Lamberto Zauli è: qualche figurina sbiadita, i capelli con la riga in mezzo, la maglia biancorossa del Vicenza con sopra lo sponsor Pal Zileri. Lamberto Zauli è la Coppa delle Coppe, è qualche video a bassa definizione, la pagina Wikipedia che lo descrive come un “Trequartista con un fisico possente”. Lamberto Zauli è un’idea di leggerezza che prende forma nel gol al Chelsea, nella vacuità su cui si regge l’incantesimo del suo equilibrio impossibile. Lamberto Zauli è reale quanto i ricordi del nostro primo bagno, della Viennetta dopo il pranzo della domenica. Per questo, quando me lo trovo davanti, ho un senso di vertigine: come se un personaggio di fantasia avesse preso vita, varcando la soglia che separa reale e immaginario.
Siamo nel centro sportivo del Santarcangelo calcio, la squadra che Zauli ha allenato la scorsa stagione e che ha portato a una brillante promozione. Non è semplice scendere a patti col fatto che la vita professionale di Zauli sia continuata, che non sia rimasta imprigionata nella parabola della sua perfetta incompiutezza. Verrebbe naturale immaginarlo come sono gli artisti a fine carriera: uomini sofisticati che non devono chiedere più niente alla vita. Ma Zauli è un ex calciatore e, nonostante abbia smesso da quasi 10 anni, è un uomo nel pieno delle forze: ha una camicia elegante e una macchina costosa. Al centro sportivo tutti lo chiamano, tutti lo salutano, tutti lo abbracciano. Il Santarcangelo è un piccolo club, sottodimensionato per la Lega Pro, e la salvezza che Zauli ha raggiunto rappresenta un grande successo. La nostra intervista si fa nella sala stampa: un piccolo edificio in legno prefabbricato che Zauli usa anche per far vedere ai suoi giocatori i video del prossimo avversario. «Qui è piccolo ma non ci manca niente», mi dice. Nel calcio non c’è niente di solido e gli eventi seguono una cronologia speciale. Un mese dopo l’intervista, Zauli ha deciso di non rinnovare con il Santarcangelo e ha firmato con il Teramo, una squadra con ambizioni di alta classifica, dal quale è stato già esonerato qualche settimana fa.
Il mestiere di allenare
Zauli ha iniziato la carriera di allenatore nel 2009 e in sette anni ha collezionato sei esoneri. La stagione al Santarcangelo è stata la più positiva della sua carriera ma quando provo a farglielo notare si nasconde un po’ per difendere il resto del suo lavoro e creare un’immagine complessivamente migliore: «Mi sono tolto altre soddisfazioni: una salvezza importante per la storia della Reggiana, una promozione in Lega Pro col Real Vicenza, per esempio». Alla fine però riconosce che questa è stata la stagione migliore: «I risultati sono arrivati tramite il bel gioco, quindi è il massimo». In quel momento al Santarcangelo vogliono rinnovargli il contratto, ma pare che Zauli sia cercato da squadre che vogliono salire in Serie B. Per dare l’idea del momento, dopo pochi minuti che ci siamo seduti gli squilla il telefono. Corre in macchina a parlare per un quarto d’ora, è una telefonata importante e quando torna mi dice: “Sai, in questi giorni…”. Io capisco che è molto ricercato.
In un certo senso volevo incontrare un’idea di Zauli e mi sono trovato di fronte una persona vera, alle prese con una carriera complessa. Il livello di pressioni che un allenatore deve sopportare è imparagonabile a quello di un calciatore, mi spiega: «C’è un abisso, quelle da giocatore sono ridicole a confronto. Da giocatore sei concentrato dal lunedì alla domenica sul tuo fisico, sulla tua prestazione, non pensi alla prestazione del tuo compagno: sei limitato al tuo mondo. Da questa parte invece devi considerare tutto: dal lavoro del magazziniere fino a quello dei giocatori, tenendo conto anche di come respirano. Devi gestire tutto: mettere vicino persone che si stimano, creare delle connessioni. Le responsabilità sono troppe».
Zauli è una persona intelligente, con una formazione borghese alle spalle non comune nel mondo del calcio. Il padre è medico-anestesista ed ex giocatore del Grosseto, dove la famiglia si è trasferita da Roma. Un background che non rendeva scontato che Zauli rimanesse nel mondo del calcio dopo il ritiro: «Ho iniziato al Bellaria, qui vicino, dove ho chiuso la mia carriera da calciatore. A 37-38 anni, finita l’annata la società mi ha proposto di allenare. Ho cominciato con mille perplessità sulle mie possibilità ma tutte le paure, appena cominci, spariscono. Ti innamori subito: è bello soprattutto il rapporto che crei con i giocatori. A quel punto mi sono accorto che potevo scommettere su me stesso».
