Il Grande Unicorno Rosso
Come e perché Bill Walton ha cambiato l’inerzia del gioco.
Un biennio maledetto (1974-1976)
La gestione della sua vita privata è ai limiti dei personaggi delineati dal contemporaneo Nanni Moretti. È un autarchico circondato dal mondo della pallacanestro: per i media sportivi americani è l’uomo della provvidenza, la prima vera possibilità di far apprezzare e di “vendere” il basket anche al pubblico Wasp (una locuzione che identifica ironicamente i discendenti dei coloni inglesi protestanti), da sempre freddo con uno sport tradizionalmente associato al pubblico di colore. Una speranza vanamente riposta e che sarà poi colmata da Larry Bird qualche anno dopo.
Il ragazzo è costantemente sotto la lente di ingrandimento del pubblico e spesso si trova a gestire una stampa aggressiva e avida di sensazionalismo. I reporter dell’epoca si trovano a descrivere un hippie col piglio del predicatore e che sciorina una proprietà di linguaggio e una cultura personale clamorosamente sopra media. Con grande stupore si avvicinano ad un atleta che ama pranzare con 6/8 tipi diversi di yogurt e una curiosa selezione di semenze e cereali vari.
Si trasferisce nella città delle rose presso una clamorosa villa a forma di lettera “A” che fa subito scalpore nella piccola ma passionale “fan base” locale. Viene seguito dalla fidanzata (deputata alla gestione dei suoi stravaganti pasti) e poco dopo viene raggiunto dal famoso Jack Scott (con fratello al seguito) come aiuto tuttofare e consigliere.
Scott è un personaggio di una complessità e una profondità di opinioni decisamente fuori dal comune. Si tratta di un ex atleta diventato famoso come il più grande contestatore e riformatore dello sport americano degli anni Sessanta e Settanta, un visionario che ha intrecciato in precedenza un legame con il leggendario velocista Tommy Smith e che in futuro sarà chiamato a curare i muscoli e il benessere di Carl Lewis. Si tratta del guru emotivo di Bill, l’unico punto di riferimento importante, un consigliere prezioso (sportivo e finanziario) e una naturale fonte di grattacapi.
Fin dal principio emergono contrasti e incomprensioni con il management della squadra che gli ha assicurato un clamoroso contratto di 2,5 milioni per 5 stagioni. Dopo anni di cieca obbedienza allo staff di UCLA, il “Grande Rosso” ottiene un discreto controllo della sua gestione atletica e delle varie riabilitazioni: oscilla volontariamente di peso (recitando sempre lo stesso slogan: «Tutto ok, conosco il mio corpo») in modo preoccupante e ingaggia una singolare quanto misteriosa battaglia contro i carboidrati nella sua prima off-season da giocatore NBA.
Mentre la dirigenza preme per potenziare la muscolatura e incrementare la resistenza con i metodi più sicuri e tradizionali, il suo entourage risponde con un approccio completamente naturale e con varianti all’alimentazione a base di frutta esotica e patate lesse. Le sue condizioni fisiche sono precarie ma rifiuta spesso antidolorifici e cure cortisoniche, a differenza di quanto faceva al college: il risultato è quello di aumentare notevolmente l’impatto dei primi infortuni.
Il suo stile alternativo non aiuta nemmeno il più volenteroso dei compagni di squadra. Il giocatore più atteso della storia del gioco si presenta regolarmente vestito come un operaio alla guida della sua amata Jeep con cui scorrazza in montagna appena possibile. Ama bruciare incenso nei terminal degli aeroporti durante le trasferte, con un disincanto che sconcerta chi incrocia il suo sguardo.
Walton compare con assoluta disinvoltura al fianco di noti attivisti politici in manifestazioni a favore dei braccianti agricoli. Si schiera al loro fianco per le rivendicazioni sul salario minimo nonostante un contratto milionario. Sono contrasti clamorosi che il pubblico e la squadra faticano ad assimilare.
