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Il derby di ritorno, vent'anni fa
16 mag 2023
16 mag 2023
Gli effetti di un doppio pareggio sulla psiche.
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Nel 2003 vivevo il calcio senza applicare nessuna delle inibizioni che l’età adulta poi, anno per anno, cerca di imporre. Prima del derby di ritorno non avevo ancora compiuto tredici anni. Anni di trasformazione, così rapida e smagliata che mi rendo conto solo ora di averne ereditato un’impressione molto più vaga di quella vissuta, un acquerello impalpabile, che solo una terribile partita di calcio può ricalcare; allora recupero la fine dell’infanzia grazie al solito pallone, che in effetti è rotondo.È una questione di cellule, alla fine: i neurotrasmettitori accendono una proteina, questa traccia il ricordo in un certo alberello di dendriti, e se ne sta lì a dormire. Poi vai su Mediaset Infinity, cerchi una partita che non vedi da vent’anni, e subito la scena dei due capitani che si stringono le mani arriva dritta alla proteina, la sveglia a strattoni, e ti trovi a scrivere. Ricordo indubbiamente le proporzioni di una società più semplice, forse anche brutale nell’asimmetria che sbilanciava i rapporti tra i centri del Paese (economici, politici, culturali) e noi la gente: i calciatori e le celebrità dell’epoca, sarà anche ovviamente per l’età verdissima, si illuminavano come costellazioni irraggiungibili, incesti di eroi e nereidi, e non dei Javier o Paolo diventati miliardari a venticinque anni; quella partita nella mia porzione di Veneto, ma mi sembrava per tutta l’Italia (e in parte, nonostante le torri gemelle e i diritti umani e le guerre oscene, resto sicuro che fosse così), era vissuta come un evento iperreale e irripetibile, e quindi fibrillante e traumatico.Il mio orizzonte andava di poco oltre ai confini del paesino intuiti dal sottotetto, l’infilata di pioppi e i fari settimanali dei campi sportivi, da dove il vento raccoglieva fischi e urla di partite misteriose. Milano, irraggiungibile: e comunque grigia, magnaschei; Milano-berlusconi, estrade incontrade, sweet years e piccinini; San Siro una luce che non avrei mai visto, una bolgia mostruosa, lontanissima… e invece sarebbero arrivati il primo anello, i distinti, il terzo anello: altre storie.

Non ho foto di quella sera, ma non servono. Il cassone della vecchia televisione Grundig, lì sul mobile della taverna umida prevista dal piano regolatore, era decorato di cimeli come gli altarini tailandesi, con le bibite, le caramelle. A vederla eravamo in due, a ripetere lo schema della rivalità: c’era quindi una lunga sciarpa rossonera, forse anche uno di quei millepiedi-peluche da automobile; c’era un coccodrillo di plastica sgusciato dall’uovo, vestito Internazionale, e oggi scopro che il coccodrillo si chiamava Ambrogio, ed era una delle tante mascotte scomparse dopo gli anni Novanta; simpatico, dimenticabile; a drappeggiare il televisore c’era poi la maglia di Crespo che indossavo al parco, di una plastica eritemica, tarocca oltre ogni speranza. È noto che il tifo si trasmetta secondo la direttrice patrilineare, ma si presentano casi che vanno alla rovescia, come rigurgiti: il mio è uno di quelli. Tormentato dai racconti su Ronaldo e Djorkaeff, il padre cede, simpatizza e, mosso dalla pietà, quella sera di maggio riserva una stanza della casa al figlio, e al suo caro amico, perdutamente milanista. Insensibile alle campagne pubblicitarie milanesi, alle you&me, al concetto di Total 90 e ai “tormentoni”, il padre compra spesso merendine e gelati di fabbriche oscure, ignote anche ai cassieri; di quella sera ricordo uno stecchino dove si intrecciavano tre lingue di frutta, gialla rossa e verde: un ghiacciolo anonimo, e delizioso, che non tornerà mai più: mangiato durante il famigerato inno, l’ultimo piacere di quella serata. Ora calandomi in quella taverna buia ricordo distintamente, con troppa intensità, l’angoscia nascosta alla fine di quella ora e mezza: e cioè che io, o l’amico lì presente, avremmo dovuto soffrire l’esclusione da una cosa bella che sognavamo la notte: e ci si conosceva così bene, che non esagero quando scrivo che già prevedevo come la sua eventuale sofferenza, alla fine della partita, avrebbe sicuramente intaccato la mia euforia, che quindi non si sarebbe innescata, lasciandomi impantanato in una strana acqua sporca (senza escludere l’autocommiserazione per quanto fosse arrogante e paternalista nascondergli questa convinzione, dettata da un anno in più di vita rispetto a lui).Le squadre si sparpagliano nelle rispettive metà, le telecamere sventagliano sugli spalti e sugli striscioni: “No Martins No Party”, “Nestasiati”. Tornano in mente spezzoni di programmi televisivi visti di nascosto, o in case d’altri, allitterazioni tipo Striscia lo Striscione che vent’anni dopo scopro sopravvissuto, un pochino putrido, presentato da Scotti in versione Gandolfini. I lenzuoli riportano al folklore dell’epoca, spesso influenzato dall’inconscio televisivo. Uno su tutti: “Gattuso Bestia di Satana”. Poi tanti altri malvagi, discriminatori e deprimenti, ed ecco il passato ricostruirsi sempre più nel dettaglio.«Popi Bonnici dà l’ok», inesorabile, e dopo vent’anni inizia la partita. Lo stadio muggisce, la palla va di qua e di là, e dopo due minuti già parte una pubblicità: così si fanno i soldi della televisione milanese del Milanese che trasmette le partite della sua squadra milanese. È finito il Novecento, e questi sono soldi puliti.

