Il Grande Unicorno Rosso
Come e perché Bill Walton ha cambiato l’inerzia del gioco.
Nella prigione dorata di Sterling (1979-1985)
I vertici della lega intervengono per cercare di risolvere la pericolosa situazione di empasse. Trovare un accordo con gli Warriors risulta impossibile; la soluzione di ripiego è la nativa San Diego, al tempo casa dei “neonati” Clippers. Per sbloccare lo scambio i californiani pagano un prezzo molto alto: Kermit Washington, Kevin Kunnert, una prima scelta e una compensazione di 350mila dollari. Considerate le sue condizioni fisiche, è una trade che il resto dei giocatori dei Clips accoglie con malcelato malcontento.
Il Grande Rosso si accorda per un compenso record di 7 milioni di dollari per sette stagioni, una cifra che il proprietario Irv Levin concede senza mercanteggiare, convinto di cambiare per sempre l’immagine della squadra con il prestigioso ingaggio. L’ambiente in effetti viene preso d’assalto dalla stampa sportiva, con un felice ritorno d’immagine nel breve periodo. Walton conquista la copertina di Sport Illustrated per la presentazione della stagione 1979-80 e rilascia un’intervista-fiume in cui cerca di sfatare tutti i miti negativi che aleggiano sul suo conto.
L’aria di casa e le sue montagne favoriscono un radicale cambiamento. Ricomincia a mangiare la carne, smussa notevolmente gli angoli con i media, sfrutta l’estate per lavorare sul suo fisico come mai in precedenza. Abbandona la barba da santone e adotta un taglio di capelli molto più sobrio. Dismette i panni dell’attivista e si trasforma nella figura bonaria e rassicurante che conosciamo oggi. Si allontana gradualmente da Scott, comincia timidamente a frequentare il bel mondo e sfoggia un abbigliamento più curato del solito.
Le premesse sono eccellenti da tutti i punti di vista; la conclusione è un disastro. Dopo qualche comparsata in preseason l’osso navicolare cede nuovamente: la stella dei Clippers è in grado di disputare solamente 14 partite nella prima stagione con la nuova casacca. Nei due anni successivi (in cui la squadra va malissimo) è costretto a passare più tempo in ospedale che a casa. Impossibile giocare. Si riabilita e si infortuna di nuovo con velocità terrificante.
Nel 1981 si convince a provare una serie di interventi ricostruttivi per cercare di risolvere la situazione del suo piede sinistro ormai seriamente compromesso. Il recupero è lungo e complesso e molti specialisti maturano la convinzione che la sua carriera sia semplicemente finita. I compagni di squadra malignano a proposito di “malattie immaginarie” visti i tempi di recupero e la convalescenza in cui è spesso costretto al riposo assoluto.
Levin è furioso e incapace di risalire la china: ci sono pettegolezzi sulla sua intenzione di abbandonare la squadra, situazione di cui approfitta Donald Sterling che rileva la franchigia per 12.5 milioni di dollari. Si susseguono cause legali del vecchio proprietario nei confronti di Walton e dei suoi dottori, mentre si trascina da tempo quella tra Bill e il medico dei Blazers. Il capolinea è all’orizzonte. Dietro l’angolo c’è invece una nuova rinascita.
Alla fine dell’estate del 1982, dopo due anni e mezzo di dolorose operazioni chirurgiche e contro il parere della quasi totalità di vari luminari ortopedici, il Grande Rosso comunica di essere pronto per affrontare il training camp. La risalita è lenta, costante e francamente sorprendente.
Tre stagioni di paziente affinamento fisico e di lavoro sul campo pagano preziosi dividendi e progressivamente il numero di partite giocate raggiunge una quota apprezzabile, dimostrando di essere tornato a un livello di gioco più che soddisfacente. Non è più in grado di influenzare il destino di una squadra, ma riesce a incidere in modo significativo sull’andamento delle partite. L’introduzione del tiro da tre punti varia il gioco nel modo a lui più congeniale: sa di avere poco tempo per vincere ancora e alla soglia dei 32 anni cerca di approdare ad una contendente al titolo. La sua lunga assenza e il tempo necessario per recuperare ha praticamente ucciso il progetto della NBA a San Diego, uno dei più grandi rimpianti della carriera. I primi approcci con Sterling (deciso a forzare la mano per un trasferimento illegale a Los Angeles della franchigia) lo esortano a cambiare aria con grande determinazione.
L’ultima corsa con Boston (1985-1990)
Seguono contatti con le due superpotenze del tempo: i Lakers di Magic Johnson e i Celtics di Larry Bird. Il Grande Rosso non è in grado di superare alcun tipo di visita di controllo e rappresenta una notevole incognita nonostante gli incoraggianti progressi. I lacustri si muovono inizialmente con grande rapidità ma si arenano ben presto sul tema della condizione fisica. Con la situazione in bilico, sono i senatori di Boston a fare la differenza. Red Auerbach registra il desiderio delle stelle biancoverdi e si limita ad un accordo tra gentiluomini. Walton assicura verbalmente di poter garantire almeno una stagione produttiva come riserva di lusso, questo basta al grande capo dei Celtics per correre il rischio ed approvare i pessimi test medici sotto la sua responsabilità. L’accordo si chiude con un prezzo più alto del previsto: i Clippers ricevono in cambio Cedric Maxwell (MVP delle Finals ’81) e una prima scelta. Sterling vende cara la pelle.
Il nuovo pubblico lo accoglie subito con entusiasmo e una commovente standing ovation al suo esordio. Il neo arrivato dei biancoverdi supera ogni più rosea aspettativa: gioca 80 partite (record in carriera), sfodera l’entusiasmo di un rookie e garantisce 20 minuti di assoluta qualità. Trasforma la squadra (solo una sconfitta in casa nel corso della stagione) in una corazzata, impreziosendo quello che per molti appassionati è il roster più formidabile della storia delle lega, e di certo la squadra migliore dell’epopea di Larry Legend. Il suo approccio si fa sentire anche negli allenamenti che diventano ancora più divertenti e competitivi del solito. I suoi passaggi e le sue invenzioni dal post sono una delizia per il pubblico del Garden. A fine stagione, oltre al titolo, arriva anche il riconoscimento come Sesto Uomo dell’Anno. L’unico inconveniente fisico dell’annata è la “solita” frattura del naso.
La stagione successiva la dea bendata e il martoriato fisico del californiano presentano di nuovo il conto, con i relativi interessi: scende in campo solo dieci volte e non riesce a rientrare per i delicati playoff del 1987 per un micidiale mix di problemi. È spesso invocato dal pubblico che spera sempre di vederlo recuperare in extremis, e per questo rimane a roster anche l’anno successivo ma senza mai scendere in campo, disperso nella lista degli infortunati e negli infiniti protocolli di riabilitazione.
Le porte della NBA sembrano ormai chiuse e nell’estate del 1988, il destino di Walton incrocia fugacemente il campionato Italiano: Napoli sta costruendo una squadra ambiziosa e lo invita per un periodo di prova. La dirigenza è consapevole della condizione precaria del giocatore ed è pronta a chiudere un occhio sull’esito degli esami a cui viene sottoposto. Eppure, al momento del check medico, la situazione è talmente compromessa che risulta impossibile firmare il contratto per la società partenopea. Della sua avventura resta qualche foto scattata sul lungomare e qualche video dei pochi allenamenti disputati con la squadra. Bill non si dà per vinto e lavora incessantemente per altri due (dolorosi) anni alla ricerca di una nuova possibilità. Sventola bandiera bianca e si ritira ufficialmente solo all’inizio del 1990, quando l’ennesimo grave infortunio lo convince ad abbandonare definitivamente le sue ambizioni agonistiche.
Retaggio
Il prodotto di UCLA ha scritto pagine importanti della storia del gioco in brevissimo tempo. L’arco temporale della sua avventura è di quattordici stagioni ufficiali, ma gli infortuni ne hanno cancellato circa nove e mezzo. Le sue skill complessive (un rimbalzista ed un difensore dominante con l’abilità di un play sopraffino) sono ancora oggi un assoluto Gronchi Rosa. Se nel gioco moderno i centri hanno sdoganato ogni sorta di qualità nella metà campo avversaria, la doppia dimensione offensiva/difensiva è spesso un assoluto miraggio.
Walton ha pagato lo scotto delle sue convinzioni prima di stemperare i suoi atteggiamenti, divenuti col tempo universalmente apprezzati tanto da diventare un ambasciatore della NBA. La sua passione per la competizione lo ha portato a travolgenti vittorie, ma anche a trascorrere buona parte della sua vita in ospedale e in sala operatoria, tanto che il suo fragilissimo fisico si è fatto sentire anche dopo il ritiro: dopo un periodo di lancinanti dolori alla schiena ha valutato persino il suicidio e ha perso il suo lavoro di commentatore sportivo alla ESPN, un’attività che ha segnato il suo corso da ex giocatore. Per diverso tempo è stato costretto a dotarsi di una speciale sedia pieghevole pronta a dare sollievo a schiena e ginocchia in occasione di ogni uscita pubblica.
L’ennesima operazione (la numero trentasei o trentasette?) lo ha poi finalmente restituito ad una vita normale e al suo lavoro di analista per il celebre network sportivo. Walton ha fatto la differenza anche in questo campo, capitalizzando al meglio la sua inventiva e la notevolissima cultura generale. Il suo collega Jim Gray lo ha fotografato alla perfezione: “È probabilmente l’unica persona che riesce a legare assieme con un ragionamento efficace e nella stessa frase: Madre Teresa, Michael Jordan, il cambiamento climatico, il muro di Berlino e Baryshnikov”. Un personaggio fuori da ogni schema, sempre in grado di rialzarsi da ogni rovescio per tornare in sella. Un innovatore del gioco e una mente fertile che ha fatto scuola anche dietro a un microfono. Un’enciclopedia vivente dei fondamentali poi studiata e replicata da buona parte dei lunghi moderni come Tim Duncan. La sua vena goliardica ha contribuito a rinfrescare l’ingessato panorama degli analisti NBA. Ha un notevole seguito di ammiratori che estrapolano in continuazione le frasi migliori dei suoi commenti.
Un pioniere che ha rubato il cuore di chi lo ha visto giocare e non lo ha mai reso indietro.