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Il genio di Xavi
27 ott 2014
27 ott 2014
Ha già salutato la Nazionale e prima o poi smetterà del tutto. Come Xavi ha superato i propri limiti ritagliandosi un posto nella storia.
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Se nella storia certi errori si ripetono non è solo perché l’intelligenza dell’essere umano è sopravvalutata, ma perché a volte quegli errori davvero sono inevitabili. Nel calcio, l’errore nel quale tutti sono prima o poi cascati è la fedeltà ai senatori di un ciclo vincente: quando inevitabilmente, poi, arriva la sconfitta sono tutti bravi a riconoscere a posteriori un tipo di errore che è comunque difficile non compiere: perché i grandi giocatori quando invecchiano, sì, fanno sempre con meno frequenza quello che sanno, ma continuano comunque a farlo meglio degli altri.

Gli ultimi casi di questa fedeltà fino alle conseguenze estreme sono state il decadente 2013-2014 del Barcellona e ancora di più la figuraccia spagnola nell’ultima Mondiale. Con una differenza però, che in questo caso sia Tata Martino che Vicente del Bosque un cambio in corsa, non troppo convinto e non troppo fattibile per i margini offerti dalla rosa, l’hanno abbozzato. E questo cambio è passato per le due panchine, anzi i due affronti ricevuti da Xavi Hernández nelle partite che hanno deciso rispettivamente le sorti del Barça nella Liga (l’ultima con l’Atlético al Camp Nou) e della Spagna al Mondiale (il dentro o fuori col Cile).

A posteriori, dopo che Xavi ha annunciato l’addio alla Nazionale, quella panchina contro il Cile suona forse un po’ ingrata, e non solo perché effettivamente Xavi non era stato fra i peggiori nell’umiliazione subita dall’Olanda, ma perché Xavi l’ultima chance per uscire a testa alta la meritava. Chissà, per una questione di puro talento e orgoglio, per quei novanta minuti, solo per quei novanta, magari poteva ancora fare meglio di tutti.

Con un addio un po’ così, senza rancore ma non senza amarezza, lascia la Roja il giocatore più influente degli ultimi 30 anni di calcio spagnolo, riuscito là dove non era riuscito Raúl: a superare i confini pure enormi di un grande club per dare identità a tutto un movimento calcistico. Xavi è il più influente perché nessuno come lui è arrivato a rappresentare con tanta forza un’idea sul campo. Xavi è il più influente perché anche quando altri sono più bravi di lui, o giocano meglio di lui, il contesto in cui si muovono è quello creato da Xavi, e non è pensabile senza Xavi. E il paradosso è che il giocatore che più influisce sull’identità delle squadre in cui gioca è un calciatore che, per sua stessa ammissione, senza la squadra non esiste.

Xavi dipende totalmente dal movimento dei compagni davanti a lui, e in mancanza di ciò, gli vengono immediatamente imputati tutti i difetti della squadra: “è troppo orizzontale”, “non rischia mai”, sono accuse saltate fuori in ogni momento infelice delle squadre di Xavi (nel 2008 nel pieno della crisi dell’ultimo Rijkaard, un articolo del commentatore Marcos López che definiva Xavi una “grande menzogna” raccolse molti più consensi di quanto ora sembrerebbe normale). E a dividere sostenitori di Xavi e scettici, soprattutto prima della svolta dell’Europeo 2008 (per il diretto interessato, Aragonés è l’allenatore più importante della carriera, persino più di Guardiola), anche un altro interrogativo: le prestazioni brillanti di Xavi sono conseguenza di un contesto creato da altri (Ronaldinho, Deco, Iniesta, Messi..) o è lui stesso causa principale di quel contesto?

L’identità, l’idea, la filosofia di gioco ossessivamente ribadite sono la chiave per interpretare un giocatore che prima ancora di giocare pensa calcio, arrivando ad estremi piuttosto fastidiosi quando nelle interviste il suo pare l’Unico Calcio Possibile.

Contro ogni evidenza, per Xavi uno come Mourinho non entrerà mai nella storia, perché nella storia ci entrano solo quelli che hanno portato qualcosa di nuovo, come Cruijff, come Sacchi, come Ferguson e Guardiola. E di Xavi e “Xavismo” sono imbevuti i commentatori spagnoli fin quasi alla possessione diabolica. Ci vorrebbe infatti l’esorcista per estirpare l’uso su tv e giornali iberici delle espressioni “jugar bien” o addirittura “jugar al fútbol” come sinonimo di possesso-palla. Se per Frossi e Brera uno 0-0 è la partita perfetta perché senza errori, per un commentatore spagnolo nella partita perfetta le due squadre avranno l’80% di possesso-palla.