Quando mi è stato chiestocome vivessi l’attesa di questa partita, di nuovo, a un quinto di secolo, mi sono sorpreso a rispondere che «riassume tutto il rapporto conflittuale che ho con il calcio», tutto quello che devo accettare di irrazionale della mia persona, e so che non sono da solo in questo. Ogni anno che passa, il tifo mi chiede di fare pace con la mia percentuale cogliona: faticoso anche questo, viste le sue proporzioni. E poi vedo la difesa del Milan, il centrocampo e l’attacco, Maldini… e torna a smuoversi quella solita alterità inconfessabile, che nessuno ammetterebbe, quella sensazione di incesto che si è rappresa nel discorso della “cuginanza”: e si sa che l’arte e la storia hanno macinato per millenni su incesti meno evidenti. «Sono diversi da noi, ma sono come noi; sono contro di noi, ma parte di noi». Ma noi chi? Il tifo è una croce, una fortuna e un imbarazzo; alla palla si attacca della roba appiccicosa che non avrà mai un nome: umori che guastano l’organismo, buttano palpitazioni, sudori. Com’è successo di nuovo lo scorso mercoledì, all’andata, e come succederà al ritorno. Il tempo è passato, abbiamo trent’anni, quaranta, quello che è: si paga l’affitto, si prendono le pastiglie, si lavora per vivere. Poi all’improvviso segna Shevchenko. Ricordo il gol del Milan nel primo tempo, ma sembra non arrivare mai. Cuper viene inquadrato mentre tira una marlboro, Piccinini: «l’ennesima sigaretta di Cuper che certo non dà un buon segnale ai giovani; non ci stancheremo mai di ripetere che il fumo è dannoso per la salute». È il quarantacinquesimo, e la partita è sullo zero a zero. Poi Seedorf vede della luce, la passa a Shevchenko, c’è quel solito rimpallo e niente, Shevchenko segna anche stavolta. Implacabile, la memoria si vendica e l’amico esulta, lì in fondo al ricordo, e non può essere altrimenti. Intervallo. Si deposita la consapevolezza, anche questa dolorosa, che il Milan stia giocando un calcio non così invecchiato, mentre gli altri si affidano a dribbling mal riusciti negli angoli bui di campo, palle perse nell’ansia, oppure lanciate a quaranta metri in cerca di uno spazio che, nonostante gli spigoli degli enormi pixel e i buchi di memoria, non c’è. Il Milan gioca bene, Berlusconi è rilassato. Arriva direttamente da Bari, da un cosiddetto vertice internazionale, in compagnia di ministri albanesi, bosniaci e montenegrini invitati, così d'emblée, nel suo circo. Siamo forse nei mesi dell’apice berlusconiano. Qualche mese prima è stato approvato il suo decreto “Salva-calcio”, anche detto “spalma-debiti”, perché permette la dilazione decennale per l’ammortamento sui diritti economici dei calciatori; mancano invece due mesi al suggerimento che Berlusconi rivolge a Martin Schulz, allora presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo: «so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò!». Avanzi di Blob, tempi andati: oggi l’Impero attraversa la sua fase ellenista e tutto si prepara al crollo, come sempre. Pure San Siro, che vedo tremare negli ultimi spasmi del terzo anello.

