Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Emiliano Battazzi
Il derby del secondo posto
26 mag 2015
26 mag 2015
Una partita intensa e ricca di emozioni, che gli allenatori e i giocatori hanno controllato fino a un certo punto, e che lascia la Lazio sulla porta della Champions League.
(di)
Emiliano Battazzi
(foto)
Dark mode
(ON)

 

Il derby di campionato alla penultima giornata era sembrato sin dall’inizio una crudeltà e, al tempo stesso, l'opportunità per una partita di per sé affascinante che stavolta avrebbe potuto avere qualcosa in palio. Al momento della formazione dei calendari, però, nessuno poteva immaginare che le due squadre sarebbero arrivate a questa partita con i ruoli invertiti: la Roma, seconda con un punto di vantaggio ma in grande difficoltà da mesi; la Lazio a inseguire ma lanciata, favorita per condizione atletica ma soprattutto per continuità di gioco.

 

La squadra di Pioli in settimana aveva perso la finale di Coppa Italia solo ai supplementari contro la Juventus: un fattore che poteva influire fisicamente, ma non mentalmente. I biancocelesti avevano dimostrato di potersela giocare alla pari contro i campioni d’Italia, e da quella sconfitta potevano trarre ancora maggior fiducia nei propri mezzi. La Roma, invece, veniva dal successo in casa contro l’Udinese, in cui aveva ballato per diversi minuti sull’orlo dell’abisso (i friulani, in vantaggio di un gol, avevano rischiato di chiudere la partita già nel primo tempo).

 

Il luogo comune dice che il derby è un microcosmo che sfugge a ogni logica, capace di trovare eroi dove c’erano solo onesti mestieranti, che proclama sentenze spesso crudeli, sempre definitive, almeno fino al derby successivo. Così, dopo la sconfitta del Napoli a Torino, la teoria del pareggio di comodo si faceva largo: dappertutto tranne che a Roma. È stata una partita vera, è stato un derby in cui le due squadre lottavano per un obiettivo importante: l’accesso diretto alla Champions League. E, a differenza della finale di Coppa Italia vinta dalla Lazio nel 2013, le due squadre non partivano pari: alla Roma bastava il pareggio, la Lazio doveva fare qualcosa di più per dimostrare la propria superiorità non solo di gioco ma anche di classifica.

 


La strategia iniziale della Roma non funziona: la linea difensiva è alta ma nessuno va in pressione su Gentiletti (una sorta di regista aggiunto, con ben 6 passaggi chiave e 1 assist, oltre a 14 palle recuperate); nel frattempo Candreva, tra le linee, attacca la profondità, bucando la difesa giallorossa. Da notare il 4-2-3-1 della Roma, con Totti fuori campo, e Nainggolan alto a schermare Biglia. Nella Lazio si nota la mancanza di ampiezza: sulla destra non c’è nessuno ad attaccare il lato debole.



 



Le formazioni iniziali rispettano le indicazioni sui momenti delle due squadre: la Lazio si compatta intorno a un aggressivo 4-2-3-1, con il rientro di Biglia in regia, e Lulic schierato addirittura terzino sinistro a comporre una catena di fascia molto offensiva con Felipe Anderson.

 

Garcia ripropone il classico 4-3-3, con Florenzi schierato nel suo vero ruolo di ala, Iturbe sull’altra fascia e Totti a innescare, con Keita al posto di Pjanic. Una Roma di contenimento, pronta ad attaccare in contropiede senza troppa voglia di sbilanciarsi, con due/tre uomini per volta e il resto pronto ad assorbire le corse palla al piede e gli inserimenti dei giocatori della Lazio.

 

Una volta in campo i moduli diventano solo numeri, si fluidificano: Nainggolan è portato naturalmente alla corsa in avanti e quando senza palla si alza a schermare Biglia, mentre Keita resta vicino a De Rossi anche in fase di impostazione, formando così una sorta di 4-2-3-1 speculare a quello laziale.

 

I primi 20 minuti della Roma sembrano ribaltare ogni ipotesi iniziale: Garcia ha preparato una strategia molto aggressiva, che prevede una pressione alta sul primo possesso avversario e una difesa altrettanto alta ad accompagnare la pressione. L’obiettivo è di imporre il proprio ritmo rubando palla, ed eliminare la possibilità di combinazioni veloci sulla trequarti, tipiche della squadra di Pioli.

 

Per quanto teoricamente corretto, questo piano gara si rivela poco efficace: la Roma non sa fare il pressing alto e non riesce a mantenere la squadra compatta; la linea difensiva è timorosa e disorganizzata anche su passaggi a palla scoperta: i due centrali, Manolas e Mapou, sono costretti da subito a prendersi molti rischi, con frequenti chiusure in velocità nello spazio alle proprie spalle (e infatti chiudono la partita con rispettivamente 8 e 10 palloni recuperati).

