Il culto di Lamberto Zauli
Abbiamo incontrato il trequartista più strano della storia del calcio italiano.
Zauli, Fellaini, Pogba
Nell’immaginario comune Zauli era un 10 pigro e sregolato, che trovava la ragion d’essere solo in una Serie A ricordata a posteriori come un campionato sempre pronto a concedere una riserva di sregolatezza come sfiatatoio della propria rigidità tattica. Eppure Zauli mi ha spiegato che il posto da titolare nel Vicenza se lo è guadagnato per le ragioni opposte a quelle che ricordiamo: «Se pensi che da noi c’era Arturo Di Napoli, che era un fenomeno. Guidolin mi faceva giocare perché gli davo garanzie tattiche, di sacrificio».
Zauli ha un’idea del sé stesso giocatore che non coincide con quella che abbiamo noi, quando gli chiedo di descriversi mi dice: «Io sono stato un centrocampista, con qualche dote offensiva, che permetteva di dare equilibrio alla squadra». Una definizione che stona con quasi tutti gli articoli che si trovano in rete su di lui (qui per esempio, dove viene inserito nella categoria degli «artisti della trequarti, anarchici e indisponenti»; ma anche qui, qui o qui, dove la sua idea di calcio viene definita «da artista rinascimentale»). Zauli viene usato come esempio di un calcio che non esiste più e che ha perso la sua poesia.
Eppure, quando gli dico che gli anni ’90 sono ricordati come un periodo in cui ai fantasisti veniva concessa una certa anarchia tattica Zauli è quasi risentito: «Forse ai talenti di un decennio prima si chiedeva di correre meno». Gli chiedo esplicitamente se a lui veniva richiesto di correre «Certo, con Guidolin facevamo il pressing offensivo, con la linea difensiva alta e io dovevo pressare in avanti. Bisognava correre tanto». Zauli non è d’accordo neanche con l’idea che oggi si corra troppo e che il calcio sia sempre meno ragionato: «No, il calcio è sempre più studiato. I calciatori ormai giocano per come si allenano. Devono giocare a una certa velocità e il dovere di uno staff è di allenarli a quella velocità, sennò non ci si può arrivare. C’è un adattamento delle giocate». Secondo lui, la differenza nel livello dei giocatori non la fanno né la dimensione fisica né quella tecnica: «La fisicità c’è ovunque. La differenza tra le categorie la fa la lettura delle giocate».
Le idee che ci formiamo su questi giocatori di nicchia della nostra infanzia (in un vecchio articolo Condò aveva paragonato il culto di Zauli a “un film birmano”), senza il supporto di video approfonditi, difficilmente sono più definiti di piccoli bozzetti onirici. È difficile farsi un’idea più precisa del loro stile di gioco. Per questo spesso la via più nobile per raccontarli non è sforzarsi verso l’oggettività ma arrendersi ad esaltare la vaghezza lirica della nostalgia. Ma è triste non poter avere un archivio più esteso delle giocate di Zauli, perché dai frammenti che possono essere raccolti su di lui se ne può intuire un’unicità che sarebbe bello ricostruire.
Come faremo a conservare una memoria di questi giocatori tra vent’anni? Come farò raccontare a mio nipote la classe anomala di Lamberto Zauli cercando di convincerlo di non essere pazzo? Anche in questo gol l’altezza del punto d’impatto col pallone è assurda.
Provando ad andare più a fondo delle sue compilation di gol, viene quasi da pensare a Zauli non come all’ultimo residuo di una specie di talento estinto, che rimpiangiamo come il colore delle vecchie polaroid, ma invece a un giocatore in anticipo sui tempi, almeno sotto certi aspetti. Se oggi siamo abituati a trequartisti molto alti e fisici (Fellaini, ma soprattutto a Paul Pogba) due decenni fa un giocatore come Zauli era un unicum, come lui stesso mi conferma: «Quando giocavo io era particolare il fatto che ero rapido di piede pur essendo alto 1,90. Oggi è meno atipico».
Zauli veniva usato come trequartista anche per sfruttarne la fisicità nella zona centrale del campo: per ripulire le palle sporche negli spazi più congestionati, ma anche per attaccare l’area con la sua altezza. «Io avevo una qualità importante: la protezione della palla. La mole me lo permetteva e non ero velocissimo. Tanto che Ulivieri diceva sempre: “A Zauli dagliela anche se c’ha l’uomo attaccato” perché ero bravo con le braccia a difendere la palla».
Quando gli ho chiesto se la sua stazza sia stata un vantaggio o uno svantaggio mi dà una risposta pragmatica, che però contiene il processo fatto per far coincidere in minima parte il proprio fisico con la propria tecnica: «Non lo so, mi sono adattato».Zauli cambiava il contesto, portava i propri marcatori in uno spazio e in un tempo di gioco in cui contavano solo spallate, sterzate e tocchi di suola.
Del 10 classico Zauli aveva senz’altro l’istinto alla rifinitura e la sensibilità nell’esecuzione. Si può apprezzare in questo lancio di piatto per Cruz, alle spalle della difesa del Chievo, ma anche in questa verticalizzazione anticipata per premiare il taglio dell’esterno. Mi spiega che un’altra sua grande qualità era la cerebralità: «Io in campo era uno che pensava» che è una delle poche frasi che pronuncia con un certo ego. «Il giocatore deve pensare, non deve solo eseguire gli ordini: deve leggere le situazioni. È questo che fa la differenza di categoria».