Il denaro dà, il denaro toglie: dipende a chi chiedi. Sul tempo però non ci sono dubbi, oggi l’età media dei calciatori di questi derby è sotto la mia, soprattutto quella del Milan: l’Inter ha la rosa più anziana del campionato, la nona in Europa. Ventotto anni e mezzo. Quella del 2023 è la semifinale di una certa generazione, insomma. Mi chiedo quanti e quali giocatori di stasera se la ricordino, se anche loro vestissero Lonsdale, se guardassero le partite in taverna con le ciabattine del mercato… Federico Dimarco vent’anni fa era allo stadio, vabbè; cose che passano. Secondo tempo, entranoDalmat e Martins per Di Biagio e Recoba. Dalmat viene inquadrato giusto prima del fischio, ed è visibilmente angosciato: grossi respiri, il petto che non lo segue, uno sguardo fuori fuoco. In realtà nei primi minuti si muove bene, tutta la squadra sembra giovarne, è più bilanciata: gli esterni fanno gli esterni, il campo si inclina verso l’altra porta. Lontano dal gioco, mosso da una cattiveria che non si vede più sui campi, anche per botte recentissime, Materazzi tira un pugno a Kaladze in un replay tagliato male, sbrigativo. Non è l’unico pugno impunito della partita, e non interessa a nessuno: lontani dalle telecamerine e dallo spionaggio coatto, nelle partite – ma anche nella vita tutta – erano previsti degli spazi di mistero, di sospensione, di libertà e caos, dove gli errori trovavano il loro naturale diritto all’oblio; coni d’ombra che proteggevano i ragazzetti in giro per i paesi, tutto il giorno a far chissà che, irraggiungibili; fumavano, e altre cose.Intorno al cinquantesimo minuto insomma Piccinini vede il pugno nel replay tagliato male, e dopo un altro appello antifumo, suggerisce un’apologia della moderazione: meglio calmarsi, giocare a pallone, perché «il calcio ha insegnato a tutti, nella storia, che tutto è possibile»: anche uscire dalla coppa più importante con un doppio pareggio, e un tiro che sfiora la porta. Ma mancano ancora quaranta minuti. Eccolo, le telecamere lo inquadrano, Piccinini lo nota: «si sta scaldando Ambrosini», senza sapere che vent’anni dopo commenteranno la stessa partita, insieme, da colleghi. Dovrebbe portare ossigeno, aiutare la difesa nei calci da fermo, ma le cose prendono un’altra piega: una carambola, Martins zompa, e c’è il solito pareggio. Iniziano dieci minuti d’ansia insostenibile.

C’è una parola difficile privilegio dei biologi, endosimbiosi, che come spesso accade con le parole difficili significa una cosa facilmente intuibile, e comunque a contatto con quella parte di noi più ancestrale, che parla altre lingue; endosimbiosi significa che nelle nostre cellule si nascondono tracce di altre forme di vita, geni di creature del passato che continuano a fare le loro cose di geni, in un nuovo ecosistema che alla fine è il nostro corpo.A me sembra pacifico e indubbio che i fatti delle nostre vite si accumulino così, senza darsi il tempo di pensare, prendendo il percorso più rapido tra i desideri e le possibilità; e lo fanno negandosi di continuo le loro alternative, lasciandosi dietro una scia di fatti paralleli che con il passare degli anni prende le linee di una enorme rete di vite potenziali, una rete che soltanto a pensarla mette in dubbio le nostre facoltà mentali: per un attimo compare davanti gli occhi, poi prende le dimensioni del mondo, di tutto, e spandendosi in ogni direzione svanisce.Ecco, ci sono dei ricordi che ci danno l’illusione di trattenere questa rete per qualche istante in più, e il tiro di Mohamed Kallon che alle 22:29 viene deviato da Abbiati è uno di quelli. Di quel secondo si ricorda tutto, come se l’asse del mondo si fosse inceppato, lasciandoci a esplorare il tempo infinito.Non so come finirà e non voglio saperlo. Voglio restare qui in questo presente senza dimensioni, dove le cause non hanno conseguenze. Dove il pallone è ancora immobile anche se già sfrigola di energia potenziale; dove i milioni di padri e di madri con le loro vite stanche e felici, i milioni di bambini che corrono nei giardini, i nonnetti stanchi, tutti a chiedersi com’è possibile?, non ha senso, che pensiamo ancora tutto questo tempo al calcio; il tempo dell’attesa e degli scongiuri, dove tutti insieme speriamo vite che ci somiglino.

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