturalmente influenzato e attratto dallo spirito californiano del tempo. Abbraccia presto gli ideali della controcultura, i costumi e la filosofia tipiche del mondo hippie. Diventa un cultore di Bob Dylan, dei Grateful Dead e di John Lennon. Da appassionato carnivoro decide di virare verso una elaboratissima dieta vegetariana e naturalmente si schiera contro la guerra in Vietnam. Si oppone in generale alla violenza politica e sociale e al razzismo (ancora molto radicato nel basket ai tempi) per abbracciare una condotta personale orientata alla pace e all’assoluta libertà individuale. Ama gironzolare in montagna per cercare il contatto con la natura ed è un avido surfista. È pure un ciclista di discreto spessore. Ha più sfaccettature di un diamante, una quantità di interessi assolutamente fuori dal comune e un carattere illeggibile, spesso incostante.
“Big Red” mostra la sua vena ribelle e anticonvenzionale anche quando indossa la divisa da gioco. Non appena torreggia sui malcapitati avversari per un rimbalzo difensivo, è praticamente già scattato il contropiede. Anticipa di circa 20 anni a suo modo (ma quasi da fermo, viste le necessità) le abilità di Jason Kidd, alimentando regolarmente il gioco senza palla dei compagni con dei passaggi a tutto campo che lasciano a bocca aperta anche il navigato Wooden. Il gioco “fastbreak” dei californiani è una delizia per gli occhi e spacca le partite con mefistofelica regolarità. Walton è un “point center” in grado di comprendere e manipolare il corso delle gare come un direttore d’orchestra. Va oltre la produzione di assist o giocate: disegna scenari di pallacanestro inediti.
Ovviamente non tutto è rosa e fiori. La violenza gratuita tollerata negli anni ‘70 lo espone in continuazione a malanni fisici di ogni genere: gli avversari si lamentano della sua tutela in sede di arbitraggio, ma in realtà accumula sul groppone almeno un paio di colpi proibiti a partita. Al posto del normale allenamento è costretto a sottoporsi a un noioso e lunghissimo ciclo di terapia caldo/freddo: impacchi caldi e successivamente borse del ghiaccio per dare sollievo alle martoriate ginocchia. Quando il calendario si infittisce, aumentano i problemi/dolori e il consumo di medicinali. È un pioniere, suo malgrado, della somministrazione massiccia di antidolorifici di ogni tipo.
Un altro aspetto distintivo della sua onniscienza cestistica è la lucidità delle letture difensive sin da un’età molto verde. Il suo mentore gli concede idealmente le chiavi della celebre difesa 2-2-1 zona press: dirige l’intera squadra, correggendo con maestria gli errori di posizionamento dei compagni. Il Totem dei californiani è anche un efficace intimidatore (forse uno dei pochi aspetti classici del suo bagaglio tecnico) e le sue doti di stoppatore consentono al resto della truppa di rischiare una palla rubata senza troppi patemi.
Nel suo gioco ci sono elementi che anticipano Arvydas Sabonis, strizzano gli occhi ai punti di forza dei fratelli Gasol e poi di Nikola Jokic, con delle peculiarità specifiche (il tiro appoggiato al tabellone o la stoppata con recupero, ad esempio) poi reinterpretate da entusiasti studenti del gioco come Tim Duncan. È regista di gioco con due metri e quindici in dotazione e con feroce voglia di difendere: il gioco di Walton è un vinile ricco di sfumature e variazioni tutte da scoprire, prezioso ed estremamente fragile, da maneggiare con la dovuta cura.
Il suo bilancio collegiale è straordinario, un aggettivo che in questo caso è persino riduttivo. Arrivano due stagioni “perfette” (una passata ai box, come tradizione del tempo per le matricole) senza alcuna sconfitta e due titoli nazionali (1972 e 1973), con l’ultima finale impreziosita da una delle prestazioni più impressionanti mai ammirate alle Final Four, visto che mette a referto un incredibile 21/22 dal campo contro la malcapitata Memphis State. La striscia di vittorie consecutive arriva fino a 88, cancellando ogni record registrato in precedenza. Quando il fisico smette di assecondarlo anche al minimo sindacale arriva la prima bruciante sconfitta in carriera: con la schiena in fiamme e costretto a indossare un busto ortopedico a causa di un brutto fallo subito nella partita precedente, Walton si arrende per la prima volta agli avversari. La magia si interrompe bruscamente, fallisce quindi la rincorsa al titolo nella stagione 1974 anche a causa dei suoi malanni. Può essere considerato il miglior cestista collegiale di ogni epoca assieme a Pete Maravich e Lew Alcindor.
Se consideriamo anche gli ultimi due anni al liceo non ha conosciuto sconfitta per quasi cinque anni, sempre allacciandosi le scarpette in una forma fisica tragicomica e quasi mai riuscendo ad allenarsi con costanza. Il record complessivo NCAA recita un irreale 86-4 con 1.767 punti (20.3 di media) e 1.370 rimbalzi (buoni per superare il record di Jabbar/Alcindor) al suo attivo.
È un personaggio assolutamente allergico alle etichette, alle strumentalizzazioni ed ovviamente a ogni tipo di “establishment” che cerca di combattere in tutti i modi. Si fa arrestare durante una manifestazione di protesta per il Vietnam (poi rilasciato anche grazie ai buoni uffici di Wooden); in qualche occasione si prende la briga di urlare e sbraitare contro il rettore di UCLA durante varie proteste all’interno del campus; rischia un paio di volte l’espulsione ma nessuno ha concretamente il coraggio di prendere seri provvedimenti vista la rilevanza nazionale.
Gli approcci aggressivi della ABA cadono nel vuoto, come facilmente prevedibile. Indirizzato dallo staff di UCLA (in pessimi rapporti con la lega “alternativa”) e desideroso di confrontarsi con la pallacanestro più autorevole possibile, Walton consente alla NBA di tirare un clamoroso sospiro di sollievo. Finisce ai Portland Trail Blazers che per lui sfruttano la prima scelta assoluta del Draft 1974, selezionandolo senza battere ciglio alla ricerca di un salvatore della patria. I vertici della lega spingono per uno scambio a vantaggio dei Sixers (Philadelphia l’anno precedente aveva cercato senza successo di convincerlo a lasciare in anticipo l’università con un corteggiamento serrato) ma contro ogni logica previsione la squadra locata in Oregon riesce a metterlo sotto contratto.
Il suo grande rifiuto alla ABA è uno dei motivi per cui l’associazione alternativa è costretta a chiudere mestamente i battenti. Sfumato un accordo per il contratto televisivo nazionale, l’avventura è destinata a chiudersi a causa di problemi economici. La fusione tra le due leghe appare inevitabile, e le conseguenze dell’unificazione influenzeranno la sua carriera attraverso una curiosa e ricorrente serie di “sliding doors”.