Sul parquet le cose vanno leggermente meglio. La stella dei Blazers dimostra da principio di poter traslare molte delle sue intriganti qualità anche al piano superiore anche se l’impatto complessivo desta qualche perplessità. Siamo distanti dalle irreali aspettative di stampa e pubblico che abbiamo descritto da principio: l’impatto difensivo è da subito di straordinario livello, esattamente come la capacità di innato facilitatore del gioco dei compagni di squadra. Qualche piccolo limite emerge solo in qualità di realizzatore puro, caratteristica che non ha mai spiccato nella pur lussureggiante economia di gioco del talento californiano. Si intravede un potenziale intrigante che resta sepolto sotto la spessa coltre di infortuni.
Acciacchi di ogni genere si fanno sentire con ben 78 (!) partite saltate nel primo biennio, una situazione che tarpa le ali dei Blazers e aumenta la frustrazione del giocatore e dell’ambiente. Portland resta sul fondo delle varie classifiche in modo sempre più malinconico. A complicare ulteriormente uno scenario ricco di tensione emerge un caso di cronaca che rischia di far saltare definitivamente il banco. Le turbolente frequentazioni di Scott lo portano sotto la sorveglianza dei federali: l’FBI infatti comincia ad intercettare le sue telefonate, pedinare i conoscenti e lo interroga diverse volte quando appare chiaro un legame tra il suo guru/preparatore e la famigerata Patty Heirst.
Si tratta di un episodio clamoroso che ha segnato la storia della controcultura americana. La Heirst è una ricca ereditiera che viene rapita da terroristi di sinistra radicale. Durante la prigionia decide volontariamente di entrare a far parte del gruppo dei suoi carcerieri (Esercito di Liberazione Simbionese) e passa quindi ad una clandestinità a base di lotte paramilitari e rapine. Secondo il quadro accusatorio, Scott prima di volare in Oregon dal suo pupillo ha favorito la clandestinità del gruppo, fornendo nascondigli “sicuri” in California, e viene quindi indagato come fiancheggiatore. Urge una svolta: il management resiste saggiamente alla tentazione di scambiarlo, ricucendo puntualmente ogni strappo e incomprensione anche con il pubblico che comincia a contestarlo per il notevole peso del suo bagaglio extra campo.
La Blazermania 1976/77: l’anello e la definitiva immortalità sportiva
La squadra è in piedi da sei stagioni, ha un roster tanto giovane quanto immaturo e non è mai riuscita a compilare un record positivo. Il tempismo però è tutto, nella vita come nello sport.
Una serie di fortunati eventi scatena una sorta di piccolo “Big Bang” all’interno dei Blazers che origina una delle annate NBA più affascinanti di sempre. La ABA ormai è definitivamente sciolta e la lega accoglie più squadre, più talento e più personaggi di spessore. Sembra l’alba di una nuova era, pronta a rovesciare i consueti equilibri. Si rischia il tutto per tutto per rimodellare l’intera struttura intorno alle spalle di Bill. Nella offseason vengono allontanati Petrie e Wicks, probabilmente i maggiori contestatori del californiano in spogliatoio. A guidare la panchina arriva il pittoresco Jack Ramsey che azzecca il colpo della vita selezionando Maurice Lucas nel Draft dei giocatori ABA del 1976.
Si tratta di un’ala forte aggressiva e molto fisica che cambia il volto del roster e allenta gran parte della pressione che grava sulle spalle della pietra angolare del team. Il tarantolato allenatore ha da subito due grandi meriti: in prima istanza introduce un gioco moderno e offensivamente altruista per sfruttare al meglio le doti del suo fuoriclasse e sviluppare immediatamente chimica, lo scenario ideale per armare il Grande Rosso. Una visione avanti anni luce rispetto alla maggior parte delle squadre concorrenti, spesso basate sulla gestione delle individualità e con strutture di gioco fortemente gerarchizzate. In seconda istanza, “Dr. Jack” riesce a entrare immediatamente nel mondo del suo giocatore di riferimento conquistandosi rapidamente stima e soprattutto la piena fiducia del suo bizzarro entourage. I primi due travagliati anni di professionismo cominciano a trasformare l’indole del ragazzone che si presenta ai nastri di partenza della stagione più consapevole e finalmente sano. Il rapporto con lo staff medico migliora sensibilmente e finalmente si convince a un approccio più razionale (accettando le terapie prescritte), pur non modificando completamente le sue abitudini.
L’avvio di stagione è ai confini della realtà. Dopo qualche mese di regular season la squadra vanta il miglior attacco NBA grazie a una serie di partite che lasciano di stucco tutti quanti. Portland è in grado di chiudere quarti di gioco avvicinando i 45 punti e chiudere partite contro le migliori squadre della lega intorno ai 150 punti realizzati. Non difetta di certo il rendimento difensivo che resta sempre in linea di galleggiamento con le migliori del lotto. Con il passare dei mesi la situazione tende ovviamente a normalizzarsi, pur lasciando la sensazione che la squadra sia una mina vagante da evitare a tutti i costi. Walton “rallenta” e viene saggiamente gestito con l’insorgere dei primi piccoli problemi di salute, e l’eco clamoroso intorno al rendimento iniziale si ridimensiona parzialmente. A vincere la stagione regolare sul versante Ovest sono i Los Angeles Lakers guidati da Jerry West e con Jabbar giustamente MVP, complessivamente più esperti e profondi.
Nei primi due turni di playoff le cose trascorrono placidamente, con i Blazers che danno la sensazione di essere molto vicini alla squadra schiacciasassi ammirata dal principio. Vengono spazzate via Chicago (al tempo ancora ad Ovest) e Denver senza troppi patemi. La stampa si interroga sulla giovane età della squadra e la mancanza di esperienza di un gruppo che prima di allora non aveva mai scollinato le 28 vittorie.
La svolta arriva contro lo spauracchio Los Angeles: Portland distrugge lo squadrone con un perentorio 4-0 che vale il clamoroso “sweep”. Bill è straordinariamente ispirato e in grado di vincere (di misura) lo scontro diretto col grande rivale in una sorta di affascinante derby tra leggende di UCLA. Jabbar raramente era stato contrastato in modo così efficace: Walton è freddo in tutte le fasi decisive delle partite, alternando con efficacia grandi momenti offensivi e difensivi.
Ciò nonostante, la finale con i Sixers di Julius Erving sulla carta è già scritta. Phila ha più talento e esperienza, tanto che i pronostici non sembrano lasciare scampo ai Blazers. Collettivo contro individualità: la tag-line è semplice quanto affascinante. La Città dell’Amore Fraterno sfrutta da principio il vantaggio del fattore campo portandosi sul 2-0 con discreta facilità, soprattutto grazie all’impatto stratosferico dei giocatori di maggior talento.
A riaccendere la scintilla della sfida sono due fattori inaspettati. Il primo è senza dubbio la “Blazermania”: si tratta di una sorta di febbre sportiva che colpisce e stravolge la città di Portland (400.00 mila abitanti ai tempi) verso la metà della stagione e che trasforma il palazzetto di casa in una sorta di castello inespugnabile, facendo impennare la qualità e il rendimento della squadra. A fronte di 12mila posti disponibili, le richieste per i biglietti toccano anche quota 20mila. La città è una delle più singolari e vitali degli Stati Uniti, brama maggiore rilevanza nazionale e risponde con un entusiasmo mai visto prima. Il secondo fattore è la cattiveria agonistica e la malizia di Maurice Lucas nel peggior momento dei ragazzi di Jack. Con la squadra sull’orlo della crisi di nervi in Gara-2, la poderosa ala forte ingaggia una delle risse più famose della storia lega con Darryl Dawkins. L’alterco si trasforma in una inevitabile espulsione per entrambi i protagonisti, ma è il punto di svolta emotivo della sfida.
