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Redazione basket
Il futuro della NBA
14 gen 2015
14 gen 2015
Conference, Draft, Salary Cap: cosa succederebbe se questi tre capisaldi del modello NBA sparissero? Tre domande sul presente e l’ipotetico futuro della miglior Lega del mondo.
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Ogni anno più o meno da quando ho iniziato a seguire la NBA (facciamo 10 anni fa per comodità), ci sono degli argomenti fissi su cui il mondo dei giornalisti, blogger e appassionati continuano ad arrovellarsi, in un loop continuo stile Giorno della Marmotta, senza mai trovare una vera soluzione. “Cosa fare per eliminare il

?”
“Come ridurre le 82 partite del calendario?”
“Ci sono troppi infortuni, cosa si può fare?”
Ma soprattutto… “Come evitare che le conference siano così squilibrate?”
La differenza del loop di quest’anno è che (pare) la NBA abbia seriamente iniziato a porsi il problema della riforma delle conference, anche a causa della spinta dei proprietari come Robert Sarver dei Phoenix Suns — perché poi, alla fine dei conti, sono gli unici che possono fare qualcosa, essendo

quelli che ci mettono il vil denaro.

 

Perché proprio Sarver? È semplice: perché lui e la sua squadra sono gli ultimi ad aver subito l’ingiustizia dell’ormai decennale squilibrio tra le due conference, rimanendo fuori dai playoff nella scorsa stagione per il semplice fatto di essere nella Western Conference invece che nella Eastern. Il loro record di 48 vittorie e 34 sconfitte, fuori dai primi 8 posti per una sola W a ovest, avrebbe permesso ai Suns di essere terzi a est, alla pari dei Toronto Raptors. Ed è

— anche se va anche detto che in passato ci sono stati decenni come gli anni ’80 in cui era la Eastern Conference a dominare, quindi può anche darsi che siamo semplicemente in una fase di transizione e tutto questo discorso possa essere ribaltato tra dieci anni.

 

In ogni caso, il fatto di avere un problema di

, e la cosa non può lasciar indifferente la NBA, che ha fatto di questo concetto uno dei cavalli di battaglia dell’ultimo lockout. La proposta più “semplice” da attuare sarebbe di mantenere il calendario attuale – nel quale una squadra affronta le 14 della stessa conference per un totale di 52 volte e le 15 dell’altra per 30 – facendo però in modo che le migliori 16 vadano ai playoff

.
In questo modo, la classifica della scorsa stagione sarebbero stata questa:

 



 

Questa classifica avrebbe portato, ad esempio, ad un primo turno con scontri “intra-conference” come San Antonio vs Charlotte, OKC vs Brooklyn, e L.A. Clippers vs Washington, favorendo in questo modo le migliori squadre della regular season che avrebbero avuto un primo turno più “agevole” rispetto a quello che hanno dovuto realmente affrontare contro Dallas, Memphis e Golden State – tutte serie conclusesi solamente a gara-7 con mille momenti epici; contro quelle della Eastern avrebbero probabilmente vinto in 4 o 5 partite,

.

 

Quindi probabilmente avremmo avuto un primo turno meno spettacolare rispetto al

che sono state le prime due settimane di playoff a Ovest (e c’è chi lo vorrebbe mantenere così

), però sarebbe stato anche più giusto che i Phoenix Suns avessero la loro occasione di dare battaglia agli Houston Rockets, invece di osservare gli Indiana Pacers trascinarsi fino alle finali di conference nonostante fossero nettamente più scarsi di tutte le otto squadre della Western.
Quindi, se la soluzione è così semplice, perché non attuarla? Il problema è che la

è ben più complessa del semplice “butta in un calderone le migliori 16 e quello che esce esce”: ci sarebbero problemi logistici enormi nell’organizzare anche solo

serie di playoff se le due squadre

l’una dall’altra come Clippers e Wizards, in particolare con l’attuale formato del 2-2-1-1-1, che avrebbe un impatto devastante sui fisici dei giocatori costretti ad essere sballottati tra tre fusi orari diversi nel giro di qualche giorno (anche il vecchio formato 2-3-2 non aiuterebbe molto). Inoltre, bisognerebbe riconsiderare anche il calendario da 82 partite, i viaggi, e la scomparsa delle rivalità di conference (chiedete a un qualsiasi appassionato di NBA anni ’90 di New York e Miami e poi aiutatelo ad asciugarsi gli occhi dalle lacrime).

 

Gente ben più in gamba di me ha scritto di tutti questi problemi a profusione —

Zach Lowe su Grantland, per dirne uno — e ci sono state proposte molto intelligenti per riorganizzare le division, il calendario e i viaggi in uno scenario senza conference, come

di Tom Ziller su SB Nation.

 

Il fatto è che la NBA è un ecosistema complesso e molto particolare nel quale, se tocchi una sua parte fondamentale come il calendario o le conference, questo provoca un effetto a catena su tutto il resto dell’apparato come il Draft, l’indotto totale della Lega e, ovviamente, l’equilibrio competitivo. David Stern ha impiegato decenni per raggiungere questo equilibrio che

certamente funziona — a meno che non pensiate che a ESPN e TNT piaccia separarsi da

in 9 anni

— e fintanto che funziona quello, non c’è una reale spinta a cambiare una cosa che produce quel tipo di guadagno, anche se “sportivamente ingiusta”.
Quindi, in definitiva, fino al giorno in cui la NBA non avrà un danno economico dallo squilibrio delle conference, non aspettatevi grandi cambiamenti. Con buona pace dei Phoenix Suns.

 
 



Fin dal 1950, il Draft è il passaggio che sancisce la fine della carriera amatoriale/scolastica dei giocatori facendoli entrare a pieno titolo nel professionismo NBA, il tutto cercando di distribuire il talento in maniera equa, con le peggiori squadre della stagione avvantaggiate nella scelta del miglior prospetto disponibile per dare a tutti la possibilità di vincere.

 

Togliendo questo passaggio-cardine del sistema professionistico dello sport americano, si lascerebbe ai giocatori la piena scelta delle loro destinazioni in un procedimento di free-agency ovviamente inedito per la valutazione dei fattori da parte delle squadre. Come valutare monetariamente (nel Draft i primi 3 anni di stipendio sono fissi e immutabili, secondo la posizione in cui vieni scelto) un prospetto che arriva da un campionato completamente differente?

 

Da parte dell’atleta la situazione è sicuramente vantaggiosa, perché concede la possibilità di poter decidere autonomamente dove iniziare la propria carriera, senza sottostare alla scelta altrui. Sarebbe anche interessante sapere quali parametri vengono utilizzati in fase di scelta: si può preferire il miglior contesto per la crescita personale, oppure quello che può maggiormente mettere alla prova, o ancora quello nella posizione migliore per vincere subito o semplicemente quello che mette sul piatto la miglior offerta dal punto di vista economico. Scelte sicuramente difficili per ragazzi appena usciti dall’adolescenza, ma in questo modo possono essere assoluti padroni delle loro carriere, come succede in tutti gli altri ambiti professionali — basti pensare al tennis professionistico, dove gli atleti sono considerati tali già a 16 anni.

 

Per le franchigie, invece, oltre alla già citata questione monetaria, entra in ballo anche l’

che possono avere agli occhi dei prospetti, perché il contratto con la squadra NBA è solo una delle fonti di guadagno di un giocatore professionista. Questo potrebbe portare ad un grande squilibrio all’interno della Lega – basti pensare ai vantaggi che potrebbero avere i grandi mercati come Los Angeles e New York, che offrono ulteriori fonti di guadagno extra-cestistico ed enorme esposizione mediatica — ma anche una presa coscienza da parte delle proprietà, costrette a porre rimedio alle carenze della franchigia nel minor tempo possibile senza poter ricorrere a espedienti come il

.

 

Pensando agli ultimi sviluppi, Andrew Wiggins sarebbe comunque andato ai Cavs pre-LeBron oppure avrebbe scelto la sua Toronto? Avrebbe accettato i soldi che gli avrebbe potuto offrire una Orlando o la possibilità di lottare per l’anello ai Clippers?

 

E Philadelphia e New York, se non avessero la possibilità di “cadere in piedi” con una delle prime scelte del Draft, sarebbero in condizioni così pessime dal punto di vista del materiale tecnico a disposizione?

 
 



 

Questo invece è un argomento impossibile da trattare in pochi minuti, per l’enorme complessità del sistema su cui si poggiano l’economia e l’equilibrio competitivo della Lega.

 

L’esempio più semplice? Con riferimento ai contratti individuali, le cifre di cui il pubblico è a conoscenza non rappresentano i soldi che effettivamente finiscono sui conti in banca dei giocatori. E non per l’impatto delle tasse (che c’è,

e ha

), ma perché il

incassato da tutti i giocatori durante ogni stagione è una cifra fissa e predeterminata, pari al 51% dei guadagni totali della NBA (il cosiddetto

: ricordate le discussioni durante il lockout del 2011? Ecco, la questione principale era questa, la spartizione della “torta” dei soldi) e indipendente dagli accordi che i singoli atleti raggiungono con le singole franchigie.
Il

viene fissato sulla base di previsioni economiche e ad una cifra che, alla resa dei conti, possa consentire di arrivare ad un totale nominale (quello appunto che viene

) simile al totale reale (il suddetto 51% del B.R.I.), così da richiedere un aggiustamento minimo, inferiore al 10%.

 

Fatta la doverosa premessa… slegare totalmente gli ingaggi dei giocatori dagli introiti della Lega, come succede in sport vicini a noi giocati con la palla tra i piedi? Inconcepibile. Però si può provare a immaginare almeno a grandi linee cosa potrebbe succedere se, pur mantenendo il suddetto concetto, si tentasse la strada della liberalizzazione: niente più cap, niente più limiti massimi e minimi ai contratti individuali, niente più restrizioni agli scambi. Liberi tutti.

 

Per quanto riguarda le squadre, in linea teorica un sistema poco regolamentato dovrebbe avvantaggiare chi ha budget superiore, quindi i già citati

. Con il rischio, ovviamente, di trovarsi di fronte allo scenario tipico-europeo in cui le “grandi” ammassano talento e le “piccole” stanno a guardare, tranne rare eccezioni.
Ma…
Il sistema attuale

di spendere più degli avversari. Anche MOLTO di più (i Nets nella stagione passata hanno speso in ingaggi oltre 100 milioni di dollari, a fronte di un salary cap inferiore a 60).
Lo sconsiglia fortemente e rende parecchio complicato, ma lo consente.
Eppure ad oggi solo cinque squadre (Cavaliers, Clippers, Knicks, Nets, Thunder) si trovano nella condizione di dover pagare la

, cioè ad avere un monte salari eccessivamente (secondo i parametri stabiliti dalla NBA) elevato.
In parte perché ciò comporta ulteriori limitazioni regolamentari alla capacità di ingaggiare nuovi giocatori, in parte perché ai proprietari piace guadagnare, in parte perché spendere più degli altri non offre alcuna garanzia di vittoria. Aiuta, certo. Ma gli esempi dei Nets degli ultimi due anni (90 milioni in tassa, come accennato) e dei Knicks degli ultimi due… lustri (ben oltre 200 milioni per un totale di un singolo turno di playoffs superato, nel 2013) sono abbastanza rilevanti.
E dato che lo scenario senza cap eliminerebbe solo la prima delle tre motivazioni appena elencate, nulla assicura che si assisterebbe a particolari eccessi verso l’alto.
Quel che è certo è che ci sarebbero verso il basso, perché le squadre dedite al

non avrebbero più alcun limite da rispettare (il

, cioè l’obbligo di spendere per gli ingaggi almeno il 90% del cap) e potrebbero probabilmente costruire squadre composte quasi esclusivamente da giocatori a bassissimo costo. Una fascia bassa di sole Philadelphia 76ers o quasi.

 

Per quanto riguarda i giocatori invece, l’abolizione del cap e degli altri vincoli avrebbe una conseguenza immediata: i più forti potrebbero ottenere ingaggi

rispetto all’attuale.
LeBron James e Kevin Durant “rischierebbero” di ricevere offerte nell’ordine dei 50 milioni di dollari l’anno (secondo il modello finanziario attuale) e i Curry, Davis e Harden del caso si assesterebbero appena sotto.
Ma se la spesa totale non dovesse crescere in modo sensibile (vedi sopra) e la singola

passasse ad occupare il 50% del monte salari totale (rispetto al 25% circa attuale), risulterebbe ancora più difficile riunire tre o anche solo due

in un unico spogliatoio, a meno di sacrifici economici rilevanti.
Perché non si prende questa strada? Perché questo sistema probabilmente penalizzerebbe eccessivamente i giocatori di

, quelli che ora guadagnano circa cinque milioni e che si troverebbero a guadagnarne al massimo un paio. E sono questi

a formare il “Terzo Stato” dell’associazione giocatori, quello meno nobile ma anche più numeroso – e quindi da “proteggere” in fase di contrattazione, per rappresentare gli interessi della maggioranza.
Soprattutto, questo modello non si attua perché i proprietari hanno bisogno di

. Lasciarli liberi rischierebbe di essere troppo pericoloso. Anzi, se non fosse per la ferma opposizione dei giocatori si sarebbe già in regime di hard cap (tetto unico, uguale per tutti e invalicabile, senza alcuna eccezione). Il che renderebbe ancora più difficile le concentrazioni di talento, ma senza alcun rischio per il sistema.

 

Quindi? Quindi state pronti, perché nell’estate 2017 il dibattito tornerà di estrema attualità, che all’orizzonte c’è un altro lockout.

 
 

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