L’ossessione identitaria di Xavi è tale da arrivare a spettacolari acrobazie verbali come questa, dopo una vittoria sul campo del Betis nella scorsa Liga: “Nel momento in cui l’avversario ti pressa alto e riesci ad uscirne, si crea uno spazio che uno con le mie caratteristiche cerca di sfruttare. Questo non è giocare in contropiede, ma trovare lo spazio, e ne dobbiamo approfittare. È lecito. Nel campo del Betis abbiamo trovato lo spazio senza aver bisogno di 20 o 30 tocchi. Più che il nostro stile, ciò che è cambiato è che tutti ora vogliono giocare a calcio… Il Barça non ha cambiato stile, non c’è niente da discutere” (il corsivo è mio per sottolineare le acrobazie).

Insomma, se davvero dovete odiare qualcuno in rappresentanza di Spagna e Barça, se dovete odiare qualcuno per aver a tratti disumanizzato il calcio, averlo reso quasi un altro sport, in cui l’errore quasi non è contemplato, l’alternarsi di opportunità fra una squadra e l’altra scompare, dove le emozioni sono differite, sospese, congelate, e il gioco assume un carattere così cerebrale da diventare non solo una tortura psicologica per gli avversari ma talvolta un’esperienza felicemente straniante persino per i suoi sostenitori, sapete a chi rivolgervi.

Tutta la nostra solidarietà va ai bambini che parteciparono alla puntata de “La Classe del Barça” (programma di Barça TV in cui giocatori della prima squadra insegnano la tecnica ai pulcini blaugrana) con Xavi protagonista: mentre nella puntata di Ronaldinho ai pargoli viene offerta un’importante lezione di calcio e di vita (ovvero come mettersi e sfilarsi una maglietta mentre si palleggia con la testa), a Xavi non sembra vero di poter fare il professorino pedante e chiedere in apertura: “bambini, lo sapete chi è Johan Cruijff?”, stroncando sul nascere ogni velleità di semplice divertimento.

Dietro tanto fanatismo però c’è una storia di successo che nasce dalla consapevolezza e dal superamento dei propri limiti. “Non posso prendere palla e dribblarne tre come Messi e Ronaldo”, ricorda costantemente Xavi: però se non puoi dribblarne tre puoi sempre giocare a non perderla mai. Non hai lo spunto sul breve che lascia piantato lì l’avversario, però hai comunque il baricentro basso e puoi girare come una trottola sul posto. Metti il corpo fra il pallone e l’avversario, con la coda dell’occhio guardi da dove cercano di sottrarti il pallone e lo sposti nel senso opposto. Ecco che nasce la “media vuelta”, la “pelopina”, (da “Pelopo”, soprannome del catalano) o comunque si voglia chiamare la mezza giravolta sul posto con cui Xavi elude qualsiasi tentativo di pressing. Ed è una giocata che segna la storia recente del calcio mondiale.

Se un’altra storia di superamento dei propri limiti, quelli del Guardiola giocatore (non aveva nessuna capacità né di corsa né di contrasto, eppure venne piazzato davanti a una difesa di 3 soli uomini da Cruijff, fra lo stupore generale: evitava i contrasti intuendo prima i passaggi da eseguire), segna la Prima Rivoluzione Blaugrana, quella “cruijffista”, non si può scindere da questa capacità di Xavi il successo della Seconda Rivoluzione, quella del Guardiola allenatore.

Il Barça del Guardiola allenatore ha sì seguito l’impronta storica di Cruijff e quella (sottovalutata ma importantissima) di Van Gaal, “gioco di posizione” e triangoli per tutto il campo, ma passando la frontiera dal 60% medio di possesso-palla al 70% ha introdotto una differenza non solo quantitativa ma qualitativa. Qualcosa di davvero nuovo. Nuova è l’enfasi di Guardiola sul portare palla per creare superiorità e effettuare un numero sufficiente di passaggi per salire in blocco (la teoria dei “15 passaggi preliminari”), ma sono state determinanti le caratteristiche di Xavi nel conferirle credibilità sul campo. La svolta del 70% di possesso-palla affonda però le sue radici prima ancora di Guardiola, nel cambio del ruolo di Xavi operato da Rikaard.

A fine 2003, nel mezzo della prima stagione di Rijkaard e Laporta, le prospettive erano tutt’altro che rosee per un Barça che ancora si trascinava dietro l’approssimazione degli anni della presidenza Gaspart. Toccato il fondo con un 5-1 incassato sul campo del Málaga, il mercato di gennaio offre una soluzione che anche se solo per metà stagione e in prestito, è decisiva nel far andare tutte le tessere al loro posto: Edgar Davids. Da mezzala sinistra con propensione ad allargarsi l’olandese regala la massima libertà al miglior Ronaldinho di sempre e, quello che ci interessa, consente in generale il passaggio dal 4-2-3-1 malriuscito dei primi mesi a un 4-3-3 asimmetrico in cui Xavi si sposta qualche metro avanti e, da mezzala, definitivamente esplode (la vittoria al Bernabeu con gol di Xavi su assist scucchiaiato da Ronaldinho consacra quel Barça che poi vincerà i due campionati successivi).

