Il generoso
Ali Karimi, genio calcistico iraniano.
Mago sotto la neve
La prima stagione in Germania si conclude però in modo brusco, a marzo 2006: sotto la neve di Amburgo, Ali si allunga in tackle ma il piede d’appoggio gli rimane sotto, compiendo un movimento che ricorda quello che appena un mese prima aveva fatto a Roma la caviglia di Totti, in un contrasto con Vanigli dell’Empoli. Sin lì Karimi ha accumulato 20 presenze, molte ottime prestazioni, mettendo a segno però solo due gol (il primo a dicembre, qui, a 0:22, nel 3-3 strappato a Dortmund, molto bello).
Rientra a metà della stagione seguente ma gioca solo 13 partite; recupera lentamente, in un calcio sempre più fisico, e in cui il ruolo di fantasista assume altre dimensioni; si sente ormai sfiduciato, va a un ritmo diverso rispetto alla squadra: non perché non possa reggerlo in assoluto, bensì perché in campo sembra esserci una differenza tangibile tra la considerazione che Karimi ha della sua capacità di influire sul gioco, di produrlo, di essere leader tecnico, e quella che ne hanno i suoi compagni. Dal punto di vista tattico, spinto dalla sua istintività e attratto dal pallone, disordina le linee della squadra. A volte, guardando le immagini di Karimi col Bayern, si ha l’impressione che se impostato e allenato in un ruolo preciso (per la capacità di portare il pallone, Karimi sembra una mezzala di possesso ideale nel calcio di oggi), avrebbe potuto dare un’altra dimensione alla sua esperienza europea.
Invece Ali è arrivato in Europa anagraficamente maturo, con la nomea del grande giocatore in piccoli contesti, e con un pubblico che già da qualche anno gli chiedeva di fare un salto ritenuto ampiamente alla sua portata. Qualcuno vocifera anche che Ali Karimi sia tra i giocatori del Bayern che conducono una vita dissoluta fuori dal campo, che sarebbero talmente tanti che una emittente tedesca ribattezza il Bayern “Fc Hollywood”. L’anno seguente i bavaresi comprano Ribery, e Ali Karimi decide di accettare un’offerta dal Qatar. È un tipo orgoglioso ed invece che prolungare la sua esperienza di un altro anno (il Bayern gli offre un rinnovo), capisce che i riflettori non sono più puntati su di lui.
L’infortunio di marzo 2006, tra l’altro, capita a tre mesi dall’inizio dell’unico Mondiale che potrebbe vivere da protagonista, nel pieno della maturità, e dopo aver testato i ritmi del calcio europeo. Ali Karimi recupera lentamente e si presenta al Mondiale in condizioni poco più che decenti. Ma anche in nazionale ha diversi nemici, probabilmente per il suo modo diretto e a volte brusco di esprimere le proprie opinioni.
Uno che ad Ali Karimi non va proprio giù è, ad esempio, Ali Daei.
Le due facce del calcio iraniano
Ali Daei e Ali Karimi sono due icone molto diverse, appartenenti a due differenti generazioni, e con una storia molto diversa alle spalle. Solo l’autostima li unisce. Ali Daei è di una generazione di mezzo, quella dei ragazzi che hanno passato l’adolescenza a temere la guerra, più che a sognare un futuro da calciatori; Karimi appartiene invece a quella successiva, la prima nata dopo la rivoluzione, con un’adolescenza passata in un Paese in fase di ricostruzione economica; Ali Daei è un esempio di abnegazione, che ha dovuto distillare con attenzione il poco talento avuto a disposizione, arrivando con la volontà dove con la tecnica non sarebbe arrivato, massimizzando i suoi punti di forza e diventando il più prolifico marcatore della storia delle Nazionali, costruendosi nel frattempo un’importante rete di rapporti di fiducia nell’establishment; Ali Karimi ha invece giocato sin dal primo giorno della sua carriera senza sentire l’esigenza di migliorare nulla, tantomeno il suo carattere, sfruttando anzi l’indulgenza generata attorno a lui dal suo talento per mostrare tutti i suoi spigoli, per agire a volte da capopopolo, forte della consapevolezza di essere un “animale calcistico” nuovo nel piatto panorama nazionale. Ali Karimi considera Daei “un approfittatore, che pensa solo ai suoi interessi”, ed è convinto anche lui che Daei sia stato convocato solo grazie ai rapporti col ct croato Zlatko Ivankovic. Nella prima partita del Mondiale tedesco del 2006 col Messico, sia lui che Karimi partono titolari. Dopo ’60 minuti, le squadre sono sull’1-1 e l’Iran soffre: Ali Daei cammina dall’inizio della partita, trascinando quello che ormai è diventato il suo quintale di peso. Karimi non ha la brillantezza dei giorni migliori ma è in partita: sullo 0-0, dopo aver saltato un avversario sulla sinistra, mette una palla tesa in mezzo, che Hashemian schiaccia di testa a botta sicura. Solo un miracolo di Oswaldo Sanchez impedisce alla palla di entrare.