Anche nelle azioni e nei momenti più concitati, Zauli riusciva a trovare una lucidità beffarda per fare la scelta più logica, le sue giocate decisive realizzate appena dopo una caduta sono un genere letterario: ecco uno “scavetto” in area ed ecco un cross vincente dopo uno scivolone da calcio saponato. Per questo era maestro della giocata più cerebrale del calcio, perché una delle più contro-intuitive, ovvero il pallonetto al portiere.«È una cosa che mi veniva naturale. Quando arrivavo al limite dell’area guardavo spesso il portiere: la devi pensare prima di farla perché il portiere ha sempre in testa di chiuderti lo specchio».
Zauli ha giocato con tanti centravanti forti, da quanto mi dice Julio Cruz, “El Jardinero”, insieme a Luca Toni sono stati i più forti: i più bravi a fare i movimenti, a dettare i passaggi: «È la punta che deve chiedere l’ultimo passaggio e che valorizza la mia rifinitura». Zauli non ha mai segnato molto in carriera, mai più di 6 gol in una stagione e questo, confessa, è stato un problema per la sua carriera: «Era un mio difetto. Avevo il piacere di dare l’ultimo passaggio, che a volte provavo anche in maniera forzata, piuttosto che tirare in porta» e quando dice “piacere” ci sono delle sfumature di gusto profonde nella sua voce, che in parte restituiscono l’idea di come lo ricordiamo. Zauli l’esteta: «Era l’istinto: guardavo più il compagno che la porta. Era un mio difetto: io facevo la C2 o la A non faceva differenza, facevo sempre 6 gol». Un difetto che Ulivieri ha anche provato a correggergli: «Mi diceva sempre: “allargati e vai dentro”, ma io in area non ci andavo, preferivo restare dietro a guardare i movimenti dei compagni».
E se Zauli fosse arrivato tardi al grande calcio proprio a causa della sua originalità? Come se la Seria A in quel momento non fosse capace di capire davvero i vantaggi oggettivi di usare un trequartista così fisico e tecnico.
Arrivato tardi
Non è una teoria così assurda. Era difficile prendere Zauli sul serio, quasi tutto quello che faceva era nell’ordine dell’inaspettato e abbiamo continuato a stupirci del suo talento finché non si è ritirato. Molti però hanno ipotizzato che fosse arrivato tardi a causa della sua origine borghese, un’interpretazione che tempo fa respingeva: «La cosa che mi fa rabbia è sentire che sono esploso tardi perché sto bene di famiglia. Ora gli addetti ai lavori dicono che ho messo la testa a posto, che ho trovato continuità. È vero che ho un rendimento più costante, ma io sono sempre stato serissimo. Forse questa è una loro scusa per non avermi scoperto prima».
Oggi, invece, ammette un problema di agonismo: «C’entra il fatto che non venivo da un settore giovanile importante. Sono cresciuto nel Modena, ho fatto la gavetta ma nei primi anni non ho messo la cattiveria agonistica massima, quindi ho perso qualche stagione». Ad inizio carriera Zauli ha giocato con Modena, Ravenna e Crevalcore, ma il percorso lento forse non è stato necessariamente un bene, provando a interpretare quello che mi dice: «Ho fatto sempre la Serie C al vertice, magari mi ero seduto, ma tutti fanno il loro percorso particolare: oggi, per esempio, Lapadula a 26 anni è stato pagato 9 milioni di euro».
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Il Ravenna gioca la migliore B della sua storia e dopo quell’anno Guidolin chiama Zauli al Vicenza, in A. Lo aveva allenato a Ravenna nel 1993-94, quando Zauli aveva 22 anni e in squadra c’era anche “Bobo” Vieri. Arriva per 800 milioni ed è un momento di svolta anche dal punto di vista tattico, visto che fino a quel momento aveva giocato largo a sinistra: «Da ragazzo si faceva sempre il 4-4-2, mancavano giocatori offensivi e quello che giocava esterno sinistro era una mezzapunta che rientrava dentro il campo. Guidolin mi mise dietro la punta».
Quando gli chiedo qual è stato l’insegnamento più importante di Guidolin mi ha risposto: «Convincere ogni giocatore, anche quelli offensivi come ero io, di giocare per la squadra. A prescindere da un movimento. Ti insegna la cultura di metterti al servizio della squadra».
Nonostante tendiamo ad associare Zauli a un’epoca aurea del numero “10”, in quegli anni il ruolo di trequartista centrale – se è questo che intendiamo per “numero 10” – era raro. Del Piero giocava seconda punta; Totti addirittura attaccante esterno nel 4-3-3 di Zeman; l’unico esempio di trequartista centrale puro era Zinedine Zidane, a cui infatti Zauli veniva continuamente associato: «Per il Vicenza Zauli in quella posizione è importante come Zidane per la Juve» ha dichiarato Colomba. Al punto che non è così sbagliato pensare che l’arrivo tardivo di Zauli in Serie A abbia anche motivazioni tattiche: il ruolo in cui avrebbe espresso il proprio gioco migliore non era ancora stato riaccettato dall’integralismo del 4-4-2.