 

La Lazio capisce immediatamente i difetti strutturali dell’avversario, e inizia ad attaccare la profondità con le sue tre mezzepunte: in 5 minuti la squadra di Pioli crea due nitide occasioni da gol, la prima con Candreva che buca la linea difensiva alle spalle (grande parata di De Sanctis) su lancio di Gentiletti; la seconda con l’occasione per Klose, che in tuffo di testa manda fuori con la porta spalancata.

 

La Lazio gioca comoda all’interno di spazi che sembrano fatti apposta per essere riempiti dagli inserimenti offensivi; la Roma non riesce a creare gioco e neppure a difendere, e si rifugia nel piano B.

 


Il pressing a nuvola della Lazio sulla trequarti giallorossa: Holebas è braccato da quattro avversari e non ha un passaggio possibile; Totti è sempre schermato, e quando riesce a ricevere non ha mai tempo per controllare.



 



Dopo averci provato per circa 15 minuti, Garcia capisce che la Roma sta rischiando troppo, e decide di abbandonare la strategia iniziale: i giallorossi arretrano di diversi metri (l’altezza media delle palle recuperate è pari a 31 metri), e si schierano con due line compatte, con Florenzi e Iturbe che si abbassano sulla linea del centrocampo mentre Totti, da solo in avanti, dovrebbe cercare di far salire la squadra.

 

A quel punto la Lazio prende il controllo della partita e domina il gioco secondo le sue caratteristiche: linea difensiva alta (l’altezza media delle palle recuperate è 36 metri) con i due centrali sempre pronti all’anticipo che, insieme ai due centrocampisti centrali, chiudono Totti in una morsa che spesso gli impedisce di ricevere il pallone, e ancor più spesso lo spinge all’errore, senza lasciargli il tempo necessario di decidere la giocata e coordinarsi per eseguirla.

 

Il controllo della Lazio, però, è tutto sommato sterile: la marcatura su Biglia (che riesce comunque a essere il più lucido con ben 7 passaggi chiave) costringe Mauri ad abbassarsi; Klose è chiuso tra i due centrali e non trova più la profondità; Felipe Anderson (solo 2 dribbling riusciti e 7 duelli vinti su 22 provati) non ha spazio davanti a sé, e quando prova a saltare l’avversario è spesso raddoppiato; Candreva sembra il più reattivo di tutti ma, oltre all'occasione già citata, non riesce a impensierire De Sanctis.

 

Alla squadra di Pioli sembra mancare l'ampiezza, con Lulic che tende naturalmente ad accentrarsi, così come Felipe Anderson e, dall'altra parte, Candreva. Le triangolazioni veloci classiche di questa stagione, vengono sempre bloccate da una Roma che difende molto compatta in zona centrale.

 

In un afflato mourinhesco, Garcia ha deciso che questa Roma ha più possibilità di vivere sugli errori altrui e dopo una stagione passata a dominare il possesso palla lascia totalmente il controllo alla Lazio (nel primo tempo il possesso giallorosso è stato intorno al 37%). Chi ha più spesso il pallone ha maggiori probabilità di errore e chi commette più errori ha meno probabilità di vincere: ma soprattutto, anche quando la Roma ce l'ha, quel pallone, non sa bene cosa farci.

 

Le possibili ripartenze sono rese quasi impossibili dall’enorme porzione di campo che Iturbe e Florenzi sono costretti a percorrere dopo aver recuperato il pallone nella propria trequarti, la porta è davvero troppo lontana e solo l’ala romana, in uno stato di forma quasi sovrannaturale, riesce a creare un singolo, minimo, pericolo alla porta di Marchetti. I giallorossi chiudono il primo tempo senza aver tirato una volta nello specchio, ma avendo anche rischiato poco, dopo le paure iniziali (tanto che l’IPO è pari solo a 7, mentre quello della Lazio è pari a 30).

 


La Lazio domina il possesso, la Roma attende nella propria metà campo con il solito 4-4-2 difensivo: Florenzi a destra e Iturbe a sinistra sono diligenti e aiutano i terzini, ma sono troppo bassi per poter creare ripartenze pericolose. Nainggolan si alza vicino a Totti e le fasce bicolore di prato ci aiutano a capire che il resto della squadra giallorossa è arretrato di almeno 10 metri. I giocatori della Lazio sono tutti rivolti verso il pallone: il segno della necessità di aiutare la squadra in impostazione e della maggior difficoltà ad attaccare la profondità.