Gli improbabili sfidanti ritrovano coraggio grazie alla sua leadership carismatica: a trasformare la proverbiale zucca in una fantastica carrozza ci pensa un Walton in stato di suprema grazia. Il pupillo di Wooden chiude la serie vicino ai 20 punti e rimbalzi di media, guidando la squadra come un play occulto con occasionali revival del gioco “fastbreak” che aveva incantato gli appassionati pochi anni prima. Il Grande Rosso dopo aver sofferto nelle prime due partite sale in cattedra in modo perentorio e si eleva di un paio di gradini rispetto alla prestigiosa concorrenza.
Le sue evoluzioni sono una perfetta sintesi tra il nuovo che avanza lentamente e la pallacanestro “bread & butter” che è vicina al suo tramonto. Privi di armi come il tiro da 3 punti (introdotto nella NBA e nel college solo a inizio anni ‘80) e limitati da approcci tecnici conservativi, i giocatori sono spesso costretti a convergere nei pressi del canestro, alla mercé dei lunghi dominanti. Le arti cestistiche gravitano inevitabilmente attorno al ferro: Bill è un “finesse player” che va nella direzione opposta, una tipologia completamente diversa dal centro realizzatore o meramente difensivo che hanno influenzato lo sviluppo degli eventi fino a quel momento. Alla fine della stagione ’77, però, l’astro di San Diego è tornato prepotentemente re della palla a spicchi.
La grande illusione e il triste epilogo con Portland
La conquista del titolo stravolge completamente la città e dà luogo a una serie di festeggiamenti epocali che elettrizzano tutto l’ambiente. Oltre 250mila persone affollano la parata della vittoria e il clima di giubilo travolge ogni fascia social, tanto che il sindaco, secondo le cronache locali, è incontenibile in ogni festa o occasione pubblica ed esponenti di ogni età, compresi i bambini, affollano di telegrammi la sede dei Blazers.
La stagione successiva le aspettative sono ovviamente alle stelle. La pressione non penalizza la truppa di Jack Ramsey che sembra destinata a fare sfracelli per diversi anni grazie alla freschezza del roster. Il fuoriclasse gioca in modo fantastico grazie a una buona forma fisica e uno stato di trascendenza pura dal punto di vista tecnico. Il prodotto di UCLA è ormai riuscito a tradurre completamente il suo intero repertorio a livello NBA: limitare il suo gioco e la sua capacità di migliorare i compagni si rivela un rebus senza soluzione per gli avversari. Ha uno stile semplice ma efficace, concede poco allo spettacolo ma incanta ugualmente il pubblico con le sue letture e la capacità di coinvolgere ogni componente di squadra. Dopo le prime sessanta partite, il record recita un eloquente 50-10.
Nel momento migliore però ricomincia una spiacevole sequela di infortuni che segna la fine della favola. Le fragili giunture del pivot cominciano a cedere e per la franchigia comincia un periodo davvero complicato. Le sue prestazioni valgono il titolo di MVP nonostante la fine prematura della regular season; Walton torna in campo per giocare i playoff, ma si tratta di un recupero (forse) affrettato che si conclude con la frattura dell’osso navicolare del piede sinistro. E qualcos’altro si rompe.
Dopo qualche mese arriva un’esplicita e clamorosa richiesta di cessione (nello specifico ai Golden State Warriors) da parte del giocatore, che accusa apertamente la squadra e il medico sociale. Esplodono fragorosamente tutti i malintesi e le tensioni gestite con fatica nel primo biennio: a supportare la decisione di Bill interviene ovviamente il “solito” Scott che appoggia in tutto e per tutto la crociata personale del suo pupillo. Sotto accusa sono il mix di medicinali somministrati e la presunta superficialità della franchigia nella gestione delle riabilitazioni. Portland non cede di un millimetro e nega quanto richiesto: scoppia una guerra di nervi e il giocatore decide di scioperare, restando fuori dal campo per forzare il trasferimento richiesto.
Segue un lungo e difficile periodo di veleni in cui uno dei giocatori più forti della sua generazione è costretto a restare fuori dal campo e saltare completamente la stagione. Vive da esiliato in casa a distanza di pochi mesi dalla rincorsa del titolo più stupefacente della NBA.