Ivankovic, a sorpresa (“o forse era previsto?”, dirà Karimi alcuni giorni dopo), anziché togliere Daei sostituisce il Mago per far entrare Mehrdad Madanchi. Ali Karimi non la prende bene: uscendo dal campo, tira un calcio a un borsone, che quasi colpisce un assistente. Il Messico, di lì a poco, segna il 2-1 e il 3-1 finale.
Nella Nazionale iraniana,già divisa in fazioni pro-Daei e pro-Karimi, si apre uno squarcio difficilmente ricomponibile. Ivanovic minaccia di escluderlo dalla rosa per motivi disciplinari, poi invece ci ripensa e consuma una vendetta più sofisticata: nella seconda partita col Portogallo di Ronaldo, Figo e Deco, schiera Karimi titolare dietro a Hashemian, lasciando fuori Daei. Il 2-0 finale per i lusitani non rende l’idea del loro dominio, e ovviamente Karimi fatica a imporsi. Al 65’ viene sostituito nuovamente, e stavolta esce in silenzio. Nell’ultima partita con l’Angola (1-1, Iran ultimo nel girone), Karimi non andrà nemmeno in panchina ed il Ct sottoporrà alla stampa la sua verità di circostanza: “Si è chiamato fuori per via di un infortunio”.
Ali Karimi diventa via via sempre più intrattabile, ed inizia ad elaborare i suoi rimpianti: quelli sulla Nazionale ma anche quelli personali, la sensazione che il treno per entrare nel calcio che conta sia passato, e in ogni caso non sembra più disposto ad accoglierlo da Mago, com’è abituato.
Dopo un anno in Qatar, nel 2008 Ali torna a casa, in prestito al suo Persepolis, convinto dall’allenatore e amico Dariush Mostafavi. Forse si decide a tornare in patria per vestire i panni del profeta, non più solo calcistico ma anche, in senso ampio, “politico”. Ali inizia inizia infatti a ricondurre pubblicamente il fallimento della Nazionale ad una ragione ultima: l’incompetenza all’interno della Federazione calcistica iraniana, essenzialmente a causa dell’eccessiva presenza di esponenti dei Pasdaran all’interno dei quadri o della proprietà di quasi tutte le società (tranne due). Fa i nomi, compie attacchi frontali contro una èlite che tiene le redini del calcio iraniano e non solo. Dice spesso la verità e ne paga le conseguenze, testando però di volta in volta l’affetto di un paese intero, disposto a prendere le sue difese.
La prima squalifica, dopo che Karimi in un’intervista definisce la Federazione un “manipolo di incompetenti”, arriva il 20 maggio 2008. Ci vuole l’intervento diretto del presidente Ahmadinejad (grande appassionato di calcio) e quello del nipote dell’ayatollah Khomeini, Seyyed Hassan, per annullarla, come si verrà a sapere addirittura in un cablo pubblicato da Wikileaks un anno dopo. Ad Ali, che verrà convocato in Nazionale il 2 giugno seguente contro gli Emirati Arabi Uniti, chiedono di rivedere le sue posizioni. Ma lui rincara: «Le mie critiche corrispondevano a verità. E la verità non può far altro che bene al calcio in questo paese».
La stagione 2008-2009 col Persepolis si chiude al quinto posto in campionato, con Ali che segna cinque gol, di cui uno nel derby pareggiato con l’Esteghlal. Il Pirouzi non è più la squadra dominante di fine anni ‘90 e la classe di Ali Karimi non può più bastare per vincere.