 



Il secondo tempo sarebbe potuto proseguire con questo copione, una sorta di attacco contro difesa, una guerra fredda senza minacce concrete, se solo i tecnici non fossero intervenuti con i loro cambi.

 

Pioli sostituisce Lulic, già ammonito, con Cavanda, probabilmente per provare a sbloccare la catena di fascia sinistra e dare più ampiezza a una manovra che tende a finire nell’imbuto giallorosso; Garcia invece rimpiazza Totti, completamente fuori dal gioco (ben 9 palle perse), con Ibarbo, rimodulando l’attacco: Iturbe si ritrova punta centrale, come all’epoca del River Plate e di altri spezzoni di gara in giallorosso (ad esempio a Udine); Ibarbo si sistema sulla corsia di destra, con Florenzi spostato a sinistra per aiutare Holebas, spesso in difficoltà contro Basta.

 

Si tratta ancora di comprimari, perché sulla scena appare poi l’attore principale, che era rimasto in disparte, nascosto a guardare lo spettacolo: Miralem Pjanic, che a venti minuti dalla fine sostituisce un claudicante Keita. La Roma sembra quasi liberarsi di un peso, sente di potersela finalmente giocare, e il bosniaco ci mette pochi secondi per fornire una palla in profondità per Florenzi, il cui tiro viene respinto da uno splendido recupero difensivo di Felipe Anderson.

 

La partita ormai si è sbloccata invece di tendere al pareggio di comodo: la Lazio continua ad attaccare in massa, ma la Roma diventa più reattiva. La strategia di Garcia viene ripagata: la squadra che controlla il pallone finisce per commettere un errore, e i giallorossi sono bravi ad approfittarne.

 

Da un timido tentativo di pressing di Ibarbo sul primo possesso laziale, Gentiletti lancia verso Holebas, che serve subito Pjanic. Il colpo di tacco del bosniaco è un’invenzione che Nainggolan (5 dribbling riusciti, 8 duelli vinti) è rapido a capire: Iturbe attacca la profondità centralmente, Ibarbo sulla fascia. Il belga arriva fino davanti all’area di rigore palla al piede, con de Vrij incerto se uscire ad attaccarlo o meno; lo scarico per Ibarbo sulla destra, e il controllo impreciso del colombiano, gli permettono di saltare Gentiletti in velocità e servire una perfetta palla all'indietro per Iturbe, che da punta vera anticipa Basta e segna.

 

Nel frattempo de Vrij era andato di nuovo fuori posizione a chiudere sul primo palo dove non c’era nessuno, per la sua naturale propensione all’anticipo e alla chiusura (capita quando i difensori sono e si sentono troppo forti fisicamente), lasciando così Basta da solo contro tre avversari.

 


Pjanic si libera dalla gabbia di Parolo e Biglia con uno splendido colpo di tacco: Nainggolan ha tutto il campo davanti, mentre Ibarbo attacca Gentiletti e Iturbe attacca centralmente de Vrij. La ripartenza si concluderà secondo manuale: passaggio sulla destra per l’ala, che serve una palla dietro per il centravanti, che in anticipo brucia l’avversario.



 

La magia del derby permette a Iturbe (2 dribbling riusciti e 8 duelli vinti su 10) di godersi il momento della rivincita, dopo una stagione di critiche e fischi: è il suo secondo gol in campionato. L'altro, a Torino contro la Juventus. Allo stesso tempo, questo gol riaccende i dubbi sul suo vero ruolo in una squadra come la Roma: punta centrale o ala?

 

A questo punto della partita i due cambi di Garcia sono risultati decisivi, ma sull’altra panchina Pioli era pronto a calare un asso.

 



La Lazio reagisce con tutte le forze che ha, aiutata dal coraggio di Pioli (già ampiamente mostrato quando si è presentato con la difesa a 3 per la prima volta in stagione in una finale), che inserisce Djordjevic al posto di Mauri, passando a una sorta di 4-2-4 iperoffensivo. In questo modo la Lazio riesce ad attaccare in ampiezza e a occupare i centrali difensivi giallorossi in un doppio uno contro uno. Il rischio, ovviamente, è quello di spezzare la squadra in due e subire pericolosi contropiedi, ma la Lazio non ha più tempo per la prudenza.

 

Anche il cambio di Pioli porta subito i suoi frutti: dopo un sombrero su Pjanic, Felipe Anderson alza la testa indisturbato ed esegue un lancio/cross di trenta metri semplicemente perfetto sul secondo palo per la testa di Klose, che fa da sponda al centravanti serbo appena entrato: altro colpo di testa e pareggio.

