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NBA Francesco Anichini 6 settembre 2016 13'

Il gigante

L’indimenticabile carriera di Dino Meneghin, unico giocatore italiano nella Hall of Fame.

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5 gennaio 1969

 

Nico Messina richiama in panchina il suo pivot 17enne. Il ragazzo crolla a sedere accanto ai compagni e affonda il volto nelle mani: a stento riesce a trattenere le lacrime dopo che Radivoj Korac lo ha letteralmente dominato sul parquet, come se non esistesse nemmeno. Sente di aver tradito la fiducia di un coach che l’ha da poco investito di grandi responsabilità, andando contro il parere di tutti a Varese e preferendolo a Bovone, volato verso l’All’Onestà Milano proprio per lasciargli spazio. Le parole di Korac dopo la partita gli sembrano solo l’ennesima presa in giro della serata: «Sei ancora giovane, ma imparerai velocemente. E diventerai forte…».

 

Qualche mese più tardi quel pivot 17enne alzerà il primo dei suoi dodici scudetti, la prima delle sue sei Coppe Italia, la prima delle sue sette Coppe Campioni (oltre ad altri quattro trofei internazionali). Finirà sulla copertina di tutte le riviste di basket, inizierà un percorso in Nazionale che lo porterà a tre medaglie europee, un argento olimpico e all’introduzione nella Hall of Fame, unico giocatore italiano che abbia mai ricevuto questo onore.

 

Qualche mese più tardi il mondo della pallacanestro non potrà più a ignorare il più grande giocatore italiano di tutti i tempi: Dino Meneghin.

 

Al vertice della sua carriera, Meneghin non era semplicemente un cestista o un grande giocatore: era l’intera pallacanestro italiana. È stato a lungo il giocatore italiano più noto e più identificabile all’estero, tanto da suscitare attenzioni che lui stesso faticava a spiegarsi, come la venerazione che attirava in Israele. Ha vissuto da protagonista due dei cicli più vincenti e leggendari della storia della nostra pallacanestro, prima con la grande Varese degli anni ’70 e poi con l’Olimpia Milano degli anni ’80, che continua a popolare i sogni di chi vorrebbe rivedere al Forum tracce di uno spirito non replicabile in laboratorio. Ha fatto tutto questo senza essere un giocatore dal talento straripante come Carlton Myers, o un passo avanti nell’evoluzione della specie come Danilo Gallinari. Meneghin era, più semplicemente, un monolite: attorno a lui sono gravitate tutte le sue squadre. Una presenza incessante e martellante nell’area avversaria, un ente quasi geologico nella propria, dove non si è mai tirato indietro di un centimetro quando volavano colpi da farne rabbrividire di ben più grossi.

 

Ha attraversato 24 stagioni in Serie A, vissuto la transizione da dilettantismo a professionismo e osservato la comparsa della linea da tre punti continuando a restare protagonista, dimostrando una longevità sportiva ineguagliata e probabilmente ineguagliabile. Più di ogni altra cosa, ha contribuito a rendere grande il basket italiano, traghettandolo in una stagione dorata che forse non rivedremo mai più.

 

 

Genesi

 

Varese, 1964, Campionati studenteschi di pallacanestro. Nico Messina è l’allenatore di una delle formazioni che si affrontano sul campo. Stimato e rispettato da chiunque lo abbia mai incrociato, da buon professore di ginnastica Messina è stato uno dei primi coach italiani a puntare su una seria preparazione fisica per i propri giocatori, spianando la strada per quello che sarà il suo successore a Varese e che porterà il concetto all’estremo: Aza Nikolic. In quel momento però Messina stava solo gestendo i ragazzi in campo, quando vide passare sugli spalti un ragazzo che svettava sui coetanei per un metro abbondante.

 

«Tu! hai mai giocato a basket?» gli chiese senza troppi convenevoli.

«Veramente non ci ho mai nemmeno provato…» rispose il 14enne.

«Corri».

 

Messina gli ordinò di farsi tutto il campo a corsa tre o quattro volte, tenendo il cappotto addosso per controllare meglio il suo baricentro.

 

«Basta così. Torna domani pomeriggio con le scarpe da basket»: queste furono le parole con cui iniziò la carriera di Dino Meneghin.

 

Tra le storie sui primi giorni di allenamento ho sempre messo al primo posto quella di Joseph Forte che si presentò ai suoi compagni dei Boston Celtics con addosso la maglia dei Los Angeles Lakers di Magic Johnson, bruciandosi gran parte della carriera in un colpo solo. In realtà anche Meneghin non andò tanto lontano da queste vette, visto che si presentò al primo allenamento a Varese con delle Superga di un rosso scintillante. Nessuno gli aveva ancora spiegato quella questione della rivalità con dei tizi soprannominati “scarpette rosse”. Una rivalità che per esempio porterà il suo compagno Tony Gennari a tuonare con un roboante «Finché resterò in Italia, Milano non vincerà mai più lo Scudetto» — salvo perdere lo Scudetto proprio quell’anno e proprio contro Milano in uno spareggio deciso a tavolino.

 

Dino non aveva grandi esperienze alle spalle di sport di squadra: per lui il basket era un mondo completamente nuovo e affascinante visto il suo passato nell’atletica leggera, che però aveva iniziato a sopportare sempre più a fatica. «Mi aveva affascinato la meravigliosa confusione di quel primo allenamento alla Pascoli: caos, rumore, casino collettivo. Mi aveva colpito il sistema: venivo dalla “rottura di palle” del peso e del disco, lì invece mi sembrava di stare dentro una festa. Ero tornato al clima dell’oratorio, e poi c’era Nico Messina che mi motivava».

 

Il potenziale di Meneghin fu evidente a tutti fin da subito, visto che già nel ’68 i giornalisti lo indicavano come “una promessa che verrà di certo mantenuta”, o come “due metri di speranza”. Soprattutto, c’era un aspetto del suo gioco che faceva illuminare gli occhi, e non aveva nulla a che fare con la tecnica: Meneghin in campo era una bestia feroce. Al contrario di molti suoi diretti avversari, aggrediva la partita a testa bassa — e la prova l’aveva data già nel ’67 spaccando il naso a Tito Bulgheroni con quella che in teoria doveva essere una stoppata particolarmente veemente.

 

“Questo Meneghin, alto e possente, ha più dei Masini e dei Bovone un assoluto disprezzo per l’avversario (in senso buono). Non lo vede. Non gliene importa nulla. Lui salta, fa e disfà, pretende spazio, e se qualcuno osa fare il duro, risponde da pari a pari senza complimenti” (Marco Cassani, 1967).

 

Inserito nel giro degli azzurrini già a 16 anni (marzo del ’66), pochi mesi dopo la sua convocazione per la nazionale juniores viene chiamato anche in quella maggiore, anche se in versione sperimentale. Con la maglia azzurra vinse quattro partite segnando 8 punti complessivi, ma attirandosi i complimenti del c.t. Nello Paratore. Lui però volava basso: «Ritengo di aver compiuto buoni progressi in fatto di scioltezza, spontaneità e confidenza con il gioco (…). Tuttavia sono ben lontano dal sentirmi un arrivato: si tratta di una maturazione appena iniziata e che deve evolversi parecchio».

 

Queste erano le sue parole alla partenza della stagione ‘68/’69, quella che l’avrebbe visto partire titolare al posto di Bovone, con una scelta che Messina portò avanti quasi contro tutto e tutti. Per questo motivo colui il quale Aldo Giordani soprannominerà “L’Antimago per natura”, in uno dei suoi soliti colpi di genio, ha da sempre un posto speciale nel cuore di Meneghin: “Aveva una dote su tutte: l’entusiasmo. Un entusiasmo a dir poco contagioso, sposato a sincerità e genuinità. Ammetteva di non essere un infallibile stratega o un grande tecnico. Però sapeva di essere un eccellente preparatore, esperto sul lavoro di base, e sentiva che tutti glielo riconoscevano”.

 

La nomina di Messina a capo allenatore dopo l’allontanamento forzato di Tracuzzi («Non preoccuparti – disse a un Meneghin sconvolto prima di lasciare Varese – continua ad allenarti con grinta e dedizione, hai enormi potenzialità»), l’addio di Bovone e la contemporanea promozione di Meneghin, nonché lo sbarco in Italia di uno straniero di cui nessuno aveva sentito parlare (tal Manuel Raga, destinato a diventare uno dei cinquanta contributors più importanti della storia dell’Eurolega) aveva fatto sbilanciare molti addetti ai lavori verso una Varese destinata a lottare per la salvezza. In effetti l’Ignis veniva da una stagione negativa (5° in campionato) e nei piani della dirigenza doveva essere una sorta di anno zero, salutando gran parte della squadra vincente del passato, inserendo i giovani e preparandosi a una lunga ricostruzione. I fatti però racconteranno di un Flaborea dominante, di un Manuel Raga che in tutta la stagione sbaglierà solo due partite (“era dotato di una sospensione miracolosa, galleggiava in aria un’eternità” dirà Giordani), di un Aldo Ossola devastatore di difese e un Dino Meneghin lanciatissimo. L’Ignis vincerà lo Scudetto del 1969, il primo di una lunga serie per il suo pivot 19enne.

 

Festeggiamenti

 

In quel momento Nico Messina fece qualcosa che in pochi altri avrebbero fatto: davanti alla possibilità di allenare in Coppa Campioni fece un passo indietro e accettò che Aza Nikolic prendesse il suo posto. «Mentre il basket di Messina era veloce e divertente, quello di Aza era molto stressante e impegnativo. Sapevi a che ora dovevi entrare in palestra, ma mai quando ne saresti uscito (…) Nell’era Nikolic avrò mangiato la pasta calda a casa solo tre volte…».

 

Il perfezionismo di Nikolic è passato alla storia ed è stata la fonte dei tanti successi del “Professore”. Trasmettere una tale maniacale attenzione per i dettagli ai giocatori però non era facilissimo, come riassumerà con efficacia proprio Meneghin nella sua biografia: “Certe volte era una rottura di coglioni…”. Come non menzionare per esempio Ossola, che in occasione delle interminabili riunioni mattutine si presentava con gli occhiali da sole e si sistemava in fondo, così da poter dormire indisturbato. Con Nikolic però arrivò quella che Meneghin considera la seconda perla assoluta della sua carriera, dopo lo Scudetto del 1969: la Coppa Campioni del 1970, la prima per Varese. A Sarajevo l’Ignis sconfisse il Cska Mosca in una partita tiratissima, con Meneghin che si ritrovò accanto a Flaborea per sollevare la coppa.

 

È probabilmente in quel momento che Meneghin divenne veramente consapevole per la prima volta di cosa fosse la vittoria. Da quel momento in poi dedicò tutto sé stesso alla costante ricerca di un modo per vincere ancora e ancora, spingendo fisico e volontà sempre più all’estremo delle proprie possibilità. «Quando nacque mio figlio Andrea fu una gioia enorme, però vincere è un’altra cosa. È una sensazione che esplode e che riempie dalla testa ai piedi. La vittoria è di color rosso».

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Tags : basket italianoolimpia milano

Francesco Anichini scrive sul Corriere di Siena, sul BuzzerBeaterBlog e sul suo sito Panem Et Circenses.

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