C’entra forse la difficoltà, per una persona che ha praticamente vissuto nei centri sportivi sin da quando era un bambino, a re-immaginare la propria vita, a quasi 40 anni, fuori da un prato verde. Quello del ritiro dei calciatori è un tema di cui si discute davvero troppo poco, forse per un eccesso di tatto, forse per un minimo di senso di colpa che inconsciamente proviamo da spettatori. Anche Zauli taglia corto: «Sono approcci personali. Alcuni miei colleghi, una volta smesso, non hanno più voluto vedere il campo; per me invece continuare è stato naturale, ho iniziato ad allenare un mese dopo aver smesso». È stato proprio Zauli ad ammettere, in un’altra occasione, «Dopo vent’anni nel mondo del calcio è difficile uscirne». Gli chiedo se l’essere stato un ex calciatore lo ha aiutato: «Sì, per me è stato importante. Io dico ai miei giocatori: “Non voglio fare il professore, vi voglio insegnare quello il calcio che ha insegnato a me. È una ruota che gira”».
Anatrone
Quando Zauli è arrivato in Serie A aveva 26 anni, era alto 1,90 cm, aveva le spalle larghe e giocava da numero 10. Per un calcio abituato a dividere il fenotipo del fantasista tra veloci e brevilinei e alti ed eleganti, Zauli era davvero un animale strano. Con la maglietta dentro i pantaloncini tirati su fino all’ombelico e i calzettoni alti per scrupolo, Zauli sembrava appartenere al ceto impiegatizio: la sua corsa non era particolarmente bella, con le gambe lunghe e dritte costrette a portarsi a spasso un busto corto e largo da corazziere. Avanzava sopra al pallone masticandolo, sempre sul punto di perderlo senza mai perderlo davvero. Come i numeri 10 eleganti, però, Zauli era maestro di elusività: il linguaggio del suo corpo e le sue intenzioni entravano in contraddizione fino a un sottilissimo filo d’ambiguità.
Aggancio aereo di destro, dribbling al volo col ginocchio sinistro. Poi si ferma, fa una finta misteriosa, rientra verso il centro e serve l’assist a Luiso dietro la testa di Aldair. «La tribuna Monte Mario e mezza Tevere erano piene di gente che mi conosce. Dovevo per forza fare bella figura» ha dichiarato nel post-partita, lui che ha tutta la famiglia romanista.
Quando portava palla, Zauli sembrava sbilanciarsi volontariamente, rallentava fino a ridurre la propria azione a una serie di micro-movimenti, tendendo il proprio corpo fin dove non sembrava poter arrivare. Lì, in quel territorio di precarietà, riusciva sempre a recuperare il proprio equilibrio sempre un attimo prima del difensore. Zauli dribblava col busto, e le gambe lo seguivano successivamente, in leggero ritardo. Come se i pezzi del suo corpo riuscissero a stare insieme solo grazie a un linguaggio tortuoso e quasi impossibile. Guardiamo questo gol realizzato ai tempi del Bologna. Quando entra in area da sinistra, stappando la palla a rientrare col sinistro, la sua complessiva rigidità rende quasi inspiegabile la riuscita di quel dribbling. Persino lui sembra sorpreso quando abbassa la testa e si trova la palla incollata al sinistro.
Dentro quella coordinazione scoordinata c’è il compromesso che Zauli ha raggiunto per accordare il suo talento a un fisico sproporzionato. Zauli era davvero un freak, ma di quella categoria di freak che non hanno i superpoteri ma un insieme di qualità stonate: non era il gigante che sollevava le montagne ma il gigante che camminava in equilibrio sospeso su un filo.
Zauli era soprannominato “Lo Zidane della B”, per via della carriera provinciale; “Il Principe”, per una pigrizia verso le cose pratiche: «Sì è vero, di solito chiedo una mano nelle piccole cose. Mi passi questo, mi prendi quello… Un giorno non riuscivo a far funzionare la lavatrice, così ho chiamato Schenardi, mio vicino di casa, che mi ha risolto il problema». Ma il soprannome che meglio lo descrive è quello che gli ha attribuito Ulivieri: “Anatrone”, che richiama l’immagine di un cigno svegliatosi nel corpo di un’anatra gigante, costretta a sguazzare sempre in uno stagno troppo piccolo.Uno dei tanti esempi di Zauli che controlla i suoi centonovanta centimetri con una grazia da ballerina.
Oggi la stranezza di Zauli viene interpretata come anacronismo, come qualcosa di impossibile nel calcio attuale. Ma è davvero così?