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Il Flu game di Michael Jordan
14 mag 2025
Pubblichiamo un estratto dal nuovo libro di Dario Costa "Jordan. Le storie dietro le vittorie".
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Anche tra i Bulls comincia a insinuarsi il timore che le Finals prendano una brutta piega, timore che nelle primissime ore della mattina di gara-5 si trasforma in una sensazione molto vicina al panico.

Dalla sua suite nell’albergo in cui soggiorna la squadra, Jordan chiama lo staff medico e chiede di essere subito visitato. Quando Tim Grover, il suo personal trainer, e i medici dei Bulls entrano nella stanza si trovano di fronte Michael raggomitolato sul divano in preda a spasmi. Jordan fatica persino a parlare, ma riesce a far capire che da almeno tre ore non fa altro che vomitare a ritmo continuo.

La versione ufficiale, resa nota solo dopo la partita e poi trasformatasi in una specie di spy story ai confini con la leggenda metropolitana, parla di intossicazione alimentare causata da una pizza consegnata direttamente nella suite di Jordan la sera precedente. Qualcuno sostiene che ci sia stato del dolo e che la pizzeria che ha effettuato la consegna, evidentemente conscia di chi fosse il destinatario, abbia tentato di metter fuori causa Jordan con una pizza avariata. Altri parlano dei postumi di una notte brava nello chalet di proprietà di Robert Redford sulle montagne dello Utah e dell’età che finalmente comincia a presentare il conto a Michael.

Fatto sta che in quelle condizioni Jordan non è in grado nemmeno di partecipare all’allenamento mattutino della squadra, e la sua presenza per la partita serale appare subito come un miraggio lontano. Prima che trapeli la storia della pizza con tutte le teorie annesse, i Bulls comunicano solamente che Michael presenta sintomi influenzali ed è in forse per gara-5. In pochi, a dire il vero, si stupiscono nel vederlo arrivare al Delta Center tre ore prima del fischio d’inizio, perché per perdersi una gara di quella importanza, che potenzialmente può decidere la serie, Jordan non dovrebbe proprio essere in grado di reggersi in piedi.

In effetti, quando le due squadre si presentano sul parquet per le presentazioni dei quintetti, Michael sembra l’ombra di se stesso, barcolla un po’ e non riesce a celare lo stato a dir poco precario in cui si trova, ma è comunque lì con i compagni per la palla a due dopo essere rimasto a letto per tutto il giorno e aver smesso di vomitare solo una volta arrivato al palazzetto.

Il 1º quarto è quasi straziante agli occhi di chi ama Jordan e i Bulls, perché Michael fatica a tenere il campo, e i compagni, vedendolo in quelle condizioni, non sanno bene che fare. Utah ne approfitta e chiude il parziale in vantaggio 29-16. Jackson richiama Jordan in panchina a un minuto dalla fine del 1º quarto in modo da concedergli una pausa più lunga, ma all’inizio del 2º lo rimanda subito sul parquet perché, sintomi influenzali o meno, sa perfettamente che le possibilità di vittoria di Chicago dipendono dal fatto che Jordan recuperi almeno un po’ di energie.

Il 2º quarto, in questo senso, manda ottimi segnali perché, dopo aver segnato solo 4 punti nel primo parziale, Michael sembra man mano ritrovare il suo ritmo. Jordan gioca tutti e 12 i minuti del 2º quarto e – dimostrando di non avere smarrito la micidiale lucidità nell’interpretare i momenti della partita a dispetto delle difficoltà fisiche, visto che fatica a muoversi e a correre – segna 9 dei suoi 17 punti dalla lunetta. Buona parte dei tiri liberi Michael se li è guadagnati di puro mestiere, attirando i difensori dei Jazz nella sua trappola grazie a finte e controfinte e usando quasi come esca le sue gambe traballanti. Su di lui si alternano ancora una volta Hornacek e Russell, con Stockton pronto a raddoppiare, ma di fronte a quel Jordan così lento e così poco esplosivo tutti e tre faticano a prendere le giuste misure. Così, in una partita che sembrava avviata verso esiti disastrosi, all’intervallo lungo i Bulls sono sotto di soli 4 punti.

Al rientro in campo le due squadre sembrano aver dedicato il riposo negli spogliatoi a registrare le difese, perché da entrambe le parti segnare diventa un’impresa. A un minuto dalla fine è Utah a essere in vantaggio 85-84, ma il possesso è di Chicago. La palla, ovviamente, finisce nelle mani di Jordan, che nel frattempo è arrivato a quota 34 punti ma ora appare nuovamente in forte difficoltà dal punto di vista fisico. Il fallo che Michael si guadagna sfidando Russell è un altro piccolo capolavoro d’astuzia e lo manda in lunetta per la prima volta nella seconda metà di gara. Jordan segna il primo libero che dà il pareggio ai Bulls, mentre il secondo, a riprova di come le forze siano al minimo, va cortissimo. Michael riesce però ad avventarsi sul rimbalzo lungo e a riprendere possesso della palla, ottenendo così la possibilità di andare in vantaggio a quaranta secondi dal termine.

Nelle condizioni in cui si trova, di provare a penetrare nell’area di Utah – ben presidiata dai 218 centimetri del centro dei Jazz Greg Ostertag – non se ne parla; allora Jordan si affida a un gioco a due con Pippen sul perimetro. Il compagno gli restituisce la palla dopo aver accennato ad avvicinarsi al canestro e aver attirato il raddoppio da parte della difesa avversaria, lasciando così a Jordan lo spazio minimo per prendersi la tripla che manda avanti Chicago 88-85. In una doppia sequenza quasi inimmaginabile fino a quel momento, le due difese, che hanno rasentato la perfezione per quarantasette minuti, concedono due canestri facili a Ostertag da una parte e a Longley dall’altra e Utah chiama time out a 6 secondi dalla fine sul punteggio di 90-87 per i Bulls.

Nel tragitto verso la panchina, Pippen sorregge Jordan, che ora è arrivato davvero al limite di sopportazione e appare esausto dopo aver giocato oltre quarantaquattro minuti senza mai risparmiarsi. Nel minuto di sospensione Jordan resta seduto, immobile, quasi ripiegato su se stesso con in mano un bicchiere di carta pieno di Gatorade e un asciugamano calato sulla testa.

Il libero segnato da Stockton serve solo a stabilire il punteggio, 90-88, di quello che passerà alla storia come il “Flu game” di Jordan. Tra le tante tappe di una carriera leggendaria, quella di gara-5 delle Finals del 1997, giocata in uno stato psicofisico che definire difficile è un puro eufemismo e chiusa con 38 punti, 7 rimbalzi e 5 assist, rappresenta forse l’espressione più pura della classe immensa, della volontà indomabile e della incrollabile fede nei propri mezzi di Michael. Dal punto di vista sportivo, non è eccessivo definire il “Flu game” come un atto eroico, soprattutto se si considerano la posta in palio e la concreta possibilità da parte di Jordan non tanto e non solo di collezionare una figuraccia, quanto di subire un infortunio, assai probabile considerata la pessima condizione derivante da ventiquattr’ore trascorse tra brividi e conati di vomito.

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