Capopolo
L’episodio più famoso dell’Ali politico avviene il 17 giugno 2009, giorno in cui è titolare nella partita di qualificazione ai Mondiali 2010 contro la Corea del Sud. Da quattro giorni Teheran è nel caos: il 12 giugno Mahmoud Ahmadinejad è stato rieletto presidente del Paese, sconfiggendo il candidato riformista Mir Hossein Mousavi. Sono in molti a ritenere che il processo elettorale sia stato pilotato, e il 13 giugno nella capitale scendono in strada migliaia di manifestanti, colorati di verde: il colore dell’Islam – a cui i riformisti si richiamano, rivendicando la loro organicità al sistema e rielaborando il messaggio di Khomeini in senso “progressista”, ponendosi come alternativa di governo rispetto alla fazione conservatrice – e il colore del “movimento verde” a sostegno di Mousavi, che chiede il rispetto delle logiche democratiche.
Tra il 13 e il 15 giugno, a Teheran, si assiste al più grande assembramento pubblico nel Paese sin dal 4 giugno 1989, giorno dei funerali di Khomeini. I basiji – i volontari che nelle operazioni di repressione fungono da supporto ai pasdaran – entrano in azione, e sulle strade vengono effettuati centinaia di arresti e aggressioni. Alcune persone vengono uccise, la più famosa delle quali è Neda Agha Soltan, colpita da un proiettile vagante mentre marciava con suo padre. Altre persone, molte altre, vengono ferite. Altre ancora torturate in carcere. È un brutto momento per la Repubblica islamica, e il sistema “scricchiola”: metà del Paese, perlomeno, inizia a non credere più alla particolare democraticità dell’impianto istituzionale iraniano, che prevede numerosi istituti elettivi.
Durante la foto di squadra prima del fischio d’inizio, quattro giocatori –Mehdi Mahdavikia, Javad Nekounam e Hossein Kaebi, oltre ovviamente ad Ali Karimi – indossano un polsino di colore verde: un segno inequivocabile. Sembra che alcuni emissari del governo, a fine primo tempo, abbiano chiesto ai quattro di toglierselo, vedendosi rispondere “picche”. Tornano in campo con i polsini e finiscono la partita, diventando automaticamente eroi per una sera, perlomeno per una parte del Paese.
I quattro si giustificheranno dicendo che il polsino aveva un significato religioso: d’altronde, come detto, il verde è il colore dell’Islam. Nessuno nel governo ci crede ed il fatto che abbiano tutti giocato un periodo in Europa – incorrendo, secondo la retorica rivoluzionaria, in gharbazadegi, ovvero intossicazione da Occidente– non fa che rafforzare le convinzioni dei loro detrattori, convinti che Mousavi sia sostenuto dagli americani. Ma dopo alcuni giorni di polemiche la vicenda si sgonfia nonostante qualcuno, in quei giorni, avesse temuto che ai giocatori sarebbe stato imposto non solo di lasciare la Nazionale ma anche impedito di lasciare il Paese, ritirando loro il passaporto.
Qualche mese dopo le elezioni, Ahmadinejad fa visita al ritiro della Nazionale e Ali Karimi si fa immortalare in condizioni di visibile ammutinamento: si gira teatralmente dall’altra parte durante il discorso del presidente alla squadra e si copre la faccia infastidito durante la foto di gruppo con quest’ultimo. È ormai abbastanza chiaro come la pensi politicamente.
Kaebi e Mahdavikia lasciano volontariamente prima la Nazionale e poi il Paese, tornando a giocare in Europa. Ali, invece, rimane in patria. Il Persepolis, però, non gli rinnova il contratto: la decisione è di Abbas Ansarifard, presidente del Persepolis subentrato a Mostafavi, legato ai pasdaran. Ali firma così per una piccola società neopromossa di Teheran, lo Steel Azin, a cui strappa un contratto annuale da circa 400.000 dollari. In campo, sembra ormai volersi soprattutto sfogare, in varie maniere. Tanto nervosismo (3 rossi in stagione), ma anche tanto calcio: segna nelle prime quattro partite di campionato e a dicembre è già a quota 11 gol. I (pochi) tifosi del giovane Steel Azin, fondato nel 1999 e alla prima stagione nella massima serie, non ci credono: è tornato il Mago, ed è anche per noi.
Lo Steel chiude quinto in classifica, un risultato del tutto inatteso. Ali segna 14 gol, colleziona un numero imprecisato di assist e partecipa a gran parte delle reti della squadra. Si sente, però, come un amante deluso, che si distrae con altro in attesa di un segnale. È ancora innamorato del Persepolis, e forse, dopo aver metabolizzato rimpianti e rimorsi di una vita, l’unica cosa che vorrebbe è chiudere la carriera nel club per cui continua a fare il tifo. Ad ogni intervista l’occasione è buona per fare riferimenti al Pirouzi, al fatto che “non hanno più bisogno di me”. È anche convinto che l’impossibilità di trasferircisi sia da attribuire, ancora, alla Federazione, e nella fattispecie ai militari. Un programma televisivo lo attacca con sarcasmo, sfruttando questa sua debolezza: “Ali Karimi è (mentalmente) instabile?”.
Quello che poi accade in occasione di Steel Azin-Persepolis ha del melodrammatico. Sull’1-1, l’arbitro fischia un fallo di mano davanti alla propria area a Karimi. È punizione per il Persepolis dal limite dell’area: Ali Karimi non è d’accordo, va verso il direttore di gara con fare minaccioso, accenna un testa a testa. Viene espulso immediatamente. È incredulo, indignato, e sta per farglisi di nuovo incontro. Anche il telecronista sembra sorpreso, quasi dispiaciuto: un paio di compagni lo trattengono e abbracciano; uno gli accarezza la nuca, lo stringe nel modo in cui si stringono le vedove.
Mentre esce dal campo – con lo sguardo basso, pieno di risentimento – il nutrito spicchio dei fan del Persepolis inizia a intonare il suo nome, a incitarlo come un tempo. Ali, a quel punto, si scioglie e fa una cosa completamente fuori script: senza rallentare il passo, va verso la tribuna, si leva la maglietta dello Steel, e sotto rivela quella del Persepolis. Ali saluta il suo “vero” pubblico, quasi scusandosi, mentre esce dal tunnel in lacrime. È un momento straziante, surreale, che però sfugge via in modo caotico, fulmineo, nel frastuono diffuso.
Il rapporto con lo Steel, ovviamente, precipita. Ad agosto 2010 la società lo sospende per non aver rispettato l’obbligo di digiuno durante il Ramadan, bevendo durante gli allenamenti davanti alle telecamere. Ma in realtà, come ben spiega la giornalista iraniana Niloufar Momeni, l’elusione del Ramadan è solo una scusa perché solitamente viene più o meno tollerata in Iran, soprattutto per i giocatori di calcio, ovunque dei privilegiati. Il motivo per cui Karimi è stato sospeso è più profondo: due settimane prima, sentendosi ormai autorizzato ad esprimere la sua opinione su ogni materia, ha criticato pubblicamente il comitato etico della Iran Pro League: una nuova istituzione, a cui capo è stato messo un messo un ayatollah di orientamento conservatore, che dovrebbe occuparsi di valutare la condotta dei giocatori e la loro aderenza alle pratiche religiose. Una delle tante espressioni dello zelo del regime.
Poco dopo le uscite di Ali sul comitato etico, un dirigente della società, Mostafa Ajarlou – ex capo della polizia, molto vicino a quadri intermedi dei Pasdaran – obbliga l’allenatore dello Steel Azin, Tubmakovic, a ridicolizzare Ali Karimi, schierandolo in posizione di difensore centrale nella partita contro l’Esteghlal (un “derby” personale per Karimi).
Dopo il match, Ali si sente nuovamente autorizzato a un’impietosa analisi delle strategie gestionali del club, responsabilità di Ajarlou: «Portare giocatori di alto livello nel club non ti garantisce successi. Un buon manager, in grado di garantire un ambiente professionale, risolverebbe i problemi della squadra. Per esempio, lo Steel Azin non può più permettersi di portare i tifosi allo stadio servendosi di incentivi alimentari. E nessun altro club accetterebbe di non avere uno sponsor come fa lo Steel». Il giorno dopo, Ali viene sospeso dalla società, ancora una volta ufficialmente per non aver rispettato l’obbligo del Ramadan, e per farlo apparire così agli occhi di molti un “cattivo musulmano”.
Nel Paese i suoi fan iniziano una campagna, e per lui si espongono anche molti giocatori. Dopo due settimane, quasi a furor di popolo, Ali viene riammesso in squadra dal board societario, e Ajarlou viene licenziato.