Nasce con Xavi l’interior de posesión, la “mezzala di possesso”: nel secondo ciclo trionfale del Barça la direzione del gioco non ricade più sul giocatore davanti alla difesa, che non è più un regista come Guardiola ma un giocatore più fisico o comunque difensivo (Edmilson, Rafa Márquez, Touré adattato, Busquets), ma sulla mezzala Xavi che, anche abbassandosi nelle continue rotazioni con l’uomo-sponda Busquets, dà il tempo a tutti i compagni di salire e mantenere sempre le distanze giuste nella metà campo avversaria, facilitando così il successivo recupero della sfera. Con Guardiola Xavi si consacra come elemento indispensabile per dare continuità al gioco offensivo e, indirettamente, equilibrio nelle transizioni difensive. La sicurezza difensiva di un catenaccio, solo che il lucchetto lo metti non al limite della tua area ma di quella avversaria, e con tutta la tua squadra riversata avanti (invece con la Spagna difensivista di Del Bosque, Xavi la palla continua a non perderla, ma compagni oltre la linea della palla se ne vedono pochini).

L’importanza storica del Xavi “interior de posesión” si nota anche guardando partite vecchie del Barça di Cruijff e di Van Gaal, squadre che a differenza dell’undici di Guardiola non riuscivano ad accompagnare alla brillantezza offensiva un simile equilibrio difensivo. Le partite pazze del Dream Team di Cruijff non si contano, e il Barça di Van Gaal è passato alla storia anche per le ripetute dimostrazioni di impotenza contro il contropiede del Valencia del Piojo López.

E l’importanza di Xavi la dimostrano indirettamente anche i continui tentativi finora effettuati da Guardiola, e mai del tutto riusciti, di trovare anche al Bayern una formula per consolidare possesso e transizione difensiva ai limiti dell’area avversaria, per ritrovare quell’equilibrio mai visto prima di Xavi, in cui il possesso era così prolungato e il recupero del pallone così immediato da cancellare la tradizionale distinzione fra le varie fasi, introducendo un nuovo concetto del gioco.

Dimostrazioni indirette e soprattutto dirette (si veda la finale di Champions 2011, che gira dal lato del Barça quando Xavi trova la posizione giusta per eludere il pressing iniziale dello United) del fatto che Xavi è stato causa molto più che conseguenza di un sistema di gioco così dominante.

Xavi pesa talmente tanto che è difficile liberarsene anche quando non può più essere al centro del tuo sistema: l’ultimo Barça di Vilanova, Roura e Martino simboleggia questa difficoltà, perennemente diviso fra momenti di maggior verticalità, dando pieno sfogo a Messi e Fàbregas, e momenti nei quali torna ad avere bisogno di Xavi, anche di uno Xavi declinante, per ritrovare la continuità di manovra e non allungarsi troppo. Un esempio è la vittoria del Bernabeu nella scorsa stagione, forse l’ultima grande recita del nostro protagonista: la superiore lettura del gioco di Xavi è determinante nel mandare a vuoto il pressing anarchico di Di María e smarcare Messi tra le linee. Xavi sempre più spesso è superato dal ritmo delle partite, ma il Barça deve ancora comunque trovare un equilibrio migliore di quello garantito dal miglior Xavi. Eccolo il dramma dei grandi campioni che invecchiano e dei cicli che sai che stanno finendo ma il cui declino non puoi interrompere.

E l’ombra di Xavi rischia di perseguitare il Barcellona anche negli anni a venire, ove il club non riuscisse a completare la transizione al nuovo ciclo nei termini giusti: cioè la ricerca di un Barça grande che non debba esserlo necessariamente allo stesso modo del Barça 2009-2011. Potrebbe finire con il perdersi nell’inseguimento di quel ricordo, sfociando nella ripetizione pappagallesca di quel sistema di gioco (una deriva in stile-Ajax), e nella ricerca obbligatoria di uno che faccia da Xavi anche quando Xavi non ce l’hai.

Luis Enrique, che ha accolto la permanenza di un Xavi inizialmente incline all’esilio in Qatar o Stati Uniti con rudi dimostrazioni di affetto (pare gli abbia detto “sono molto contento, però non mi rompere le palle se non giochi”) sembra aver preso la via di un sistema diverso, in cui non è previsto “uno Xavi” (le mezzali tendono ad allontanarsi dal pallone più che abbassarsi per riceverlo), mentre del Bosque sembra alle prese con un problema più spinoso (aggravato dal ritiro dalla Nazionale anche di Xabi Alonso) nel riproporre lo stesso modello ma con interpreti ben diversi come Koke e Busquets.

E forse la chiave è proprio insistere sul fatto che sono diversi, perché un altro come Xavi difficilmente lo vedremo per molto tempo.

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