 

È difficile dire cosa avrebbe potuto fare la Roma per evitare questo gol, se non forse essere più concentrata nel seguire i due attaccanti, che però sono stati bravissimi: Klose a prendere lo spazio alle spalle di Holebas, Djordjevic a prendere il tempo a Mapou. Esattamente la situazione che che voleva Pioli: gli ultimi dieci metri di campo sono i più difficili da difendere, per qualsiasi difensore al mondo, e contro due centravanti purissimi come Klose e Djordjevic avrebbero forse avuto la peggio anche i difensori vecchia scuola educati a seguire gli avversari anche nelle pause di gioco.

 


Dopo il gol di Iturbe, la Lazio attacca in massa e con la massima ampiezza: ci sono ben 5 giocatori all’altezza dell’area di rigore, con un 2 contro 2 al colpo di testa sul secondo palo che taglia fuori Manolas.



 

Nel destino di questo derby romano però non c'era il pareggio che avrebbe accontentato tutti, ma l’ennesimo eroe per caso pronto a prendersi la ribalta. Il deus ex machina designato è proprio Mapou Yanga-Mbiwa, difensore centrale francese molto criticato nel corso della stagione (non sempre, quasi mai, anzi, a ragione) che risolve la trama con uno splendido colpo di testa su calcio di punizione di Pjanic (ancora lui: due assist e due passaggi chiave in poco più di 20 minuti).

 

Ancora una volta, il derby di Roma dimostra che il calcio è una splendida miscela di fattori, in cui contano qualità, strategie, decisioni, motivazioni e sensazioni: uno sport che sa regalare emozioni che spesso non dipendono neanche dagli stessi protagonisti.

 

Sotto di un gol a pochi minuti dal termine la Lazio prova a riemergere da un nuovo sogno che si è tramutato in incubo, ma non ce la fa (l’IPO del secondo tempo dimostra la miglior performance dei giallorossi, che risalgono fino a 33, contro quota 52 della Lazio). La Roma è matematicamente seconda con una giornata d’anticipo.

 



Il gol di Mapou a 6 minuti dalla fine è una specie di lavacro che toglie in un momento tutti i peccati di una stagione, quella della Roma, a tratti imbarazzante. Come sostenuto da Garcia a fine partita, è tempo di festeggiare per un secondo posto che, a un certo punto della stagione, sembrava essere sfuggito: con una squadra sull’orlo del crollo, e anche grazie alle incertezze delle inseguitrici, il tecnico francese è riuscito a conseguire l’obiettivo minimo del secondo posto.

 

Il talento individuale dei suoi giocatori, e anche un notevole spirito di sacrificio e la voglia di vincere hanno spinto i giallorossi verso il secondo posto, nonostante i numerosi problemi, fisici e di gioco.

 

La squadra ha comunque molte lacune che i soldi della Champions potranno, forse, aiutare a colmare; ma anche Garcia è atteso a un salto di qualità che quest’anno non è riuscito a compiere. Non può essere sempre il singolo a dare idee alla squadra: la genialità di Pjanic dovrebbe essere un valore aggiunto all’interno di una strategia di gioco efficace, non l’unica arma a disposizione di una squadra che spesso fatica contro squadre inferiori ma messe in campo meglio. A partire dalla partita di andata con l'Empoli di Sarri, che ha mostrato al resto della Serie A come si mette in difficoltà la Roma con poche semplici mosse.

 

La Lazio di Pioli, invece, trova conferme nella sua identità di gioco ma continua nella sua fase di rallentamento: nelle ultime 8 giornate ha raccolto 3 punti in meno della Roma (quelli del derby, appunto) e ben 5 in meno del Napoli. La squadra di Benítez adesso è l’ultimo ostacolo del campionato: Pioli ha a disposizione due risultati su tre, ma quale sarà il contraccolpo psicologico alla doppia sconfitta, in finale e nel derby?

 

La Lazio rischia di sentire la pressione di una grande stagione che le sta scivolando dalle mani: è ovviamente favorita per il terzo posto, ma nella singola partita il Napoli è un rivale di massimo livello. E poi era favorita anche per il secondo posto, e forse lo avrebbe meritato sulla base del gioco, così come magari avrebbe meritato la vittoria della coppa per come aveva giocato la finale... eppure è rimasta a bocca asciutta.

 

I biancocelesti possono contare sulla loro qualità di gioco e sui loro ritmi: come un pokerista che si sentiva già vincente sul flop, adesso è arrivato il momento del river, di girare l’ultima carta, che farà la differenza fra trionfo e delusione.

 
 



 
 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura