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Francesco Anichini
Il gigante
06 set 2016
06 set 2016
L’indimenticabile carriera di Dino Meneghin, unico giocatore italiano nella Hall of Fame.
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Francesco Anichini
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Nico Messina richiama in panchina il suo pivot 17enne. Il ragazzo crolla a sedere accanto ai compagni e affonda il volto nelle mani: a stento riesce a trattenere le lacrime dopo che Radivoj Korac lo ha letteralmente dominato sul parquet, come se non esistesse nemmeno. Sente di aver tradito la fiducia di un coach che l’ha da poco investito di grandi responsabilità, andando contro il parere di tutti a Varese e preferendolo a Bovone, volato verso l’All’Onestà Milano proprio per lasciargli spazio. Le parole di Korac dopo la partita gli sembrano solo l’ennesima presa in giro della serata: «Sei ancora giovane, ma imparerai velocemente. E diventerai forte…».

 

Qualche mese più tardi quel pivot 17enne alzerà il primo dei suoi dodici scudetti, la prima delle sue sei Coppe Italia, la prima delle sue sette Coppe Campioni (oltre ad altri quattro trofei internazionali). Finirà sulla copertina di tutte le riviste di basket, inizierà un percorso in Nazionale che lo porterà a tre medaglie europee, un argento olimpico e all’introduzione nella Hall of Fame, unico giocatore italiano che abbia mai ricevuto questo onore.

 

Qualche mese più tardi il mondo della pallacanestro non potrà più a ignorare il più grande giocatore italiano di tutti i tempi: Dino Meneghin.

 

Al vertice della sua carriera, Meneghin non era semplicemente un cestista o un grande giocatore: era l’intera pallacanestro italiana. È stato a lungo il giocatore italiano più noto e più identificabile all’estero, tanto da suscitare attenzioni che lui stesso faticava a spiegarsi, come la venerazione che attirava in Israele. Ha vissuto da protagonista due dei cicli più vincenti e leggendari della storia della nostra pallacanestro, prima con la grande Varese degli anni ’70 e poi con l’Olimpia Milano degli anni ’80, che continua a popolare i sogni di chi vorrebbe rivedere al Forum tracce di uno spirito non replicabile in laboratorio. Ha fatto tutto questo senza essere un giocatore dal talento straripante come Carlton Myers, o un passo avanti nell’evoluzione della specie come Danilo Gallinari. Meneghin era, più semplicemente, un monolite: attorno a lui sono gravitate tutte le sue squadre. Una presenza incessante e martellante nell’area avversaria, un ente quasi geologico nella propria, dove non si è mai tirato indietro di un centimetro quando volavano colpi da farne rabbrividire di ben più grossi.

 

Ha attraversato 24 stagioni in Serie A, vissuto la transizione da dilettantismo a professionismo e osservato la comparsa della linea da tre punti continuando a restare protagonista, dimostrando una longevità sportiva ineguagliata e probabilmente ineguagliabile. Più di ogni altra cosa, ha contribuito a rendere grande il basket italiano, traghettandolo in una stagione dorata che forse non rivedremo mai più.

 

 



 

Varese, 1964, Campionati studenteschi di pallacanestro. Nico Messina è l’allenatore di una delle formazioni che si affrontano sul campo. Stimato e rispettato da chiunque lo abbia mai incrociato, da buon professore di ginnastica Messina è stato uno dei primi coach italiani a puntare su una seria preparazione fisica per i propri giocatori, spianando la strada per quello che sarà il suo successore a Varese e che porterà il concetto all’estremo: Aza Nikolic. In quel momento però Messina stava solo gestendo i ragazzi in campo, quando vide passare sugli spalti un ragazzo che svettava sui coetanei per un metro abbondante.

 

«Tu! hai mai giocato a basket?» gli chiese senza troppi convenevoli.

«Veramente non ci ho mai nemmeno provato…» rispose il 14enne.

«Corri».

 

Messina gli ordinò di farsi tutto il campo a corsa tre o quattro volte, tenendo il cappotto addosso per controllare meglio il suo baricentro.

 

«Basta così. Torna domani pomeriggio con le scarpe da basket»: queste furono le parole con cui iniziò la carriera di Dino Meneghin.

 

Tra le storie sui primi giorni di allenamento ho sempre messo al primo posto quella di Joseph Forte che si presentò ai suoi compagni dei Boston Celtics con addosso la maglia dei Los Angeles Lakers di Magic Johnson, bruciandosi gran parte della carriera in un colpo solo. In realtà anche Meneghin non andò tanto lontano da queste vette, visto che si presentò al primo allenamento a Varese con delle Superga di un rosso scintillante. Nessuno gli aveva ancora spiegato quella questione della rivalità con dei tizi soprannominati “scarpette rosse”. Una rivalità che per esempio porterà il suo compagno Tony Gennari a tuonare con un roboante «Finché resterò in Italia, Milano non vincerà mai più lo Scudetto» — salvo perdere lo Scudetto proprio quell’anno e proprio contro Milano in uno spareggio deciso a tavolino.

 

Dino non aveva grandi esperienze alle spalle di sport di squadra: per lui il basket era un mondo completamente nuovo e affascinante visto il suo passato nell’atletica leggera, che però aveva iniziato a sopportare sempre più a fatica. «Mi aveva affascinato la meravigliosa confusione di quel primo allenamento alla Pascoli: caos, rumore, casino collettivo. Mi aveva colpito il sistema: venivo dalla “rottura di palle” del peso e del disco, lì invece mi sembrava di stare dentro una festa. Ero tornato al clima dell’oratorio, e poi c’era Nico Messina che mi motivava».

 

Il potenziale di Meneghin fu evidente a tutti fin da subito, visto che già nel ’68 i giornalisti lo indicavano come “una promessa che verrà di certo mantenuta”, o come “due metri di speranza”. Soprattutto, c’era un aspetto del suo gioco che faceva illuminare gli occhi, e non aveva nulla a che fare con la tecnica: Meneghin in campo era una bestia feroce. Al contrario di molti suoi diretti avversari, aggrediva la partita a testa bassa — e la prova l’aveva data già nel ’67 spaccando il naso a Tito Bulgheroni con quella che in teoria doveva essere una stoppata particolarmente veemente.

 

“Questo Meneghin, alto e possente, ha più dei Masini e dei Bovone un assoluto disprezzo per l’avversario (in senso buono). Non lo vede. Non gliene importa nulla. Lui salta, fa e disfà, pretende spazio, e se qualcuno osa fare il duro, risponde da pari a pari senza complimenti” (Marco Cassani, 1967).

 

Inserito nel giro degli azzurrini già a 16 anni (marzo del ’66), pochi mesi dopo la sua convocazione per la nazionale juniores viene chiamato anche in quella maggiore, anche se in versione sperimentale. Con la maglia azzurra vinse quattro partite segnando 8 punti complessivi, ma attirandosi i complimenti del c.t. Nello Paratore. Lui però volava basso: «Ritengo di aver compiuto buoni progressi in fatto di scioltezza, spontaneità e confidenza con il gioco (…). Tuttavia sono ben lontano dal sentirmi un arrivato: si tratta di una maturazione appena iniziata e che deve evolversi parecchio».

 

Queste erano le sue parole alla partenza della stagione ‘68/’69, quella che l’avrebbe visto partire titolare al posto di Bovone, con una scelta che Messina portò avanti quasi contro tutto e tutti. Per questo motivo colui il quale Aldo Giordani soprannominerà “L’Antimago per natura”, in uno dei suoi soliti colpi di genio, ha da sempre un posto speciale nel cuore di Meneghin: “Aveva una dote su tutte: l’entusiasmo. Un entusiasmo a dir poco contagioso, sposato a sincerità e genuinità. Ammetteva di non essere un infallibile stratega o un grande tecnico. Però sapeva di essere un eccellente preparatore, esperto sul lavoro di base, e sentiva che tutti glielo riconoscevano”.

 

La nomina di Messina a capo allenatore dopo l’allontanamento forzato di Tracuzzi («Non preoccuparti – disse a un Meneghin sconvolto prima di lasciare Varese – continua ad allenarti con grinta e dedizione, hai enormi potenzialità»), l’addio di Bovone e la contemporanea promozione di Meneghin, nonché lo sbarco in Italia di uno straniero di cui nessuno aveva sentito parlare (tal Manuel Raga, destinato a diventare uno dei cinquanta

più importanti della storia dell’Eurolega) aveva fatto sbilanciare molti addetti ai lavori verso una Varese destinata a lottare per la salvezza. In effetti l’Ignis veniva da una stagione negativa (5° in campionato) e nei piani della dirigenza doveva essere una sorta di anno zero, salutando gran parte della squadra vincente del passato, inserendo i giovani e preparandosi a una lunga ricostruzione. I fatti però racconteranno di un Flaborea dominante, di un Manuel Raga che in tutta la stagione sbaglierà solo due partite (“era dotato di una sospensione miracolosa, galleggiava in aria un’eternità” dirà Giordani), di un Aldo Ossola devastatore di difese e un Dino Meneghin lanciatissimo. L’Ignis vincerà lo Scudetto del 1969, il primo di una lunga serie per il suo pivot 19enne.

 



 

In quel momento Nico Messina fece qualcosa che in pochi altri avrebbero fatto: davanti alla possibilità di allenare in Coppa Campioni fece un passo indietro e accettò che Aza Nikolic prendesse il suo posto. «Mentre il basket di Messina era veloce e divertente, quello di Aza era molto stressante e impegnativo. Sapevi a che ora dovevi entrare in palestra, ma mai quando ne saresti uscito (…) Nell’era Nikolic avrò mangiato la pasta calda a casa solo tre volte…».

 

Il perfezionismo di Nikolic è passato alla storia ed è stata la fonte dei tanti successi del “Professore”. Trasmettere una tale maniacale attenzione per i dettagli ai giocatori però non era facilissimo, come riassumerà con efficacia proprio Meneghin nella sua biografia: “Certe volte era una rottura di coglioni…”. Come non menzionare per esempio Ossola, che in occasione delle interminabili riunioni mattutine si presentava con gli occhiali da sole e si sistemava in fondo, così da poter dormire indisturbato. Con Nikolic però arrivò quella che Meneghin considera la seconda perla assoluta della sua carriera, dopo lo Scudetto del 1969: la Coppa Campioni del 1970, la prima per Varese. A Sarajevo l’Ignis sconfisse il Cska Mosca in una partita tiratissima, con Meneghin che si ritrovò accanto a Flaborea per sollevare la coppa.

 

È probabilmente in quel momento che Meneghin divenne veramente consapevole per la prima volta di cosa fosse la vittoria. Da quel momento in poi dedicò tutto sé stesso alla costante ricerca di un modo per vincere ancora e ancora, spingendo fisico e volontà sempre più all’estremo delle proprie possibilità. «Quando nacque mio figlio Andrea fu una gioia enorme, però vincere è un’altra cosa. È una sensazione che esplode e che riempie dalla testa ai piedi. La vittoria è di color rosso»







 

Quello che fa spavento vedendo i filmati delle partite dell’epoca è la quantità di colpi che Meneghin dava ed era in grado di ricevere durante una partita. Più che la sfida tecnica tra due squadre, per Meneghin la pallacanestro sembra essere stata una vera e propria battaglia all’ultimo sangue, dove un solo centimetro concesso all’avversario rappresentava un disonore perpetuo.

 


In basso a sinistra: guardate i colpi, guardate l’intensità. Quello non è prendere posizione, è impedire all’avversario di esistere.



 

“All’ennesimo ruvido rimbalzo, scintille al Palalido, i due si trascinano a terra. L’uno vorrebbe spezzare l’altro, le braccia si agitano furiosamente, non si riesce a separarli. Ma entrambi erano dotati di bicipiti grossi e pesanti come magli. Se solo avessero voluto, da distanza ravvicinata, avrebbero l’un l’altro potuto sfigurarsi. Non partì nemmeno un colpo al volto. Semplicemente non riuscivano a separarli. Il senso? L’uno stava dimostrando all’altro che non gli avrebbe permesso di rialzarsi per primo. Dino stava dicendo ad Art, e viceversa, che non poteva permettergli di giocare così, usando la forza, non contro di lui. Stavano semplicemente affermando due concetti: orgoglio e lealtà. Oltre al rispetto”.

 

In questo episodio narrato da Werther Pedrazzi nel suo

è racchiuso tutto Dino Meneghin (e tutto Art Kenney). La testarda ricerca della supremazia fisica e mentale sull’avversario, abbinata a un orgoglio che non ammetteva la possibilità di subire passivamente chiunque si fosse ritrovato davanti.

 

“Dalle parti del canestro bisogna marcare il territorio e farsi rispettare, altrimenti finisci sopraffatto (…) Devi essere pronto a fronteggiare una battaglia vera, psicologicamente pesante e a volte sporca. (…) Nel cuore dell’area (…) non è previsto l’uso del fioretto. Per questo sono sempre stato abituato a giocare al massimo e a dare tutto quello che avevo in corpo. Ma non sono mai stato una testa di cazzo”.

 


Il più classico dei tagliafuori



 

Salta agli occhi il contrasto nettissimo tra il Meneghin in campo e quello fuori dal campo. Da una parte il feroce combattente, capace di portare senza troppi problemi il duello con l’avversario a un passo dalla rissa (non pensate sia facile: è un’arte sapere fin dove ti puoi spingere); dall’altra il bambinone mai cresciuto veramente, sempre pronto agli scherzi e a ridere non appena tolta la canotta. Sembra quasi di avere a che fare con due anime differenti che non si sono mai incontrate perché non potevano — perché dentro quell’area Meneghin non voleva far entrare niente, nemmeno sé stesso.

 

È la mentalità che Meneghin portò a Milano quando decise di lasciare Varese nel 1981. Da una parte infatti c’era il graduale disimpegno della famiglia Borghi dal basket varesino, dall’altra la volontà di Dino di continuare a giocare al massimo livello possibile. Del resto con la maglia dell’Ignis aveva praticamente vinto tutto quello che si poteva vincere, comprese 5 Coppe dei Campioni. 300 milioni di lire dopo, il colosso del basket italiano poteva posare per una delle copertine di Superbasket più iconiche di sempre: in mezzo all’autostrada un cartello sopra la sua testa indicava chiaramente la direzione di Milano (copertina replicata molti anni dopo per Gallinari

).

 

Ad attenderlo a braccia aperte un Dan Peterson che già fantasticava su come impiegare un giocatore che lo aveva sempre tormentato da avversario: «Da noi Dino Meneghin giocherà ala: andrà dappertutto in campo». In realtà, almeno per i primi tempi, sarebbe andato poco lontano: pronti via e il menisco di Meneghin fece crack, trascinandosi dietro gli inevitabili commenti su un giocatore arrivato a Milano già finito. Ma del resto gli infortuni sono una parte indissolubilmente legata alla carriera di Meneghin, tanto da renderla per questo motivo ancora più incredibile: due menischi rotti (uno a Varese e uno a Milano), un naso rotto due volte, un braccio rotto, due fratture alla stessa mano e una caviglia rotta. «Nel periodo dell’infortunio e della convalescenza sentivo attorno a me un’atmosfera particolare, non di delusione ma di attesa trepidante», dirà poi.

 

L’Olimpia era andata

su Dino, anche inimicandosi una parte di tifoseria che non lo voleva a Milano e per questo subendo un calo di abbonamenti. Non sorprende quindi che il suo ritorno in campo, con annessa vittoria, fu come un macigno che si sollevò dal petto di tutta la società. Da quel momento in poi cominciò a formarsi quel gruppo destinato a diventare una delle squadre più importanti e significative della pallacanestro italiana. L’Olimpia aveva dovuto attendere dieci anni per conquistare la sua seconda stella, dieci anni di rincorse a uno Scudetto che non sembrava mai arrivare. Uno Scudetto che puntualmente arrivò non appena Meneghin indossò la canotta milanese. Dopo soli pochi mesi il suo passato a Varese era già alle spalle, e Milano era pronta ad abbracciare un nuovo eroe.

 

Per parlare del solco lasciato nell’immaginario collettivo, delle vittorie, delle polemiche, dei trionfi di quella squadra non basterebbe un libro intero. È anche inutile mettersi a elencare i trofei messi in bacheca — tra l’altro permettendo a Dan Peterson di togliersi di dosso quell’etichetta di “santone dei secondi posti” che iniziava a stargli abbastanza stretta. Basti dire che in praticamente tutti gli eventi più evocativi del basket degli anni ’80 c’era di mezzo in qualche modo quella squadra. Come per esempio nell’incredibile rimonta ai danni dell’Aris di Yannakis e Galis, dopo il -31 subito all’andata e andando a vincere in casa di 34, una dimostrazione di forza mentale di cui fatico a trovare eguali.

 


Credo che sia un crimine contro l’umanità a cui qualcuno dovrebbe rimediare che di quella partita si trovino solo stralci su Internet





“La difesa della Tracer è più che dura, cruenta, Michelino ha le vene del collo che sembrano scoppiare. E l’Aris commette l’errore mortale di cercare di controllare e gestire il vantaggio. Come tentare di far ragionare un branco di lupi feriti e affamati”. (Werther Pedrazzi su quel +34)



O come nel fatidico episodio della “monetina”, per cui ancora oggi a Pesaro gridano vendetta, soprattutto dopo l’uscita della biografia di Meneghin, in cui candidamente ammetteva: “Avrei spaccato tutto in quell’istante. Subentrò un senso di rabbia e di avvilimento, unito a una riflessione: non era la prima volta che a Pesaro si verificavano questi episodi. Ma la punizione per il malcostume abitudinario era sempre stata fin troppo mite: qualche multa e chiusa lì. Serviva una lezione, una semplice ma istruttiva lezione […]. Avrei potuto riprendere e completare l’incontro, non ho difficoltà ad ammetterlo. Però così sarei diventato complice di quegli imbecilli”.

 


Vignetta comparsa su Superbasket dopo il fatidico lancio



 

La decisione di Meneghin di non rientrare, e la seguente squalifica per la società ospitante, costò a Pesaro la possibilità di accedere alla finale (per rincarare la dose, finale in cui ci fu il famigerato scudetto di Livorno durato qualche ora…) e a Meneghin l’odio imperituro dei tifosi della Scavolini. Senza esprimere giudizi a cui non ho diritto sulla vicenda, è un fatto che in qualche modo dove ci fosse da fare la storia del basket italiano (in un modo o nell’altro) ci fosse Meneghin. E tutto nonostante un’età che ormai avanzava sempre più inesorabile, ma che pareva non intaccare un gruppo che continuava a vincere nonostante i continui pronostici diffidenti di inizio stagione. “Troppo vecchi”, “troppo stanchi”, “non più affamati” erano solo alcuni dei giudizi che costantemente rimbalzavano sull’Olimpia, salvo sgonfiarsi inesorabilmente alla vista di un Bob McAdoo, 38enne e con alle spalle una notevole carriera NBA, che decideva uno Scudetto così.

 


38 anni. 38.



 

 



 

Quel contestatissimo Scudetto del 1989 è anche l’ultimo trofeo conquistato da Meneghin nella sua incredibile carriera. Continuerà a giocare per altre quattro stagioni, tentando l’avventura in quel di Trieste convinto da un vecchio amore, Aza Nikolic: “Mi tenne per quaranta minuti al telefono e mentre parlava era così preciso nei dettagli che mi pareva di essere lì, a Trieste, al suo fianco”.

 

Un’avventura che tecnicamente significò tanto per l’Italia (come l’arrivo di due nomi: Bodiroga e Fucka), ma che Meneghin probabilmente ricorda soprattutto per la partita giocata contro suo figlio (stagione 1990-91), che allora muoveva i primi passi nel basket che contava: “Forse per la prima volta mi sono sentito vecchio (…) avevo paura gli potesse accadere qualcosa, magari che incassasse un brutto colpo; per questo motivo non riuscivo a staccare gli occhi da lui. Non ero un avversario ma, appunto, suo padre. Solo suo padre. Alla fine vinse la mia Stefanel, ma del risultato non m’importava nulla: corsi da Andrea, lo abbracciai e lo strinsi a me”.

 

La fine arrivò repentina dopo l’eliminazione della nuova Olimpia/Trieste da parte di Verona nei quarti di finale dei playoff 1994. Ritornando negli spogliatoi Meneghin riconobbe di non poter più essere d’aiuto alla sua squadra come avrebbe voluto e come il suo fisico ormai acciaccato gli impediva di fare. Ma forse era più dovuto al fatto che il Dino capace di scrivere pagine di storia della pallacanestro era un giocatore che sarebbe stato disposto a morire sul campo pur di arrivare alla vittoria: nel momento in cui quel furore venne meno, era arrivato il momento di dire basta.

 

A 44 anni si ritirava così un simbolo o, più che altro, un’icona del basket italiano. Nel tempo il nostro movimento ha prodotto altri personaggi in grado di calamitare attenzione e interesse (nomi come Myers e Pozzecco su tutti), ma mai nessuno è riuscito a replicare l’impatto terrificante che Meneghin ha avuto a livello internazionale, paragonandolo a un’epoca in cui i collegamenti erano molto più complicati.

 



 

È anche difficile giustificare simili ragionamenti elencando le statistiche che ha accumulato durante gli anni perché, come solo i migliori sanno fare, le ha trascese. Ma probabilmente questo lo ha spiegato meglio lui, durante il discorso con cui ha ringraziato per la nomina nell’Hall of Fame: «Non mi avete solo guardato con le statistiche: altri avevano numeri migliori dei miei. Non mi avete misurato con quelle: avete visto il quadro più grande e sono profondamente commosso dal fatto che lo avete riconosciuto nel mio gioco e nella mia intera carriera».

 

 

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